Il rendimento puro delle dotazioni universitarie

Per meglio comprendere il problema della disuguaglianza dei rendimenti da capitale, a prescindere dalle ricchezze più o meno meritate dei singoli, sarà utile esaminare il caso delle dotazioni di capitale destinate alle università americane nel corso degli ultimi decenni. Si tratta infatti di uno dei rari episodi in cui si dispone di dati completi sugli investimenti realizzati e sui rendimenti puri ottenuti in rapporto al volume del capitale iniziale, il tutto nell’arco di un trentennio, ovvero di un periodo relativamente lungo.

Negli Stati Uniti, esistono oggi più di ottocento università pubbliche e private che gestiscono fondi di dotazione: fondi che vanno da poche decine di milioni di dollari, come per il North Iowa Community College (al 785° posto nel 2012, con una dotazione di 11,5 milioni di dollari), a parecchie decine di miliardi di dollari. Il primo posto della classifica è invariabilmente occupato dall’Università di Harvard (con, oggi, circa 30 miliardi di dollari), seguita da quelle di Yale (quasi 20 miliardi di dotazione), di Princeton e di Stanford, con più di 15 miliardi. Poi vengono il MIT e la Columbia, con poco meno di 10 miliardi, seguite dalle Università di Chicago e della Pennsylvania, con circa 7 miliardi, e così via. In totale, le oltre ottocento università americane detengono oggi attività per quasi 400 miliardi di dollari (poco meno di 500 milioni di dollari in media per università, e una dotazione mediana leggermente inferiore a 100 milioni). La cifra rappresenta sì meno dell’1% del totale dei patrimoni privati posseduti dalle famiglie americane, ma corrisponde pur sempre a una massa importante che procura ogni anno alle università americane, o quantomeno ad alcune di esse, risorse rilevanti.23 Non solo – e qui sta il punto che più ci interessa. Le dotazioni di capitale alle università americane danno luogo alla pubblicazione di bilanci finanziari affidabili e dettagliati, utilissimi per lo studio, anno per anno, dei rendimenti ottenuti – possibilità esclusa per i patrimoni privati. In particolare, i dati raccolti a partire dalla fine degli anni settanta dall’associazione delle università americane danno luogo ogni anno a pubblicazioni statistiche significative a cura dell’associazione stessa.

I principali risultati ricavabili dai dati sono indicati nella tabella 12.2.24 La prima conclusione è che il rendimento medio ottenuto dalle dotazioni universitarie americane è stato, nel corso degli ultimi decenni, assai elevato: 8,2% annuo in media nel periodo 1980-2010 (7,2% se ci si limita al sottoperiodo 1990-201025). È vero che ci sono stati alti e bassi nel corso di ciascun decennio, con anni dal rendimento molto basso o negativo, per esempio nel 2008-9, e anni molto prosperi in cui il rendimento universitario medio ha superato nettamente il 10%, ma è anche vero – ed è il punto più importante – che, se si stabiliscono delle medie su dieci, venti o trent’anni, si ottengono rendimenti alquanto elevati, analoghi a quelli osservati per i miliardari di Forbes.

Tabella 12.2.
Il rendimento delle dotazioni di capitale delle università americane, 1980-2010

 

Tassi di rendimento reale medio annuo (al netto delle spese di gestione e dell’inflazione) Periodo 1980-2010
Tutte le università insieme (850) 8,2%
di cui: Harvard-Yale-Princeton 10,2%
di cui: dotazioni superiori a 1 miliardo di $ (60) 8,8%
di cui: dotazioni comprese tra 500 milioni e 1 miliardo di $ (66) 7,8%
di cui: dotazioni comprese tra 100 e 500 milioni di $ (226) 7,1%
di cui: dotazioni inferiori a 100 milioni di $ (498) 6,2%
Dal 1980 al 2012 le università americane hanno ottenuto un rendimento reale medio dell’8,2% sulla loro dotazione di capitale, tanto più elevato quanto più elevata era la dotazione iniziale. I rendimenti indicati sono al netto di tutte le spese di gestione e dell’inflazione (2,4% annuo dal 1980 al 2010).
Fonti e dati: cfr. http://piketty.pse.ens.fr/capital21c.

