La redistribuzione moderna: una logica di diritti
Riassumendo. La redistribuzione moderna non consiste in un trasferimento di ricchezze dai più ricchi ai più poveri, o quantomeno non consiste in un passaggio così esplicito e diretto. Consiste nel finanziamento di servizi pubblici e di redditi per inattività più o meno uguali per tutti, in particolare nel campo dell’istruzione, della salute e delle pensioni. Nell’ultimo caso, il principio di uguaglianza si esprime attraverso una proporzione quasi perfetta tra salario ottenuto in età lavorativa e pensione.18 Per quanto riguarda l’istruzione e la salute, si tratta poi di un’uguaglianza assoluta: ciascuno accede ai servizi scolastici e sanitari a prescindere dal reddito personale o da quello dei genitori, perlomeno in linea di principio. La redistribuzione moderna è costruita attorno a una logica di diritti e a un principio di parità di accesso a un certo numero di beni ritenuti fondamentali.
In astratto, è possibile trovare giustificazioni a questo approccio in termini di diritti nelle differenti tradizioni politiche e filosofiche nazionali. Il preambolo della Dichiarazione d’indipendenza americana del 1776 si apre con l’affermazione del diritto di ciascuno al perseguimento della felicità.19 Includendovi anche l’istruzione e la salute, possiamo benissimo far risalire l’insieme dei diritti sociali moderni a quell’enunciato di fondo – magari facendo ricorso a un pizzico d’immaginazione, poiché la loro piena conquista è stata assai lunga. Anche l’articolo 1 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 annuncia ugualmente: “Gli uomini nascono e vivono liberi e uguali nei diritti,” e precisa, immediatamente dopo: “Le distinzioni sociali possono fondarsi solo sull’utilità comune.” Si tratta di un’aggiunta importante: perché il secondo postulato, dopo che il primo ha affermato il principio dell’uguaglianza assoluta, dà per scontata l’esistenza di disuguaglianze effettive e reali. Dietro a qualsiasi ragionamento in termini di diritti, affiora sempre una tensione di fondo: fino a che punto può spingersi l’uguaglianza dei diritti? Si tratta solo del diritto di commerciare in piena libertà, di un’uguaglianza nei confronti del mercato – cosa che al tempo della Rivoluzione francese pareva già assolutamente rivoluzionaria? E se vi si include l’uguaglianza del diritto all’istruzione, alla salute, alla pensione, come si è iniziato a fare grazie allo Stato sociale inaugurato nel XX secolo, vi si deve anche includere, oggi, il diritto alla cultura, alla dimora, al viaggiare?
Il secondo enunciato dell’articolo 1 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 ha il merito di fornire una possibile risposta alla domanda, poiché rovescia in qualche modo l’onere della prova: l’uguaglianza è la norma, la disuguaglianza è accettabile solo se fondata sull’“utilità comune”. Una locuzione ancora da definire. Chi ha scritto l’articolo aveva in mente innanzitutto l’abolizione degli ordini e dei privilegi dell’ancien régime, istituzioni che apparivano allora il prototipo stesso della disuguaglianza arbitraria e inutile, cioè inaccettabile per l’“utilità comune”. Ma oggi siamo in grado di dare un’interpretazione più ampia del suddetto principio. Un’interpretazione ragionevole è che le disuguaglianze sociali sono accettabili solo se sono nell’interesse di tutti, in particolare dei gruppi sociali più svantaggiati.20 Occorre perciò estendere quanto più si può i diritti fondamentali e i vantaggi materiali accessibili a tutti, poiché ciò è nell’interesse di chi ha meno diritti e di chi ha meno opportunità di realizzazione.21 Il “principio di differenza” introdotto dal filosofo americano John Rawls nella sua Teoria della giustizia si prefigge più o meno il medesimo obiettivo.22 E l’approccio dell’economista indiano Amartya Sen in termini di “capacità” massime e uguali per tutti discende da una logica non troppo diversa.23
A livello puramente teorico, esiste in realtà un certo accordo – in parte fittizio – sui principi astratti di giustizia sociale. Il disaccordo si manifesta ben più nettamente quando si cerca di dare un po’ più di sostanza a quei diritti sociali e a quelle disuguaglianze, e di materializzarli in contesti storici ed economici specifici. In pratica, i conflitti d’opinione riguardano perlopiù i mezzi con i quali migliorare realmente ed efficacemente le condizioni di vita dei più svantaggiati, l’estensione precisa dei diritti assegnabili a tutti (considerando in particolare i vincoli economici e di bilancio, e le molte incertezze a essi legati), e ancora l’esatta delimitazione dei fattori che gli individui controllano o non controllano (dove cominciano lo sforzo e il merito, dove finisce la fortuna?). Sono domande a cui non sarà mai possibile rispondere con principi astratti o formule matematiche. Vi si può rispondere solo con la decisione democratica e la dialettica politica. Le istituzioni e le regole che presiedono a questi confronti e a queste decisioni sono quindi destinate a svolgere un ruolo fondamentale, al pari dei rapporti di forza e dell’intesa tra fasce sociali. Alla fine del XVIII secolo, le Rivoluzioni americana e francese hanno entrambe affermato il principio assoluto dell’uguaglianza dei diritti – fatto sicuramente straordinario e di progresso per l’epoca. Ma, nella pratica, i regimi politici nati dalle due rivoluzioni hanno più che altro concentrato la loro attenzione, nel corso del XIX secolo, sulla protezione del diritto di proprietà.