L’inflazione favorisce la redistribuzione delle ricchezze?
Riprendiamo il nostro ragionamento. Abbiamo notato come l’imposta eccezionale sul capitale costituisce il modo migliore di ridurre un debito pubblico rilevante, e come, secondo noi, rappresenti di gran lunga il metodo più trasparente, più giusto e più efficace. Al suo posto, è possibile fare ricorso all’inflazione. In concreto, il debito pubblico è un attivo nominale (vale a dire che il prezzo viene fissato prima e non dipende dall’inflazione) e non un attivo reale (il cui prezzo evolve a seconda della situazione economica, in genere almeno di pari passo con l’inflazione, come il prezzo degli attivi immobiliari o dei titoli azionari), per cui basta avere un po’ d’inflazione supplementare per ridurre notevolmente il valore reale del debito pubblico. Per esempio, con un’inflazione del 5% annuo anziché del 2%, in capo a cinque anni il valore reale del debito, espresso in percentuale del PIL, si ridurrebbe di più del 15% supplementare (a parità di fattori in campo), il che sarebbe un risultato considerevole.
Quella dell’inflazione è certo una soluzione molto attraente. La maggioranza dei più alti debiti pubblici della storia d’Europa, soprattutto nel corso del XX secolo, è stata ridotta in questo modo. Per esempio, in Francia e in Germania, dal 1913 al 1950, l’inflazione è stata, in media, rispettivamente del 13% e del 17% annuo. Il che ha permesso ai due paesi di dedicarsi alla ricostruzione postbellica con un debito pubblico stabilizzato, all’inizio degli anni cinquanta, su livelli insignificanti. La Germania, in particolare, è il paese che più di tutti ha fatto ricorso – un ricorso massiccio – all’inflazione (e anche all’annullamento puro e semplice dei crediti) per liberarsi dei debiti pubblici accumulati nel corso della sua storia.10 A parte la Banca centrale europea, che è oggi di gran lunga l’istituto più restio alla soluzione, non è un caso che le grandi banche centrali del pianeta, si tratti della Federal Reserve americana, della Banca del Giappone o della Banca d’Inghilterra, tentino, più o meno apertamente, di alzare il tasso d’inflazione, e sperimentino perciò politiche cosiddette “non convenzionali” (torneremo sull’argomento). Se ce la facessero, se per esempio il loro tasso d’inflazione passasse al 5% annuo anziché stabilizzarsi al 2% annuo (percentuale non scontata), i rispettivi paesi riuscirebbero di fatto a uscire dalla spirale del superindebitamento molto più in fretta dei paesi dell’eurozona, le cui prospettive economiche sembrano gravemente condizionate dall’assenza di una via d’uscita dalla crisi del debito e dalla mancanza di una chiara visione a lungo termine in fatto di unione fiscale e di bilancio europea.
È importante, infatti, rendersi conto che senza prelievo eccezionale sul capitale, e senza inflazione supplementare, ci vorranno parecchi decenni per uscire da un livello d’indebitamento pubblico elevato come quello attuale. Facciamo un esempio estremo: supponiamo un’inflazione rigorosamente nulla, una crescita del PIL del 2% annuo (tasso, nel presente contesto europeo nient’affatto garantito, poiché il rigore di bilancio ha un evidente impatto recessivo, almeno a breve termine) e un deficit di bilancio limitato all’1% di PIL (il che implica in pratica un’eccedenza primaria rilevante, una volta valutati gli interessi sul debito). Ebbene, per ridurre di 20 punti l’indebitamento pubblico (espresso in percentuale di PIL) ci vorranno, sulla carta, almeno vent’anni.11 Se la crescita fosse inferiore al 2%, e il deficit superiore all’1%, ci vorranno più probabilmente trenta o quarant’anni. Come occorrono decenni per accumulare capitale, così occorre molto tempo per ridurre il debito.
