La contraddizione di fondo del capitalismo: r > g
Le lezione complessiva della mia ricerca è che il processo dinamico di un’economia di mercato e di proprietà privata, se abbandonato a se stesso, alimenta importanti fattori di convergenza, legati in particolare alla diffusione delle conoscenze e delle competenze, ma anche potenti fattori di divergenza, potenzialmente minacciosi per le nostre società democratiche e per i valori di giustizia sociale sui quali esse si fondano.
Il principale fattore destabilizzante è legato al fatto che il tasso di rendimento privato del capitale r può essere molto e per molto tempo superiore al tasso di crescita del reddito e del prodotto g.
La disuguaglianza r > g significa che i patrimoni ereditati dal passato si ricapitalizzano a un ritmo più rapido del ritmo di crescita della produzione e dei salari. Questa disuguaglianza esprime una contraddizione logica di fondo. L’imprenditore tende inevitabilmente a trasformarsi in rentier, e a prevaricare sempre di più chi non possiede nient’altro che il proprio lavoro. Una volta costituito, il capitale si riproduce da solo e cresce molto più in fretta di quanto cresca il prodotto. Il passato divora il futuro.
Le conseguenze possono essere preoccupanti per la dinamica a lungo termine della distribuzione delle ricchezze, soprattutto se viene sommata alla disuguaglianza relativa al volume del capitale iniziale, e se il processo di divergenza delle disuguaglianze patrimoniali si verifica a livello mondiale.
Non è un problema di semplice soluzione. Si può certo incoraggiare la crescita investendo nella formazione, nella conoscenza e nelle tecnologie non inquinanti, ma il tutto non può fare aumentare la crescita al 4% o al 5% annui. L’esperienza storica insegna che solo paesi in forte recupero sui paesi ricchi, come l’Europa durante i Trente glorieuses o la Cina e i paesi emergenti oggi, possono crescere a ritmi simili. Per quanto riguarda i paesi che hanno già conosciuto la rivoluzione tecnologica mondiale, e dunque prima o poi per quanto riguarderà l’intero pianeta, tutto lascia pensare che il tasso di crescita non possa superare di molto l’1-1,5% annuo a lungo termine, a prescindere dalle politiche seguite.1
Con un rendimento medio da capitale dell’ordine del 4-5% è pertanto probabile che la disuguaglianza r > g torni a essere la regola del XXI secolo, come lo è sempre stata nel corso della storia e, in tempi recenti, dal XIX secolo alla vigilia della prima guerra mondiale. Nel XX secolo, come si è visto, sono state le guerre a fare tabula rasa del passato e a ridurre fortemente il rendimento da capitale, dando così l’illusione di un superamento strutturale del capitalismo e della sua contraddizione di fondo.
È vero che si potrebbe tassare pesantemente il rendimento da capitale in modo da far scendere il rendimento privato sotto il tasso di crescita. Ma è anche vero che, se lo si fa in modo troppo massiccio e uniforme, si rischia di spegnere il motore dell’accumulazione e di abbassare ancora di più il tasso di crescita. Gli imprenditori non avranno neanche più il tempo di trasformarsi in rentiers, perché non avranno più niente.
La soluzione giusta è l’imposta progressiva annua sul capitale. Solo in questo modo diventa possibile evitare la spirale della disuguaglianza senza fine, salvaguardando al tempo stesso le forze della concorrenza e gli incentivi alla produzione di nuove accumulazioni primarie. Abbiamo ricordato l’eventualità di una soglia d’imposta con tassi limitati allo 0,1% o allo 0,5% annuo per i patrimoni inferiori al milione di euro, all’1% per quelli compresi tra 1 e 5 milioni di euro, al 2% per quelli compresi tra 5 e 10 milioni di euro, con la possibilità di salire fino al 5% annuo per le ricchezze di parecchie centinaia di milioni o di parecchi miliardi di euro. Tutto ciò aiuterebbe a contenere la crescita illimitata delle disuguaglianze, le quali, oggi, aumentano a un ritmo che diverrebbe insostenibile sul lungo periodo: un pericolo di cui i ferventi difensori del mercato autoregolamentato farebbero bene a preoccuparsi. L’esperienza storica insegna anche che disuguaglianze tanto smisurate tra i patrimoni non hanno molto a che vedere con lo spirito d’impresa e che non sono di alcuna utilità per la crescita. Non sono di alcuna “utilità comune”, per riprendere la bella espressione dell’articolo 1 della Dichiarazione del 1789, con il quale abbiamo aperto il libro.
La difficoltà sta nel fatto che la soluzione da noi proposta, l’imposta progressiva sul capitale, esige un altissimo grado di collaborazione internazionale e di integrazione politica regionale: non è insomma alla portata degli Stati-nazione artefici dei tanti compromessi sociali precedenti. E l’allarme di molti sta nel fatto che, procedendo in tal senso, per esempio all’interno dell’Unione Europea, non si faccia altro che rendere più fragili gli equilibri fin qui raggiunti (a cominciare dallo Stato sociale, pazientemente costruito nei paesi europei dopo le catastrofi del XX secolo), senza riuscire ad approdare ad altro se non a un grande mercato, segnato da una concorrenza sempre più pura e sempre più perfetta. Ecco, dicono costoro: la concorrenza pura e perfetta non potrà recare alcun cambiamento alla disuguaglianza r > g, la quale non deriva in alcun modo da un’“imperfezione” del mercato o dalla concorrenza, se mai dal contrario. È vero, il rischio c’è. Ma, a mio avviso, se si vuole riprendere davvero il controllo del capitalismo, non esiste altra scelta se non quella di scommettere fino in fondo sulla democrazia, soprattutto su scala europea. Altre comunità politiche di maggiori dimensioni, come gli Stati Uniti o la Cina, si trovano di fronte a opzioni un po’ più diversificate. Ma nel caso dei piccoli paesi europei, che diventeranno sempre più piccoli con il progressivo sviluppo dell’economia-mondo, la via del protezionismo può comportare solo frustrazioni, e delusioni ancora più forti di quelle che potrebbero derivare dalla scelta europea. Lo Stato-nazione resta il campione ideale per modernizzare a fondo molte politiche sociali e fiscali e, in certa misura, per sviluppare nuove forme di governance e di proprietà condivisa, a metà tra proprietà pubblica e proprietà privata – il che resta uno dei grandi obiettivi dell’avvenire. Solo l’integrazione politica regionale ci dà però la possibilità di pensare a una regolamentazione efficace del capitalismo patrimoniale globalizzato del XXI secolo.