Il Nuovo Mondo e i capitali esteri
Un’altra differenza di fondo tra la storia del capitale in America e in Europa consiste nel fatto che negli Stati Uniti i capitali esteri hanno sempre avuto un’importanza abbastanza limitata. Per il semplice motivo che gli Stati Uniti, prima colonia ad aver ottenuto l’indipendenza, non sono mai stati, a loro volta, una potenza coloniale.
Per tutto il XIX secolo, gli Stati Uniti detengono una posizione patrimoniale lievemente negativa nei confronti del resto del mondo: quanto i residenti americani possiedono nel resto del mondo è leggermente inferiore a quanto i residenti del resto del mondo – in particolare britannici – possiedono negli Stati Uniti. La differenza è comunque minima, tutt’al più nell’ordine del 10-20% del reddito nazionale americano, e generalmente meno del 10% nel periodo tra il 1770 e il 1920.
Per esempio, alla vigilia della prima guerra mondiale, il capitale interno americano – terreni agricoli, abitazioni, altri capitali interni – viene valutato intorno al 500% del reddito nazionale. Su questo totale, gli attivi in possesso degli investitori stranieri (sottratti gli attivi esteri detenuti dagli investitori americani) equivalgono al 10% del reddito nazionale. Il capitale nazionale degli Stati Uniti, o patrimonio nazionale netto, equivale dunque a circa il 490% del reddito nazionale. In altri termini, gli Stati Uniti sono posseduti per il 98% dagli americani e per il 2% dagli stranieri. Si è insomma molto vicini a una situazione di equilibrio, soprattutto in rapporto ai rilevanti attivi esteri detenuti dagli europei: tra l’una e le due annualità di reddito nazionale in Francia e nel Regno Unito, e mezza annualità in Germania. Nel 1913 il PIL americano supera solo di poco la metà del PIL dell’Europa occidentale: ossia, nel 1913, gli europei detengono solo una piccola parte di attivi esteri negli Stati Uniti (meno del 5% del loro portafoglio). Riassumendo, il mondo del 1913 è un mondo in cui l’Europa possiede buona parte dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, e in cui gli Stati Uniti possiedono solo se stessi.
Con le due guerre mondiali, la posizione patrimoniale degli Stati Uniti è destinata a rovesciarsi: da negativa nel 1913, diventa leggermente positiva a partire dagli anni venti e lo resterà fino agli anni settanta-ottanta. Gli Stati Uniti finanziano gli Stati belligeranti e diventano così creditori dei paesi europei, dopo esserne stati debitori. È bene comunque insistere sul fatto che gli attivi esteri netti detenuti dagli americani rimarranno sempre piuttosto modesti: appena il 10% del reddito nazionale (cfr. grafico 4.6).
In particolare, negli anni cinquanta e sessanta, il capitale estero netto detenuto dagli Stati Uniti resta abbastanza limitato (appena il 5% del reddito nazionale, mentre il capitale interno è vicino al 400%, ovvero ottanta volte tanto). Gli investimenti delle multinazionali americane in Europa e nel resto del mondo raggiungono livelli che paiono notevoli per il periodo, in particolare agli europei, abituati a possedere il mondo, e improvvisamente a disagio all’idea di dovere in parte la propria ricostruzione allo Zio Sam e al Piano Marshall. In realtà, al di là delle gravissime crisi nazionali, gli investimenti americani avranno sempre un’ampiezza ridotta rispetto a quelli che le ex potenze coloniali hanno avuto nell’intero pianeta fino a pochi decenni prima. Inoltre gli investimenti americani in Europa e altrove sono compensati dal mantenimento di forti partecipazioni estere negli Stati Uniti, provenienti in particolare dal Regno Unito. Nella serie televisiva Mad Men, le cui vicende si svolgono nei primi anni sessanta, l’agenzia newyorkese Sterling Cooper si fa comprare da inappuntabili azionisti britannici, e l’evento non manca di provocare uno choc culturale nel piccolo mondo della pubblicità di Madison Avenue: non è mai facile diventare proprietà del capitale straniero.
La posizione patrimoniale degli Stati Uniti diventa leggermente negativa nel corso degli anni ottanta, e il segno meno si perpetua e si accentua negli anni a seguire sino all’inizio del XXI secolo, con l’accumulo contestuale dei deficit commerciali. Gli investimenti americani all’estero continuano comunque a essere redditizi, in una misura che supera costantemente il costo dei debiti, e ciò grazie alla fiducia nel dollaro, il che limita un ulteriore aggravamento della posizione negativa, passata dal 10% circa degli anni novanta a poco più del 20% dopo il 2010 (torneremo più avanti sulla dinamica del tasso di rendimento). In definitiva, la situazione attuale è abbastanza simile a quella precedente la prima guerra mondiale. Il capitale interno degli Stati Uniti è valutato intorno al 450% del reddito nazionale. Su questo totale, gli attivi posseduti dagli investitori stranieri (sottratti quelli esteri detenute dagli investitori americani) equivalgono al 20% del reddito nazionale. Il patrimonio nazionale netto degli Stati Uniti equivale dunque a circa il 430% del reddito nazionale. In altri termini, gli Stati Uniti sono oggi posseduti per più del 95% dagli americani e per meno del 5% dagli stranieri.
Riassumendo: nel corso della loro storia, gli Stati Uniti hanno registrato, rispetto al resto del mondo, una posizione patrimoniale a volte leggermente negativa, a volte leggermente positiva, ma le due posizioni hanno sempre avuto un’importanza modesta in rapporto alla massa dei capitali detenuti dagli americani (sempre meno del 5%, in media meno del 2%).