L’esempio storico più interessante di una cura prolungata di austerità è quello offerto dal Regno Unito nel XIX secolo. Come abbiamo notato nella Parte seconda del libro (cap. 3), ci volle un secolo di eccedenze primarie (circa 2-3 punti di PIL annuo in media dal 1815 al 1914) per liberarsi dell’enorme debito pubblico ereditato dopo le guerre napoleoniche. In totale, per tutto il periodo, i contribuenti britannici hanno versato più risorse in interessi sul debito di quante ne abbiano dedicate alle spese scolastiche totali. Si è trattato di una scelta sicuramente rispondente agli interessi dei detentori dei titoli del debito, ma è ben poco probabile che la scelta rispondesse all’interesse generale del paese. E non è un delitto pensare che il ritardo britannico nel campo dell’istruzione abbia contribuito al declino del Regno Unito nel corso dei decenni successivi. Si è certo trattato di un debito superiore al 200% di PIL (e non di appena il 100%, come quello di oggi), e l’inflazione nel XIX secolo era quasi nulla (mentre tutti oggi indicano un obiettivo del 2% annuo). Per cui è lecito sperare che l’austerità europea possa limitarsi a una durata di dieci o vent’anni (come minimo), e non durare un secolo – anche se sarebbe comunque un periodo molto lungo. Così come è lecito pensare che l’Europa, per proiettare il proprio futuro nell’economia-mondo del XXI secolo, abbia di meglio da fare che sacrificare parecchi punti di PIL l’anno di eccedenze primarie per risanare il proprio debito pubblico, quando i paesi europei destinano in genere meno di un punto di PIL per le loro università.12
Ciò posto, vale la pena di insistere anche sul fatto che l’inflazione non è che un sostituto molto imperfetto dell’imposta progressiva sul capitale, e può comportare una serie di effetti collaterali poco gradevoli. La prima difficoltà connaturata all’inflazione è il rischio che vada fuori controllo: non è affatto sicuro che si fermi al 5% annuo. Una volta innescata la spirale inflazionistica, ciascuno vorrebbe vedere i salari e i prezzi che lo riguardano evolvere in una maniera a lui comoda, e può rivelarsi molto difficile fermare un tale meccanismo. In Francia, dal 1945 al 1948, per quattro anni consecutivi, l’inflazione supera il 50% su base annua. Il debito pubblico si riduce a poca cosa, a un margine ben più ridotto di quello ottenuto in seguito al prelievo eccezionale sui patrimoni applicato nel 1945. Ma milioni di piccoli risparmiatori si trovano completamente rovinati dall’inflazione, e ciò contribuirà ad aggravare la povertà endemica della terza età per tutti gli anni cinquanta.13 In Germania, tra l’inizio e la fine del 1923, i prezzi si sono moltiplicati per cento milioni, e la società e l’economia escono traumatizzate dall’episodio, il quale continuerà a influire a lungo sulla percezione che i tedeschi hanno dell’inflazione in sé. La seconda difficoltà connaturata all’inflazione è che perde buona parte degli effetti desiderati quando diventa permanente e anticipata (in particolare chi presta soldi allo Stato esige un tasso d’interesse più alto).
A favore dell’inflazione resta un argomento. Rispetto all’imposta sul capitale, che come tutte le imposte porta inevitabilmente a sottrarre risorse a persone che si preparavano a spenderle utilmente (per consumi o investimenti), l’inflazione ha il merito, nella sua versione idealizzata, di colpire principalmente chi non sa che cosa fare del proprio denaro, ossia chi ha accumulato troppa liquidità sui propri conti bancari, o su conti correnti e libretti poco dinamici, o tenendola sotto il materasso. Viene risparmiato chi ha già speso tutto, chi ha investito tutto in attivi economici reali (immobili o di investimento) o, meglio ancora, chi si è indebitato (il suo debito nominale viene ridotto dall’inflazione, per cui può rilanciarsi più in fretta verso nuovi progetti di investimento). Da questo punto di vista ideale – il quale contiene una parte di verità e non va del tutto trascurato – l’inflazione sarebbe in qualche modo una tassa sul capitale passivo, e un incoraggiamento al capitale dinamico.14 Anche se, come s’è visto studiando le disuguaglianze dei rendimenti in rapporto al capitale iniziale, l’inflazione non impedisce minimamente ai patrimoni importanti e ben diversificati di ottenere un buon rendimento, a prescindere da qualsiasi implicazione personale, per il puro e semplice effetto della loro dimensione.15
In definitiva, la verità è che l’inflazione è uno strumento abbastanza grossolano e improprio per l’obiettivo che si prefigge. Le redistribuzioni delle ricchezze indotte vanno a volte nel senso giusto e a volte nel senso sbagliato. Certo, se la scelta è tra un po’ più d’inflazione e un po’ più di austerità, è preferibile un po’ più d’inflazione. Ma il punto di vista espresso talvolta in Francia, secondo cui l’inflazione costituirebbe uno strumento di redistribuzione pressoché ideale (un modo di prendere un po’ di soldi al “rentier tedesco” e di costringere la popolazione più vecchia e fiorente al di là del Reno a mostrare uno spirito di maggiore solidarietà, come spesso si sente dire) è troppo ingenuo e irrealistico. In pratica, una grossa ondata inflazionistica avrebbe in Europa una serie di conseguenze indesiderate circa la distribuzione delle ricchezze, soprattutto a danno della popolazione più povera, in Francia, in Germania e in tutti i paesi. Mentre i detentori di importanti patrimoni immobiliari e azionari sarebbero ampiamente risparmiati, di qua come di là dal Reno, e ovunque.16 Sia che s’intendano ridurre le disuguaglianze patrimoniali su base permanente, sia che si voglia ridurre un debito pubblico eccezionalmente elevato, l’imposta progressiva sul capitale è, in generale, uno strumento molto migliore dell’inflazione.