L’imposta progressiva: un ruolo localizzato ma essenziale

Sarebbe però sbagliato concludere che la progressività fiscale rivesta un ruolo solo limitato, nella redistribuzione moderna. In primo luogo, anche se il prelievo è, nel suo complesso, abbastanza proporzionale per la maggioranza della popolazione, il fatto che il tasso cresca sensibilmente – o scenda nettamente – per i redditi o i patrimoni più elevati, potrebbe avere un impatto dinamico molto rilevante sulla struttura complessiva delle disuguaglianze. In particolare, tutto farebbe pensare che la progressività fiscale sui redditi e sulle successioni di maggiore entità, spieghi in parte perché la concentrazione di patrimoni, dopo le catastrofi del 1914-45, non sia mai tornata ai livelli astronomici della belle époque. Mentre, al contrario, è proprio il calo spettacolare della progressività sugli alti redditi, registratosi negli Stati Uniti e nel Regno Unito dopo gli anni settanta e ottanta, a spiegare in gran parte l’escalation degli altissimi guadagni, anche se i due paesi erano, nel secondo dopoguerra, i più distanti da questa modalità fiscale. In secondo luogo, la crescita della concorrenza fiscale nel corso degli ultimi decenni, in un contesto di libera circolazione dei capitali, ha portato a uno sviluppo senza precedenti dei regimi in deroga riguardanti i redditi da capitale, redditi che ormai un po’ in tutto il mondo sfuggono in gran parte al calcolo progressivo dell’imposta sul reddito. Soprattutto in Europa perché il continente è spezzettato in tanti piccoli Stati di piccole o medie dimensioni che finora si sono dimostrati incapaci di sviluppare un minimo di coordinamento in materia fiscale. Per cui assistiamo a un’interminabile gara a inseguirsi per ridurre in particolare l’imposta sui redditi delle società e per detassare gli interessi, i dividendi e gli altri redditi finanziari previsti dal regime impositivo comune, al quale sono soggetti i redditi da lavoro.

La conseguenza è che il prelievo fiscale sui vertici della gerarchia dei redditi è diventato oggi, nella maggioranza dei paesi, di tipo non progressivo ma regressivo – o quantomeno sta per diventarlo. Per esempio, una stima dettagliata effettuata in Francia sull’anno 2010, considerando la totalità dei prelievi fiscali obbligatori e attribuendoli individualmente a seconda dei redditi e dei patrimoni detenuti, ha dato il seguente risultato. Il tasso globale d’imposta (in media il 47% del reddito nazionale, in questa stima) è circa il 40-45% per la metà della popolazione che detiene i redditi più bassi, passa poi a circa il 45-50% per il 40% intermedio, prima di scendere per il 5% dei redditi composto da chi detiene i redditi più elevati e scende ancora per l’1% più ricco e lo 0,1% ancora più agiato appena al 35%. Per i più poveri, un’aliquota d’imposta tanto alta si spiega con l’alto livello d’imposta sui consumi e i contributi sociali (equivalenti in totale, in Francia, ai tre quarti dei prelievi fiscali). La lieve progressività osservata passando alle classi medie si spiega con la crescita dell’imposta sul reddito. Mentre la netta regressività osservata per i centili superiori si spiega con la rilevanza assunta dai redditi da capitale e con il fatto che eludono in gran parte il calcolo progressivo e che pertanto non possono compensare per intero le imposte che pesano sullo stock di capitale (che sono le imposte di gran lunga più progressive).4 Tutto fa pensare che la curva a U rovesciata si riprodurrebbe anche negli altri paesi europei (e probabilmente negli Stati Uniti) e che essa sia in realtà ancora più marcata di quanto indichi questa stima, certamente imperfetta.5

