Griglie salariali e salario minimo

Come dimostrano le esperienze francese e americana, non ci sono dubbi sul fatto che il salario minimo svolga un ruolo essenziale nella formazione e nella crescita delle disuguaglianze salariali. In questo campo, ogni paese ha la sua storia specifica, la sua cronologia particolare. E non ce ne dobbiamo stupire: le regole del mercato del lavoro dipendono soprattutto dalle percezioni e dalle norme di giustizia sociale vigenti nella società considerata, e sono intimamente legate alla storia sociale, politica e culturale propria di ciascun paese. Negli anni cinquanta-sessanta gli Stati Uniti utilizzano il salario minimo per accrescere il modesto livello dei salari, poi, a partire dagli anni settanta-ottanta, ne tralasciano il regolare utilizzo. In Francia succede esattamente il contrario: negli anni cinquanta-sessanta il salario minimo è congelato, mentre a partire dagli anni settanta viene utilizzato con una regolarità sempre maggiore. Il grafico 9.1 illustra il contrasto in modo sorprendente.

Potremmo fare altri esempi di salari minimi nazionali. Il Regno Unito ha scelto di introdurre un salario minimo nazionale solo nel 1999, a un livello intermedio tra gli Stati Uniti e la Francia: attualmente è di 6,19 sterline l’ora (circa 8,05 euro8). paesi come la Germania e la Svezia hanno deciso di non fissare un salario minimo a livello nazionale, e di lasciare ai sindacati il compito di contrattare con i lavoratori il salario minimo – più spesso, le griglie salariali nel loro complesso – a livello di ciascun settore di attività. In pratica, nei due paesi, il minimo è attualmente superiore a 10 euro l’ora in numerosi settori (dunque più alto rispetto ai paesi dotati ufficialmente di un salario minimo), anche se può essere sensibilmente inferiore in determinati settori poco regolamentati o poco sindacalizzati. Onde fissare una piattaforma comune, la Germania, prevede di introdurre nel 2013-14 un salario minimo nazionale. È evidente che non si tratta, qui, di scrivere la storia dettagliata dei salari minimi e delle griglie salariali nei vari paesi, e del loro impatto sulle disuguaglianze salariali. Più modestamente, si tratta piuttosto di indicare in breve secondo quali principi generali sia possibile analizzare quelle istituzioni che regolano in tutti i paesi la composizione dei salari.

In sostanza, qual è il senso effettivo di norme e griglie salariali più o meno rigide o di un salario minimo in sé? Il primo criterio è semplicemente collegato al fatto che non è sempre facile conoscere, in ogni momento e in ogni luogo, la produttività marginale di un dato salariato. Nel settore pubblico il calcolo è chiaro, ma non lo è altrettanto nel settore privato: non è facile sapere, all’interno di un’organizzazione composta da parecchie decine di salariati, a volte da parecchie decine di migliaia, qual è esattamente il contributo di un singolo salariato al prodotto complessivo. È certo possibile ottenere una stima approssimativa, quantomeno per le funzioni e le mansioni duplicabili – tali cioè da essere svolte da più salariati in modo identico o quasi identico. Per esempio, per un operaio alla catena di montaggio o un cameriere di McDonald’s, l’azienda può calcolare quanto le costerebbe – in termini di costo supplementare – avere un operaio o un cameriere in più. Ma si tratterà pur sempre di una stima approssimativa, di un intervallo di produttività e non di una certezza assoluta. Per cui, in tali condizioni, come andranno fissati i salari? Parecchie ragioni suggeriscono che lasciare all’imprenditore il potere assoluto di fissare ogni mese, o magari ogni giorno (perché no?), il salario di ogni suo dipendente può comportare non solo arbitrio e ingiustizia, ma anche inefficienza per l’impresa nel suo complesso.

In particolare, può essere un bene per tutti far sì che i salari siano relativamente stabili nel tempo, e non si modifichino di continuo a seconda delle vendite – sempre imprevedibili – dell’impresa. Molto spesso, infatti, i proprietari e i dirigenti d’azienda dispongono di redditi e patrimoni assai più elevati di quelli dei loro salariati, e possono dunque ammortizzare più facilmente gli eventuali disavanzi di reddito a breve termine. In tali condizioni, è interesse di tutti che il contratto salariale preveda pure una clausola assistenziale, in base alla quale il salario venga garantito nel tempo e confermato più o meno identico ogni mese (il che non esclude il pagamento di indennità e bonus). Quella della cadenza mensile dei salari è una rivoluzione che si impone un po’ per volta in tutti i paesi sviluppati nel corso del XX secolo, nelle leggi e nelle contrattazioni tra salariati e datori di lavoro. Il salario giornaliero, che era la norma fino al XIX secolo, a poco a poco scompare. Si tratta di una conquista fondamentale nella storia del salariato come gruppo sociale determinato, connotata in modo particolare da uno statuto e da una retribuzione stabile e definita – nettamente distinto dal piccolo popolo degli operai e degli artigiani pagati in base al lavoro compiuto giornalmente, secondo una caratteristica delle società dei secoli XVIII e XIX.9

La giurisdizione dei salari fissati in anticipo comporta evidentemente dei limiti. Se le vendite calano di molto e il calo dura a lungo, il mantenimento dei salari e dell’impiego ai livelli precedenti può portare senza possibilità di scampo al fallimento dell’impresa. È tutta una questione di livelli: il fatto che i salari bassi e medi siano globalmente molto più stabili del livello di prodotto, e che i profitti e i salari più alti assorbano in gran parte la volatilità di breve termine, è una buona cosa: ma va evitata la rigidità salariale assoluta.