Precisiamo che i rendimenti indicati nella tabella 12.2 sono rendimenti reali effettivamente ottenuti dalle dotazioni universitarie, al netto delle plusvalenze e dell’inflazione, delle imposte in vigore (quasi inesistenti, trattandosi di fondazioni di pubblica utilità) e delle spese di gestione, in particolare della massa salariale di tutti gli operatori interni o esterni all’università che hanno messo a punto e in atto la strategia d’investimento della dotazione ricevuta. Si tratta dunque del vero rendimento “puro” da capitale, secondo la definizione che ne abbiamo data nel corso del libro, vale a dire quanto rende un capitale per il semplice fatto di essere detenuto, a prescindere da qualunque lavoro.

La seconda conclusione che emerge con chiarezza dalla lettura della tabella 12.2 è che il rendimento ottenuto cresce con la crescita del volume della dotazione. Per le circa 500 università, su 850, la cui dotazione è inferiore a 100 milioni di dollari, il rendimento è, per il periodo 1980-2010, del 6,2% (5,1% nel periodo 1990-2010), somma peraltro abbastanza soddisfacente e molto più alta del rendimento medio ottenuto dal totale dei privati nel corso dello stesso periodo.26 Il rendimento aumenta regolarmente nella misura in cui aumenta il livello delle dotazioni. Per le 60 università con più di un miliardo di dollari di dotazione, il rendimento annuo medio raggiunge, nel periodo 1980-2010, l’8,8% (7,8% nel periodo 1990-2010). Se si considera il trio di testa (Harvard, Yale, Princeton), che non è cambiato tra il 1980 e il 2010, il rendimento tocca il 10,2% (10,0% nel periodo 1990-2010), due volte superiore a quello delle università meno beneficiate.27

Se poi si esaminano le strategie di investimento adottate dalle varie università, si ravvisano, a tutti i livelli di dotazione, portafogli molto ben diversificati, con una netta preferenza per le azioni americane ed estere e le obbligazioni del settore privato (le obbligazioni pubbliche, specie quelle emesse dallo Stato, poco vantaggiose, equivalgono di regola a meno del 10% del portafogli, e nel caso delle dotazioni maggiori sono pressoché assenti). Man mano che si sale nella gerarchia delle dotazioni, si nota una crescita consistente e progressiva delle “strategie alternative”, ossia degli investimenti ad altissimo rendimento, come le azioni non quotate (private equity), soprattutto quelle estere (che richiedono una notevole abilità di gestione), i fondi speculativi (hedge funds), i derivati e gli investimenti in beni immobili e materie prime: energia, risorse naturali, vari derivati nel campo delle materie prime (anche qui si tratta di investimenti che esigono un’abilità molto specifica e che sono, potenzialmente, assai redditizi28). Se si considera l’importanza assunta dagli “investimenti alternativi” nel loro complesso, il cui solo punto in comune è il fatto di non rientrare nel quadro degli investimenti finanziari classici (azioni, obbligazioni) accessibili a tutti, si rileva che, per le dotazioni inferiori a 50 milioni di euro, equivalgono a poco più del 10% dei portafogli, dopodiché, tra 50 e 100 milioni di euro, raggiungono rapidamente il 25%, tra 100 e 500 milioni di euro il 35%, tra 500 milioni di euro e il miliardo il 45%, e infine per le dotazioni superiori al miliardo superano il 60% dei portafogli. I dati disponibili, che hanno il merito di essere pubblici ed estremamente dettagliati, ci fanno constatare senza alcuna ambiguità che sono proprio gli investimenti alternativi a consentire alle maggiori dotazioni di ottenere rendimenti reali che sfiorano il 10% annuo, mentre le dotazioni minori devono accontentarsi del 5%.

È interessante notare che la volatilità dei rendimenti da un anno all’altro non sembra molto elevata per le dotazioni maggiori: il rendimento medio ottenuto da Harvard e da Yale si aggira attorno alla media, con variazioni non eccessive rispetto a quello delle dotazioni minori; mentre, se si stabilisce la media calcolando un certo numero di anni, il rendimento delle dotazioni maggiori è sistematicamente superiore a quello delle minori, con uno scarto che si mantiene più o meno costante nel tempo. In altri termini, il rendimento più alto ottenuto dalle dotazioni maggiori non è dovuto a investimenti più rischiosi ma a una strategia di investimenti più sofisticata, che permette di accedere a portafogli strutturalmente e durevolmente più redditizi.29

Il capitale nel XXI secolo
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