Le dinamiche della divisione capitale-lavoro nel medio termine

Abbiamo appena visto che l’ipotesi Cobb-Douglas circa una completa stabilità della divisione capitale-lavoro non aiuterebbe a dar conto in modo del tutto soddisfacente delle evoluzioni a lungo termine della divisione capitale-lavoro. Non solo. Non aiuterebbe neppure nel caso dei processi a breve e medio termine, i quali possono svilupparsi anche su periodi abbastanza lunghi, soprattutto dal punto di vista dei contemporanei che li vivono in prima persona.

Il caso più significativo, già ricordato nell’Introduzione, è senza dubbio quello della crescita della quota di capitale durante le prime fasi della Rivoluzione industriale, tra i due periodi 1800-10 e 1850-60. Per il Regno Unito, dove i dati relativamente completi e le ricerche storiche di cui disponiamo, in particolare quella di Robert Allen (il quale ha battezzato Engels’ pause quel periodo di stagnazione salariale), suggeriscono che la quota di capitale sia cresciuta di circa dieci punti di reddito nazionale, passando da circa il 35-40% alla fine del XVIII secolo a circa il 45-50% a metà del XIX, ossia all’epoca in cui è stato redatto il Manifesto del partito comunista e in cui Marx si accingeva alla stesura del Capitale. Secondo i dati di cui disponiamo, la crescita sembrerebbe più o meno compensata da un calo corrispondente della quota di capitale tra il 1870 e la fine dell’Ottocento, seguito da un leggero rialzo nel periodo 1900-10, per cui, durante la belle époque, la quota di capitale non si è, nella sostanza, discostata granché da quella registrata durante il periodo rivoluzionario e napoleonico (cfr. grafico 6.1). Tanto che si può benissimo parlare di dinamica di “medio termine” e non di tendenza di lunga durata o di lungo termine. Resta il fatto che la crescita di 10 punti di reddito nazionale nella prima metà del XIX secolo è tutt’altro che trascurabile: in concreto, la quota essenziale della crescita del periodo è andata a incrementare i profitti, mentre i salari – oggettivamente miserabili all’epoca – sono rimasti fermi. E secondo Allen, la crescita si spiega innanzitutto con l’afflusso di manodopera prodotta dall’esodo rurale, in parallelo con l’aumento strutturale della produttività del capitale nella “funzione di produzione”, aumento propiziato dalle trasformazioni tecnologiche: in altri termini, i capricci della tecnologia.26

I dati storici disponibili per la Francia suggeriscono una cronologia analoga. In particolare, tutte le fonti indicano una grande stagnazione dei salari operai nel periodo 1810-50, contemporanea alla crescita massima dell’industria. I dati raccolti da Jean Bouvier e François Furet, sulla base dei bilanci delle grandi aziende industriali francesi del XIX secolo, confermano a loro volta la suddetta cronologia: crescita della quota dei profitti fino al periodo 1850-60, calo tra il 1870 e la fine del XIX secolo, nuovo rialzo nel periodo 1900-10.27

Anche i dati disponibili per il XVIII secolo e il periodo della Rivoluzione francese suggeriscono da un lato una crescita della quota di rendita fondiaria nei decenni precedenti la Rivoluzione (il che è coerente con le osservazioni di Arthur Young sulla miseria dei contadini francesi)28 e dall’altro una forte crescita dei salari tra il 1789 e il 1815 (spiegabili sia con le redistribuzioni di terra sia con la mobilitazione della manodopera, fatti entrambi legati ai conflitti militari).29 Visto dalla prospettiva della Restaurazione e della monarchia di Luglio, il periodo rivoluzionario e napoleonico lascerà perciò un buon ricordo nelle classi popolari.

Per far capire bene come queste dinamiche incessanti di breve e medio termine della divisione capitale-lavoro si ritrovino in tutte le epoche, nei grafici 6.6 e 6.8 abbiamo anche indicato la curva annua della divisione capitale-lavoro in Francia dal 1900 al 2010, distinguendo per un verso la traiettoria della divisione profitti-salari da quella del valore aggiunto delle imprese,30 e per l’altro la traiettoria della quota degli affitti nella composizione del reddito nazionale. Si noterà, in dettaglio, che la divisione profitti-salari ha conosciuto, dopo la seconda guerra mondiale, tre fasi ben distinte: una forte crescita della quota di profitti dal 1945 al 1968, un calo accentuato dal 1968 al 1983 e una ripresa molto rapida a partire dal 1983, con una sostanziale stabilizzazione a partire dagli anni novanta. Torneremo su questa cronologia, molto politica, nei prossimi capitoli, quando studieremo la dinamica delle disuguaglianze di reddito. Per ora ci limitiamo a rilevare la crescita continua della quota degli affitti dopo il 1945: in altri termini, la quota di capitale, considerato nel suo insieme, non ha fatto altro che progredire nel corso degli anni, dal 1990 al 2010, a dispetto della stabilizzazione della quota di profitti.

Grafico 6.6.
La quota di profitti nel valore aggiunto delle imprese in Francia, 1900-2010

La quota di profitti lordi nel valore aggiunto lordo delle imprese è passata dal 25% nel 1982 al 33% nel 2010; nello stesso periodo la quota di profitti netti nel valore aggiunto netto delle imprese è passata dal 12% al 20%
Fonti e dati: cfr. http://piketty.pse.ens.fr/capital21c.

Grafico 6.7.
La quota degli affitti nella composizione del reddito nazionale in Francia, 1900-2010

La quota degli affitti (valore locativo delle abitazioni) è passata dal 2% del reddito nazionale nel 1948 al 10% nel 2010.
Fonti e dati: cfr. http://piketty.pse.ens.fr/capital21c.

Grafico 6.8.
La quota di capitale nella composizione del reddito nazionale in Francia, 1900-2010

La quota dei redditi da capitale (profitti e affitti netti) è passata dal 15% del reddito nazionale nel 1982 al 27% nel 2010.
Fonti e dati: cfr. http://piketty.pse.ens.fr/capital21c.
Il capitale nel XXI secolo
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