Pareto e l’illusione della stabilità delle disuguaglianze
È utile, adesso, provare a fare il punto sul metodo e sulla storia delle stime statistiche. Nel capitolo 7 abbiamo già ricordato il caso dello statistico italiano Corrado Gini e del suo famoso indicatore delle disuguaglianze di un paese, talmente sintetico da finire per dare una visione un po’ troppo tecnica o astratta – e anche poco leggibile – delle disuguaglianze. Un caso più interessante è quello del suo compatriota Vilfredo Pareto, che pubblicò i suoi principali lavori tra fine Ottocento e inizio Novecento e formulò la famosa “legge di Pareto”. Nel periodo tra le due guerre, i fascisti italiani fecero di Pareto, con la sua teoria delle élite, uno degli economisti ufficiali del regime, non senza un senso di rivincita. Va detto che Pareto, poco prima della sua morte, nel 1923, plaudì l’avvento al potere di Mussolini, e in particolare che le sue tesi sull’implacabile stabilità delle disuguaglianze – che a suo parere sarebbe illusorio pretendere di correggere – ebbero tutte le ragioni per suscitare l’entusiasmo delle autorità fasciste.
Ciò che più colpisce, quando si leggono gli studi di Pareto con il distacco di cui ci si avvale oggi, è che l’economista non disponeva di alcun dato probante per giungere alla conclusione di una tale stabilità. Pareto scrive intorno al 1900: utilizza i pochi tabulati fiscali disponibili all’epoca, ricavati dalle imposte sui redditi applicate in Prussia, in Sassonia e in qualche città svizzera o italiana negli anni ottanta-novanta dell’Ottocento. Si tratta di dati frammentari, riferiti tutt’al più a un decennio di rilevamenti, i quali, se mai, indicano l’esatto contrario, cioè una lieve tendenza alla crescita delle disuguaglianze, tendenza che Pareto cerca di mascherare, non senza una certa malafede.30 In ogni caso, è chiaro che materiali del genere non consentono di arrivare ad alcuna conclusione sulle tendenze a lungo termine o sulla stabilità delle disuguaglianze nella storia universale.
Al di là della questione dei pregiudizi politici (Pareto diffidava più che mai dei socialisti e delle loro illusioni redistributrici, non diversamente da molti colleghi dell’epoca, come Leroy-Beaulieu, che apprezzava e su cui torneremo), il caso di Pareto è interessante perché illustra bene l’illusione mai tramontata dell’eterna stabilità delle disuguaglianze, spesso alimentata dall’uso incontrollato della matematica e delle scienze sociali. Cercando di studiare a quale velocità il numero dei contribuenti diminuisce man mano che si sale nella gerarchia dei redditi, Pareto constata che il ritmo di decrescita può essere espresso per approssimazione con una legge che si chiamerà appunto “legge di Pareto”, e che è semplicemente una power law, una legge di potenza.31 In effetti, ancora oggi, è possibile studiare le distribuzioni dei patrimoni e le distribuzioni dei redditi – i quali derivano in gran parte dai patrimoni – utilizzando quel medesimo insieme di curve matematiche. Ma è anche bene precisare che la cosa vale soltanto per il punto più alto della distribuzione, e che si tratta soltanto di un rapporto approssimativo, valido sul piano locale, spiegabile sulla base di gravi processi di crisi come quelli descritti in precedenza.
Di più e soprattutto, è importante capire che si tratta di un insieme di curve e non di un’unica curva: tutto dipende dai coefficienti e dai parametri che caratterizzano la curva stessa. Nel nostro caso, i dati che abbiamo raccolto nel quadro della WTID e i dati sulla disuguaglianza dei patrimoni che abbiamo ora presentato dimostrano che i coefficienti di Pareto sono, dal punto di vista teorico, enormemente cambiati. Quando diciamo che una curva di distribuzione delle ricchezze segue una delle leggi di Pareto, in realtà non abbiamo ancora detto niente. Può trattarsi di una distribuzione in cui il decile superiore detiene solo poco più del 20% del reddito totale (come una distribuzione dei redditi di tipo scandinavo degli anni settanta-ottanta), o di una distribuzione in cui il decile superiore detiene il 50% del totale (come una distribuzione dei redditi di tipo americano dei primi anni del XXI secolo), o ancora di una distribuzione in cui il decile superiore detiene il 90% del totale (come una distribuzione dei redditi di tipo americano dei primi del Novecento). Ogni volta si tratta sì della legge di Pareto, ma con coefficienti del tutto distinti, e con realtà sociali, economiche e politiche tanto diverse tra loro da non avere evidentemente nulla a che vedere l’una con l’altra.32
Ancora oggi, a volte, alcuni immaginano, sulla scia di Pareto, che la distribuzione delle ricchezze sia caratterizzata da una stabilità implacabile, come se fosse la conseguenza di una legge pressoché divina. In realtà non c’è niente di più falso. Quando si studiano le disuguaglianze in una prospettiva storica, a emergere (e a richiedere spiegazioni) non sono stabilità di lieve entità, ma cambiamenti di vasta portata. Nel nostro caso, trattandosi della concentrazione dei patrimoni, un meccanismo di assoluta trasparenza, che aiuti a dar conto delle fortissime variazioni storiche osservate (sia al livello dei coefficienti di Pareto sia stimando la quota del decile superiore e del centile superiore nella composizione del patrimonio totale), resta pur sempre legato alla disuguaglianza r > g tra rendimento del capitale e tasso di crescita.