Una crescita demografica negativa?
Va da sé che previsioni del genere sono piuttosto incerte. Da un lato dipendono dal progresso dell’aspettativa di vita (dunque, in parte, dalle scoperte scientifiche in campo medico), dall’altro dalle scelte che faranno le generazioni a venire riguardo alla propria fecondità. In presenza di una determinata aspettativa di vita, la crescita demografica deriva automaticamente dalla fecondità. Il punto più importante da capire è che le piccole variazioni nel numero di bambini che le persone decidono di avere possono comportare effetti considerevoli a livello di un’intera società.4
Ebbene, tutta la storia della demografia dimostra che le scelte di fecondità sono in gran parte imprevedibili. Esse dipendono da considerazioni insieme culturali, economiche, psicologiche e personali, legate agli obiettivi di vita che gli individui si fissano da soli. Possono anche dipendere dalle condizioni materiali che i diversi paesi decidono o meno di mettere in campo per conciliare vita familiare e vita professionale (scuole, asili nido, uguaglianza dei sessi ecc.), problema che assumerà sicuramente un ruolo crescente nei dibattiti e nelle politiche pubbliche del XXI secolo. Al di là della prospettiva sopra descritta, è osservabile, nella storia delle popolazioni, ogni sorta di specificità regionale e di cambiamenti anche spettacolari, sovente legati alle peculiarità di ciascuna storia nazionale.5
Il cambio di tendenza più spettacolare riguarda certo l’Europa e l’America. Nessuno avrebbe potuto immaginare, nel 1780, quando i paesi dell’Europa occidentale contavano già più di 100 milioni di abitanti, e l’America del Nord appena 3 milioni, che l’equilibrio si sarebbe rovesciato fino a questo punto. Oggi l’Europa occidentale supera di poco i 410 milioni, contro i 350 milioni dell’America del Nord. Secondo le previsioni delle Nazioni Unite, il processo di riequilibro sarà completato entro il 2050, quando l’Europa occidentale raggiungerà a stento i 430 milioni di abitanti, contro i 450 milioni abbondanti dell’America del Nord. È interessante notare che il capovolgimento si spiega non soltanto con i flussi migratori, ma anche con una fecondità sensibilmente più elevata nel Nuovo Mondo rispetto alla vecchia Europa, divario che si è peraltro mantenuto fino a oggi, anche tra le popolazioni di origine europea, e che è in gran parte un mistero per i demografi. In particolare, la maggiore fecondità americana non si spiega certo con politiche familiari più generose, pressoché inesistenti oltreoceano.
Dobbiamo leggervi una maggiore fiducia nel futuro, l’ottimismo tipico del Nuovo Mondo, un’inclinazione più marcata a proiettarsi – proiettare se stessi e i propri figli – in un mondo in perpetua crescita? Trattandosi di scelte complesse, come sono le decisioni di fecondità, non si può escludere a priori nessuna spiegazione psicologica o culturale. E non c’è nulla di già scritto: la crescita demografica americana non accenna a decrescere, ma tutto potrebbe cambiare qualora i flussi migratori in direzione dell’Unione Europea continuassero ad aumentare, qualora la fecondità europea torni a crescere o qualora l’aspettativa di vita faccia segnare un indice più positivo rispetto all’America. Le previsioni dell’ONU non sono in ogni caso delle certezze.
