Nuovo Mondo e Vecchio Mondo: il peso della schiavitù

È impossibile concludere l’esame delle metamorfosi del capitale in Europa e in America senza esaminare il problema della schiavitù e del ruolo degli schiavi nella storia del patrimonio americano.

Thomas Jefferson non possiede solo terreni. Possiede anche più di 600 schiavi, ereditati soprattutto dal padre e dal nonno, e ha sempre mantenuto un atteggiamento politico piuttosto ambiguo sul problema della schiavitù. Il suo ideale di repubblica di piccoli proprietari, uguali nei diritti, non comprende le persone di colore, sulle quali è in gran parte fondata l’economia della sua natia Virginia. In ogni caso, una volta divenuto presidente degli Stati Uniti nel 1801, grazie ai voti degli Stati del Sud, Jefferson firma una legge che pone fine all’importazione di nuovi schiavi sul suolo americano a partire dal 1808. Ciò non impedisce l’aumento della quantità di schiavi (la crescita naturale è meno costosa della tratta), moltiplicatasi per due volte e mezza tra il periodo della dichiarazione d’indipendenza, intorno al 1770 (circa 400.000 schiavi), e il censimento del 1800 (1 milione di schiavi), poi di nuovo per quattro volte tra il 1800 e il censimento del 1860 (oltre 4 milioni di schiavi), il che corrisponde in totale a una moltiplicazione per 10 in meno di un secolo. Quando, nel 1861, scoppia la guerra di secessione – conflitto che sfocia nell’abolizione della schiavitù nel 1865 –, l’economia schiavista è in piena crescita.

Verso il 1800, gli schiavi rappresentano quasi il 20% della popolazione americana: circa 1 milione di schiavi su un totale di 5 milioni di abitanti. Negli Stati Uniti del Sud, dove è concentrata la quasi totalità degli schiavi,15 la proporzione è del 40%: 1,5 milioni di schiavi, 1 milione di bianchi, per una popolazione totale di 2,5 milioni di abitanti. Non tutti i bianchi possiedono schiavi, e solo un’esigua minoranza ne possiede 600 come Jefferson: il patrimonio di schiavi è in effetti, come vedremo nella Parte terza, uno dei più localizzati che esistano.

Verso il 1860, in ragione della forte crescita demografica degli Stati a nord e a ovest, la proporzione di schiavi a livello complessivo degli Stati Uniti è scesa a circa il 15% (circa 4 milioni di schiavi per una popolazione totale di 30 milioni). Ma negli Stati Uniti del Sud la proporzione raggiunge comunque il 40%: 4 milioni di schiavi e 6 milioni di bianchi, per una popolazione totale di 10 milioni.

Esistono numerose fonti storiche che ci danno notizia del prezzo degli schiavi negli Stati Uniti dal 1770 al 1860, sulla base di inventari di beni dei defunti (probate records), recensiti in particolare da Alice Hanson Jones, dati fiscali e censimenti utilizzati specialmente da Raymond Goldsmith, oppure dati riguardanti le transazioni e i mercati di schiavi raccolti perlopiù da Robert Fogel. Confrontando le varie fonti, complessivamente coerenti tra loro, ci è stato possibile pervenire alle stime medie raffigurate nei grafici 4.10 e 4.11.

Negli Stati Uniti, tra la fine del XVIII secolo e la prima metà del XIX, il valore totale degli schiavi equivaleva a circa un anno e mezzo del reddito nazionale, vale a dire al valore approssimativo di tutti i terreni agricoli. Se tra le altre componenti del patrimonio includiamo gli schiavi, rileviamo che il totale dei patrimoni americani è tutto sommato, dall’età coloniale ai giorni nostri, relativamente stabile, attorno alle quattro-cinque annualità di reddito nazionale (cfr. grafico 4.10). La somma si presta certo a non poche discussioni, poiché connota una civiltà che tratta alcuni individui come oggetti da possedere e non come soggetti dotati di diritti, in particolare del diritto di possedere a loro volta.16 Ma consente in ogni caso di valutare appieno l’importanza del patrimonio negriero per i proprietari di schiavi.