Oltre a questo argomento fondato sull’incertezza e sulla condivisione dei rischi, l’altro argomento classico a favore dei salari minimi e delle griglie salariali riguarda i cosiddetti “investimenti specifici”. In concreto, le funzioni e i compiti particolari da svolgere in una data impresa esigono spesso da parte dei salariati investimenti specifici in quell’impresa, in quanto funzioni e compiti che non sarebbero di alcuna utilità – o sarebbero quantomeno di utilità limitata – in altre imprese: si tratta, per esempio, di metodi di lavoro, dell’organizzazione o delle competenze specifiche legate al processo di produzione proprio dell’azienda considerata. Quando il salario può essere fissato unilateralmente e modificato in qualsiasi momento dall’imprenditore, senza che i salariati conoscano in anticipo la propria retribuzione, esistono forti possibilità che i salariati non “investano” più se stessi nell’azienda come dovrebbero. È quindi auspicabile che, nell’interesse generale, il compenso di imprenditori e subalterni sia fissato in anticipo. Oltre che alle griglie salariali, l’argomento fondato sulla nozione di investimento specifico si applica anche ad altre scelte in merito alla vita di un’impresa, e costituisce la ragione principale per limitare il potere degli azionisti – giudicati a volte troppo legati ai successi di breve termine – e per istituire una proprietà collettiva e condivisa tra tutti gli stakeholder dell’impresa (compresi i salariati), come insegna il modello del “capitalismo renano” ricordato nella Parte seconda. E si tratta senza dubbio dell’argomento più importante a sostegno alle griglie salariali.

Più in generale, dal momento che i datori di lavoro dispongono di un potere di contrattazione superiore a quello dei salariati, e dal momento che ci si allontana dalle condizioni di concorrenza “pura e perfetta” descritte nei modelli teorici più elementari, si può limitare giuridicamente il potere dei datori di lavoro istituendo regole severe sui salari. Per esempio, se un piccolo gruppo di datori di lavoro viene a trovarsi in una posizione di “monopsonio” sul mercato del lavoro locale – ossia, se quegli imprenditori sono praticamente gli unici in grado di offrire lavoro, soprattutto in conseguenza del fatto della ridotta mobilità di manodopera locale –, essi tenteranno di sfruttare al massimo il proprio vantaggio e di abbassare il più possibile i salari, anche al di sotto della produzione marginale dei salariati. In tali condizioni, imporre un salario minimo può essere non soltanto giusto ma anche efficace, nel senso che un aumento del minimo legale può aiutare l’economia a giovarsi dell’equilibrio concorrenziale e ad accrescere in tal modo il livello d’impiego. Questo modello teorico, basato sulla concorrenza imperfetta, costituisce il supporto più evidente all’esistenza di un salario minimo: si tratta di far sì che nessun datore di lavoro possa sfruttare il proprio vantaggio concorrenziale al di là di un certo limite.

Anche qui, tutto dipende ovviamente dal livello del salario minimo, il cui limite non può essere fissato in assoluto, prescindendo dallo stato generale delle qualifiche e della produttività nella società considerata. Nel caso, molti studi condotti negli Stati Uniti tra gli anni ottanta e l’inizio del XXI secolo, in particolare da Card e Krueger, hanno dimostrato che il salario minimo americano è sceso a un livello talmente basso nel corso del periodo che il suo rialzo avrebbe permesso di aumentare i bassi salari senza perdita d’impiego, o persino con un aumento del livello d’impiego stesso, anche applicando il modello “monopsonio” più puro.10 In base ai loro studi, pare probabile che l’aumento di quasi il 25% del salario minimo previsto negli Stati Uniti (da 7,25 dollari a 9 dollari l’ora) non comporterà perdite d’impiego, o le comporterà in misura minima. È chiaro che il tutto non può perpetuarsi in eterno: alla lunga, l’aumento del salario minimo non può certo evitare effetti negativi sul livello d’impiego. Se si moltiplica il salario minimo per due o per tre, è impossibile che questi effetti non si facciano sentire. In concreto, è più difficile giustificare un forte rialzo del salario minimo in un paese come la Francia, dove esso è relativamente elevato – relativamente al salario medio e al prodotto medio per salariato –, che in un paese come gli Stati Uniti. Per aumentare il potere d’acquisto dei bassi salari in Francia, sarebbe meglio mettere in campo altri strumenti, come il miglioramento delle competenze o la riforma fiscale (due provvedimenti peraltro complementari). In ogni caso il salario minimo non deve essere congelato troppo a lungo: è problematico fare aumentare stabilmente i salari più in fretta del prodotto, ma è altrettanto deleterio fare aumentare i salari – o una componente importante di essi – meno in fretta del prodotto. In tal senso, vanno mobilitate tutte le politiche e le istituzioni pubbliche, e utilizzate nella maniera più adeguata.

Riassumiamo. A lungo termine, investire nella formazione e nelle competenze è il modo migliore per aumentare i salari e ridurre le disuguaglianze salariali. Sul lungo periodo, non sono certo i salari minimi o le griglie salariali a far sì che i salari si moltiplichino per cinque o per dieci: per riuscire a raggiungere un progresso del genere, le forze determinanti sono la formazione e la tecnologia. Con ciò, non è detto che le regole non svolgano un ruolo essenziale per fissare i salari entro intervalli determinati dalla formazione e dalla tecnologia. E possono essere intervalli abbastanza ampi, sia perché la produttività marginale individuale è quantificabile solo in modo approssimativo, sia perché vi intervengono fenomeni di investimento specifico e di concorrenza imperfetta.

Il capitale nel XXI secolo
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