Cambi di tendenza altrettanto spettacolari si osservano anche all’interno di ciascun continente. In Europa, la Francia del XVIII secolo risulta essere il paese più popolato (come abbiamo già notato, Young e Malthus vi leggono l’origine della miseria delle campagne francesi, ovvero della Rivoluzione), dopodiché si distingue, nel XIX secolo, per una transizione demografica insolitamente precoce, con una caduta delle nascite e una relativa stagnazione della popolazione (fenomeno in genere attribuito a un processo di scristianizzazione altrettanto precoce), e infine, nel XX secolo, per un rialzo ugualmente insolito della natalità (rialzo spesso associato alla politica familiare attuata dopo i conflitti militari e i traumi della disfatta del 1940). La scommessa francese, del resto, sta avendo successo, e, nonostante le previsioni delle Nazioni Unite, la popolazione francese dovrebbe superare, intorno alla metà del XXI secolo, quella della Germania, sebbene, in merito all’inversione di tendenza, non emergano motivazioni – economiche, politiche, culturali, psicologiche – scientificamente attendibili.6
Su scala più ampia, tutti conoscono le conseguenze della politica cinese del figlio unico (decisa negli anni settanta, in un momento in cui il paese temeva di non riuscire a liberarsi della condizione di sottosviluppo, e attualmente in via di abbandono). La popolazione cinese, oggi, sta per essere superata da quella dell’India, mentre, finché è stata adottata la politica radicale del figlio unico, la superava del 50%. Secondo l’ONU, la popolazione indiana, tra il 2020 e il 2100, dovrebbe diventare la più numerosa del mondo. Ma, anche in questo caso, non c’è nulla di già scritto: la storia della popolazione mescolerà sempre scelte individuali, strategie di sviluppo e psicologie nazionali, moventi personali e volontà di potenza. Nessuno può seriamente prevedere quelle che saranno le svolte demografiche del XXI secolo.
Ecco perché sarebbe presuntuoso considerare le previsioni ufficiali delle Nazioni Unite diversamente da quello che sono: uno “scenario principale”. Del resto l’ONU fissa anche altre stime previsionali, e gli scarti tra i differenti scenari, nella prospettiva del 2100, sono – e la cosa non può certo sorprendere – estremamente rilevanti.7
Resta il fatto che lo “scenario principale” sia di gran lunga il più plausibile al livello attuale delle nostre conoscenze. Tra il 1990 e il 2012 la popolazione mondiale nel suo complesso è stata già in fase di quasi completa stagnazione, e di diminuzione in numerosi paesi. La fecondità tedesca, italiana, spagnola e polacca è divenuta, nel primo decennio del XXI secolo, inferiore a 1,5 bambini per donna, e solo l’allungamento dell’aspettativa di vita, raddoppiato dai forti flussi migratori, può evitare un rapido calo della popolazione. In tali condizioni, prevedere in Europa, come fa l’ONU, una crescita demografica zero fino al 2030, seguita da tassi leggermente negativi dal 2030 in poi, non ha nulla di eccessivo e pare la previsione più ragionevole. La stessa cosa vale per la crescita prevista in Asia e altrove: le generazioni che nascono oggi in Giappone o in Cina sono di un terzo meno numerose rispetto a quelle che hanno visto la luce negli anni novanta del Novecento. La transizione demografica è in gran parte già scritta. Cambiamenti nelle scelte individuali e politiche adottate possono senza dubbio modificare marginalmente la crescita prevista – per esempio i tassi di poco negativi (come in Giappone o in Germania) potrebbero diventare di poco positivi (come in Francia o nei paesi scandinavi), il che costituirebbe già una differenza importante –, ma non possono fare molto di più, almeno per i prossimi decenni.
Per quanto riguarda il lunghissimo termine, tutto è evidentemente molto più incerto. Possiamo comunque notare che, se lo stesso ritmo di crescita demografica osservato tra il 1700 e il 2012 – ovvero lo 0,8% annuo – dovesse proseguire nel corso dei secoli a venire, avremmo nel 2300 una popolazione mondiale di circa 70 miliardi. Certo non si può escludere nulla, in fatto di comportamenti di fecondità o di progressi tecnologici (i quali favoriranno forse, un giorno, una civiltà molto meno inquinante di quella che riusciamo a immaginare oggi, con nuovi beni e servizi pressoché interamente smaterializzati, e fonti di energia rinnovabili ed esenti da qualsiasi traccia di idrocarburi). Ma, a questo punto, non è esagerato dire che una popolazione mondiale di 70 miliardi di abitanti non sembra né particolarmente plausibile né particolarmente auspicabile. L’ipotesi più probabile è che il tasso di crescita della popolazione mondiale nei prossimi secoli sarà molto al di sotto dello 0,8%. La previsione ufficiale, che è quella di una crescita demografica positiva ma debole – 0,1-0,2% annuo – sembra, a priori, abbastanza plausibile sul lunghissimo termine.