I fondi petroliferi conquisteranno il mondo?

Fino a che livello potranno salire i fondi sovrani nei decenni a venire? Secondo le stime disponibili, notoriamente imperfette, la totalità degli investimenti dei fondi sovrani equivale nel 2013 a poco più di 5300 miliardi di dollari, di cui circa 3200 miliardi in fondi di paesi petroliferi (aggiungiamo ai principali fondi citati un gran numero di fondi meno importanti: Dubai, Libia, Kazakistan, Algeria, Iran, Azerbaigian, Brunei, Oman ecc.) e più o meno 2100 miliardi in fondi di paesi non petroliferi (soprattutto Cina, Hong Kong, Singapore, più fondi minori di molti altri paesi40). Secondo gli ordini di grandezza già ricordati, si tratta quasi esattamente della stessa massa della ricchezza globale detenuta dai miliardari censiti da Forbes (circa 5400 miliardi di dollari nel 2013). Per capirci: oggi i miliardari possiedono più o meno l’1,5% del totale dei patrimoni privati nel mondo, e i fondi sovrani possiedono a loro volta l’equivalente dell’1,5% circa del patrimonio privato mondiale. Tranquilli, però: il dato, pur impressionante, fa sì che il 97% del capitale mondiale resti a disposizione del resto del pianeta.41 È anche possibile applicare ai fondi sovrani le medesime proiezioni applicate ai miliardari, e concludere che nella seconda metà del XXI secolo essi non assumeranno un rilievo preponderante – un po’ più del 10-20% del capitale mondiale –, tanto che la prospettiva di dover pagare il nostro affitto mensile all’emiro del Qatar (o al contribuente norvegese) appare ancora piuttosto lontana. In ogni caso, anche se per il momento le cose stanno in questo modo, sarebbe sbagliato ignorare il problema. In primo luogo, nulla ci vieta di preoccuparci dell’affitto che dovranno pagare i nostri figli e nipoti – e non occorre aspettare, per preoccuparcene, che l’aumento degli affitti raggiunga un’ampiezza maggiore. In secondo luogo, una buona parte del capitale mondiale assume forme sempre meno liquide (capitale immobiliare e professionale, non convertibile sui mercati finanziari), per cui la quota detenuta dai fondi sovrani, e in minor misura dai miliardari, nelle attività finanziarie – quota immediatamente disponibile per acquisire, volendo, un’impresa in fallimento o un club calcistico, oppure investire in un quartiere in difficoltà supplendo alle carenze di uno Stato senza soldi – diventa in realtà ben più elevata.42 Di fatto, il problema degli investimenti provenienti dai paesi produttori di petrolio si fa sempre più sentire nell’ambito dei paesi ricchi, in particolare in Francia, paese che – come abbiamo già notato nella Parte seconda del libro – è certo uno dei meno preparati sul piano psicologico al grande ritorno del capitale.

In terzo luogo, e soprattutto, la differenza di fondo rispetto alle quote dei miliardari sta nel fatto che i fondi sovrani – perlomeno quelli dei paesi produttori di petrolio – cresceranno non solo per effetto della ricapitalizzazione del loro rendimento, ma anche per effetto delle bollette petrolifere che pagheremo in abbondanza ai fondi stessi nei decenni a venire. Ora, anche se esistono molte incertezze in proposito – in merito sia al volume delle riserve sia all’aumento della domanda e al prezzo del petrolio –, tutto sembra indicare che gli introiti assicurati dal petrolio possano largamente superare quelli assicurati dai rendimenti da capitale. La rendita annua procurata dallo sfruttamento delle risorse naturali, vale a dire la differenza tra le entrate e le uscite dovute ai costi di produzione, equivale, dal 2005, al 5% circa del PIL mondiale (metà per la rendita petrolifera propriamente detta, metà per le altre risorse naturali: soprattutto gas, carbone, minerali, legname), contro il 2% circa degli anni novanta e l’1% scarso dell’inizio degli anni settanta.43 Secondo alcuni modelli di previsione, il prezzo del petrolio, attualmente attorno ai 100 dollari al barile (contro i 25 dollari dell’inizio del XXI secolo), potrebbe stabilizzarsi, a partire dal 2020-30, attorno ai 200 dollari. Se una quota abbastanza rilevante della rendita corrispondente verrà collocata ogni anno in fondi sovrani (una parte che dovrebbe comunque aumentare non poco rispetto ai ritmi attuali), è possibile ipotizzare uno scenario in cui, da qui al 2030-40, le attività dei fondi sovrani supererebbero il 10-20% del totale dei patrimoni mondiali. Non c’è alcuna legge economica che possa impedire una simile traiettoria: tutto dipende dalle condizioni della domanda e dell’offerta, dalla scoperta o meno di nuovi giacimenti o nuove fonti di energia e dalla velocità con la quale ci abitueremo a vivere senza petrolio. Nel caso particolare, è quasi inevitabile che i fondi petroliferi continuino a crescere come stanno crescendo oggi e che la loro quota nella composizione delle attività mondiali sia, da qui al 2030-40, almeno due o tre volte più alta di quella di oggi, il che rappresenterebbe già una crescita considerevole.

Se si dovesse delineare una traiettoria del genere, sarà il caso che i paesi occidentali comincino ad abituarsi all’idea di diventare in buona parte proprietà dei fondi petroliferi, cosa che comporterebbe a più o meno breve scadenza conseguenze politiche di varia natura, come restrizioni delle possibilità d’acquisto e di possesso di attività immobiliari, industriali e finanziarie nazionali da parte dei fondi sovrani, fino a vere e proprie forme di espropriazione, parziale o totale. Si tratterebbe di conseguenze politicamente poco attraenti ed economicamente poco opportune, ma che un governo nazionale, anche di piccolo calibro, ha l’obbligo di mettere in conto. In ogni caso, si può notare che gli stessi paesi produttori di petrolio hanno già iniziato a ridurre i propri investimenti esteri e hanno preso a investire sul proprio territorio, costruendovi musei, alberghi, università, stazioni sciistiche, a volte di dimensioni smisurate dal punto di vista della razionalità economica e finanziaria. Il che può essere interpretato come una prima presa di coscienza di come sia più difficile essere espropriati in casa propria che all’estero. Nulla garantisce, tuttavia, che il processo si realizzi in modo pacifico: nessuno sa dove stia esattamente la soglia psicologica e politica che non deve assolutamente essere superata, in fatto di proprietà di un paese da parte di un altro.

Il capitale nel XXI secolo
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