Il dato appare ancor più chiaramente se si distinguono gli Stati Uniti del Sud e del Nord, e si confronta la struttura del capitale (schiavi compresi) di queste due metà degli Stati Uniti tra il 1770 e il 1820 con quella del Regno Unito o della Francia nello stesso periodo (cfr. grafico 4.11). Nel Sud degli Stati Uniti, il valore totale degli schiavi è compreso tra due annualità e mezza e tre annualità di reddito nazionale, per cui il valore combinato dei terreni agricoli e degli schiavi supera le quattro annualità di reddito nazionale. In sostanza, i proprietari nel Sud del Nuovo Mondo controllano più ricchezze dei proprietari terrieri della vecchia Europa. I loro terreni agricoli non valgono molto, ma siccome gli schiavisti hanno avuto la buona idea di detenere come proprietà anche la forza lavoro che lavora quei terreni, il loro patrimonio totale è ancora più elevato.

Grafico 4.10.
Capitale e schiavitù negli Stati Uniti

Negli Stati Uniti, nel 1770, il valore di mercato degli schiavi raggiunge 1,5 annualità di reddito nazionale (la stessa quota dei terreni agricoli).
Fonti e dati: cfr. http://piketty.pse.ens.fr/capital21c.

Negli Stati Uniti del Sud, se si somma il valore di mercato degli schiavi alle altre componenti del patrimonio, si superano le sei annualità di reddito nazionale, un valore quasi pari a quello del capitale totale nel Regno Unito e in Francia. In quelli del Nord, invece, la presenza degli schiavi è quasi inesistente, e il totale del patrimonio è in effetti molto basso: appena tre annualità di reddito nazionale, ossia due volte meno rispetto agli Stati Uniti del Sud o all’Europa.

Grafico 4.11.
Il capitale tra il 1770 e il 1810: Vecchio e Nuovo Mondo

Tra il 1770 e il 1810 negli Stati del Sud degli Stati Uniti, il valore aggregato dei terreni agricoli e degli schiavi supera le 4 annualità di reddito nazionale.
Fonti e dati: cfr. http://piketty.pse.ens.fr/capital21c

Come si vede, gli Stati Uniti prima della guerra di secessione sono ben lontani dall’essere quel mondo senza capitale a cui abbiamo accennato prima. Il Nuovo Mondo coniuga infatti due realtà totalmente opposte: da un lato, al Nord, un mondo relativamente ugualitario in cui il capitale non vale davvero molto – perché le terre sono talmente abbondanti che tutti possono diventarne proprietari a poco prezzo, e anche perché i nuovi immigrati non hanno ancora avuto il tempo di accumulare abbastanza capitale; dall’altro, al Sud, un mondo in cui le disuguaglianze in merito alla proprietà assumono invece forme estreme ed estremamente violente – perché una metà della popolazione possiede l’altra metà, e il capitale di schiavi ha in larga misura rimpiazzato e superato il capitale terriero.

Il complesso, contraddittorio rapporto degli Stati Uniti con il problema della disuguaglianza rimane di fatto invariato fino ai giorni nostri: da un lato, un’aspettativa ugualitaria, e un’altissima fiducia riposta in quella terra delle grandi opportunità che continuano ad apparire gli Stati Uniti agli occhi di milioni di immigrati di modeste condizioni; dall’altro, forme quanto mai brutali di disuguaglianza, legate a una questione razziale ancora oggi irrisolta (fino agli anni sessanta i neri del Sud degli Stati Uniti sono stati privati di vari diritti civili e sono stati soggetti a un regime di segregazione legale, un regime giuridico simile al sistema di apartheid perpetuatosi in Sudafrica fino agli anni ottanta) e che spiegano alcuni aspetti dello sviluppo – o piuttosto del non-sviluppo – dello Stato sociale in America.

Il capitale nel XXI secolo
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