Ritorno a Marx e al “calo tendenziale del saggio di profitto”

Al termine di questa ricerca dedicata alla dinamica storica del rapporto capitale/reddito e della divisione capitale-lavoro, non sarà inutile precisare il rapporto tra le nostre conclusioni e le tesi marxiste.

Per Marx, il meccanismo di fondo in base al quale “la borghesia produce i suoi stessi seppellitori” corrisponde a quello che noi abbiamo chiamato nell’Introduzione, “principio di accumulazione infinita”: i capitalisti accumulano quantità di capitale sempre maggiori, il che finisce per portare a un “calo inesorabile e tendenziale del saggio di profitto” (vale a dire del tasso di rendimento da capitale) e per determinare la loro stessa sconfitta. Marx non utilizza modelli matematici, e la sua prosa non è sempre limpida, per cui è difficile sapere con certezza che cosa abbia in testa. Un modo logico e coerente di interpretare i suoi argomenti è comunque quello di considerare la legge dinamica β = s/g nel caso specifico in cui il tasso di crescita g sia nullo, o quantomeno molto vicino allo zero.

Ricordiamo infatti che g misura il tasso di crescita strutturale a lungo termine, ossia la somma del tasso di crescita della produttività con il tasso di crescita demografica. Ora, nella mente di Marx, come peraltro di tutti gli economisti del XIX secolo e dell’inizio del XX – e in larga parte fino ai lavori di Solow negli anni cinquanta e sessanta –, la nozione stessa di crescita strutturale, risultato di una crescita permanente e durevole della produttività, non era chiaramente formulata né individuata.31 All’epoca, l’ipotesi implicita è che la crescita della produzione, in particolare manifatturiera, si spieghi innanzitutto con l’accumulazione di capitale industriale. In altri termini, si produce di più unicamente perché il lavoratore dispone di più macchinari e di più attrezzature, non perché la produttività in quanto tale – per una data quantità di lavoro e di capitale – venga aumentata. Oggi sappiamo che solo la crescita della produttività permette una crescita strutturale a lungo termine. Ma, a causa della mancanza di prospettiva storica e di dati disponibili, la cosa, ai tempi di Marx, non era per nulla evidente.

Nel caso in cui non esista alcuna crescita strutturale, e in cui il tasso g sia rigorosamente nullo, si arriva a una contraddizione logica molto vicina a quella descritta da Marx. A partire dal momento in cui il tasso di risparmio netto s è positivo – nel senso che i capitalisti con tenacia si dedicano ad accumulare ogni anno sempre più capitale, per volontà di potenza e di perpetuazione del potere, oppure semplicemente perché il loro livello di vita è già abbastanza elevato e come tale va mantenuto – il rapporto capitale/reddito aumenta indefinitamente. Più in generale, se il tasso g è basso e vicino allo zero, il rapporto capitale/reddito di lungo termine β = s/g tende all’infinito. E con un rapporto capitale/reddito β infinitamente elevato, il rendimento da capitale r deve necessariamente ridursi sempre più e arrivare alla fine vicino allo zero, altrimenti la quota di capitale α = r × β finirà per divorare la totalità del reddito nazionale.32

La contraddizione dinamica segnalata da Marx corrisponde dunque a una vera difficoltà, la cui sola soluzione logica è la crescita strutturale, l’unica a consentire di equilibrare – in qualche misura – il processo di accumulazione del capitale. È la crescita permanente della produttività e della popolazione a favorire l’equilibrio dell’addizione permanente di ciascuna nuova unità di capitale, come dice la legge β = s/g. In caso contrario i capitalisti si scaverebbero davvero la fossa da soli: o dilaniandosi tra loro, in un disperato tentativo di lottare contro la caduta tendenziale del tasso di rendimento (per esempio facendosi la guerra per ottenere i migliori investimenti coloniali, come in occasione della crisi marocchina tra Francia e Germania, nel 1905 e nel 1911); o riservando al lavoro un valore sempre più basso nella composizione del reddito nazionale, con il rischio di scatenare una rivoluzione proletaria e un esproprio generale. In ogni caso, il capitalismo sarebbe minato dalle sue stesse interne contraddizioni.

Che Marx avesse effettivamente in testa un modello di questo tipo, vale a dire un modello fondato sull’accumulazione infinita del capitale, è confermato dal fatto che ricorre più volte a esempi di bilanci di imprese industriali caratterizzate da un capitalismo a fortissima intensità. Nel Libro I del Capitale, fornisce tra l’altro l’esempio dei bilanci di una fabbrica tessile – precisando che gli sono stati “comunicati dal proprietario” – i quali sembrano indicare un rapporto estremamente elevato tra il valore totale del capitale fisso e variabile impiegato nel processo di produzione e il valore della produzione annua, apparentemente superiore a dieci. Questo tipo di rapporto capitale/reddito ha in effetti qualcosa di terrificante: basta che il tasso di rendimento del capitale sia del 5% perché la quota dei profitti superi la metà della produzione. È naturale che Marx – e con lui molti altri osservatori dell’epoca – si sia chiesto fino a che punto ciò potesse reggere (tanto più che i salari erano fermi dall’inizio del XIX secolo), e verso quale tipo di equilibrio socioeconomico a lungo termine un tale ipertensivo sviluppo industriale potesse portare.

Marx è anche un lettore assiduo dei rapporti parlamentari britannici del periodo 1820-60, che utilizza per documentare la miseria dei salari operai, gli incidenti sul lavoro, le deplorevoli condizioni sanitarie, e più in generale la rapacità dei detentori di capitale industriale. Marx raccoglie anche le statistiche ricavabili dall’imposta cedolare sui redditi, le quali indicano una crescita rapidissima dei profitti industriali nel Regno Unito degli anni quaranta e cinquanta dell’Ottocento. Cerca inoltre di utilizzare – in un modo, per la verità, piuttosto impressionante – alcune statistiche sulle successioni, le quali dimostrano la crescita fortissima dei maggiori patrimoni britannici dopo l’età delle guerre napoleoniche.33

Il problema è che, a dispetto di tutte queste importanti intuizioni, Marx mantiene in genere un approccio più aneddotico che sistematico alle statistiche disponibili. In particolare, non cerca di sapere se la fortissima intensità capitalistica che crede di scoprire studiando i bilanci di alcune fabbriche sia rappresentativa dell’economia britannica nel suo insieme, e nemmeno di questo o quel settore specifico, cosa che avrebbe potuto tentare di fare confrontando tra loro anche poche decine di bilanci d’impresa. Quello che più stupisce, trattandosi di un libro dedicato in larga parte al problema dell’accumulazione del capitale, è che Marx non faccia alcun riferimento ai tentativi di quantificazione dello stock di capitale nazionale moltiplicatisi nel Regno Unito dall’inizio del XVIII secolo, e sviluppatisi molto dal XIX, dai lavori di Colquhoun nel periodo 1800-10 a quelli di Giffen negli anni settanta e ottanta dell’Ottocento.34 Marx pare voler fare a meno del tutto della contabilità nazionale che si sviluppa intorno a lui: un fatto increscioso, perché, se ne avesse tenuto conto, avrebbe potuto in una certa misura confermare le proprie intuizioni sull’enorme accumulo di capitale privato peculiare dell’epoca, e soprattutto avrebbe potuto chiarire meglio il proprio modello interpretativo.

Il capitale nel XXI secolo
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