Se la regressività fiscale al vertice della gerarchia sociale dovesse confermarsi e ampliarsi in futuro, è probabile che l’anomalia avrebbe conseguenze gravi sulla dinamica delle disuguaglianze patrimoniali e favorirebbe il ritorno di una fortissima concentrazione del capitale. Del resto è più che evidente che un tale distacco fiscale dei più ricchi sarebbe potenzialmente alquanto dannoso per il consenso fiscale nel suo insieme. La relativa armonia attorno allo Stato fiscale e sociale, già di fragile in tempi di crescita debole, diminuirebbe ulteriormente, soprattutto presso le classi medie, le quali faticano già ora ad accettare di pagare di più rispetto alle classi più elevate. Il dislivello impositivo non può che favorire la crescita degli individualismi e degli egoismi: se il sistema è ingiusto nel suo complesso, perché si deve continuare a pagare per gli altri? Ecco il motivo per cui è essenziale, per lo Stato sociale moderno, che il sistema fiscale in essere mantenga un minimo di progressività, o quantomeno non diventi così nettamente regressivo come rischia di diventare quando ci si avvicina alle soglie più alte della ricchezza.

Bisogna inoltre aggiungere che questo modo di rappresentare la progressività del sistema fiscale, facendo perno sulla gerarchia dei redditi, omette per definizione di prendere in considerazione le risorse acquisite tramite l’eredità,6 risorse che abbiamo visto diventare sempre meno trascurabili. Ebbene sì: in pratica l’eredità è tassata molto meno dei redditi.7 Ed è una circostanza, come abbiamo visto nella Parte terza (cap. 11), che contribuisce a rafforzare il “dilemma di Rastignac”. Se si classificassero gli individui in base al centile delle risorse totali ricevute nel corso di un’intera vita (redditi da lavoro più eredità capitalizzate) – che sarebbe già un modo più soddisfacente per rappresentarsi la questione della progressività –, la curva a U rovesciata, al vertice della classificazione, sarebbe ancor più regressiva di quanto già non sia considerando unicamente i redditi.8

In ultimo, bisogna sottolineare il fatto che la globalizzazione commerciale, caricando di una pressione particolarmente forte i lavoratori meno qualificati dei paesi ricchi, potrebbe, in assoluto, giustificare un aumento della progressività fiscale e non una sua diminuzione, il che complicherebbe ancora di più il contesto d’insieme. Certo, dal momento che si vuol mantenere un tasso globale di prelievi fiscali obbligatori corrispondente alla metà del reddito nazionale, diventa inevitabile che ciascun contribuente sia tassato in proporzioni rilevanti. Invece, se si rinunciasse ad avere una minima progressività globale del prelievo (escludendo le punte massime), si potrebbe benissimo immaginare una progressività più marcata.9 La soluzione non risolverebbe tutti i problemi, ma basterebbe perlomeno a migliorare in misura sensibile la condizione dei meno qualificati.10 Se poi l’accresciuta progressività fiscale non viene attuata, non ci si deve stupire del fatto che chi beneficia di meno del libero scambio (o a volte ne viene danneggiato nettamente) abbia la tendenza a metterlo in discussione. L’imposta progressiva è uno strumento indispensabile per far sì che ciascuno benefici della globalizzazione, e la sua assenza sempre più assurda potrebbe portare a una messa in discussione della globalizzazione stessa. Torneremo sull’argomento nel prossimo capitolo.

Per queste varie ragioni, l’imposta progressiva è un elemento fondamentale per lo Stato sociale: ha svolto un ruolo essenziale nel suo sviluppo e nella trasformazione della struttura delle disuguaglianze nel XX secolo, e costituirebbe una istituzione centrale per assicurarne la vitalità nel XXI secolo. Anche se si tratta di un’ipotesi oggi gravemente minacciata, sul piano intellettuale (le differenti funzioni della progressività non sono mai state pienamente discusse) come sul piano politico (la concorrenza fiscale ha permesso a intere categorie di reddito di sottrarsi alle regole del diritto comune).

Il capitale nel XXI secolo
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