La prima legge fondamentale del capitalismo: α = r × β
Possiamo ora enunciare la prima legge fondamentale del capitalismo, che permette di vincolare lo stock di capitale al flusso di reddito da capitale. Il rapporto capitale/reddito β è in effetti collegato molto semplicemente alla quota dei redditi da capitale nella composizione del reddito nazionale, quota che chiameremo α, ottenendo la seguente formula:
α = r × β
Dove r è il tasso di rendimento medio del capitale.
Per esempio, se β = 600% e r = 5%, avremo α = r × β = 30%.13
In altri termini, se in una data società il patrimonio equivale a sei annualità di reddito nazionale, e se il tasso di rendimento medio da capitale è del 5% annuo, la quota di capitale nel reddito nazionale è del 30%.
La formula α = r × β è una pura uguaglianza contabile. Viene applicata in tutte le società e in tutte le epoche, per definizione. Per quanto sia tautologica, essa deve comunque essere considerata la prima legge fondamentale del capitalismo, in quanto consente di collegare in modo semplice e trasparente i tre concetti più importanti per l’analisi del sistema capitalista: il rapporto capitale/reddito, la quota di capitale nel reddito e il tasso di rendimento del capitale.
Il tasso di rendimento del capitale è un concetto basilare in molte teorie economiche, in particolare nell’analisi marxista, insieme alla tesi del calo tendenziale del saggio di profitto – previsione storica che vedremo essersi rivelata del tutto erronea, anche se contiene un’intuizione interessante. Il concetto svolge un ruolo cruciale anche nelle altre teorie economiche. In ogni caso, il tasso di rendimento del capitale misura quanto rende un capitale nel corso di un anno, quale che sia la forma giuridica assunta dai redditi che lo compongono (profitti, affitti, dividendi, cedole, bonus, plusvalenze ecc.), espresso in percentuale del valore di capitale investito. Si tratta dunque di una nozione più ampia di quella di “tasso di profitto”14 e molto più ampia di quella di “tasso d’interesse”,15 anche se le ingloba entrambe.
È chiaro che il tasso di rendimento può variare enormemente a seconda dei tipi d’investimento e di collocazione delle ricchezze. Determinate imprese possono produrre tassi di rendimento superiori al 10% annuo, o anche più, mentre altre possono accusare perdite (tasso di rendimento negativo). In molti paesi, il tasso di rendimento medio delle azioni raggiunge il 7-8% sul lungo periodo. Gli investimenti immobiliari e obbligazionari non superano spesso il 3-4%, e il tasso d’interesse reale sul debito pubblico è a volte ancora più basso. La formula α = r × β non dà certo conto di tali sottigliezze. Ma ci segnala come le tre nozioni siano collegate l’una all’altra, il che favorisce un utile inquadramento del dibattito.
Per esempio, per quanto riguarda il secondo decennio del XXI secolo, nei paesi ricchi si rileva che i redditi da capitale (profitti, interessi, dividendi, cedole ecc.) si aggirano in genere attorno al 30% del reddito nazionale. Con un rapporto patrimonio/reddito dell’ordine del 600%, ciò significa che il tasso di rendimento medio del capitale è di circa il 5%.
In concreto, il reddito nazionale di circa 30.000 euro pro capite attualmente in vigore nei paesi ricchi si scompone approssimativamente in 21.000 euro di reddito da lavoro (70%) e 9000 euro di reddito da capitale (30%). Ogni abitante possiede un patrimonio medio di 180.000 euro, per cui il reddito da capitale di 9000 euro pro capite annuo che l’abitante riceve corrisponde a un rendimento medio del 5% annuo.
Anche qui non si tratta che di medie: alcuni ricevono redditi da capitale ben superiori ai 9000 euro annui, altri non ricevono nulla, e si limitano a versare affitti al loro padrone di casa o interessi ai loro creditori. Esistono inoltre variazioni non trascurabili tra paese e paese. Senza contare che la misura della quota di reddito da capitale solleva difficoltà pratiche e concettuali importanti, in quanto esistono categorie di reddito – in particolare i redditi da attività non salariata, o il reddito “imprenditoriale” – spesso difficili da scomporre esattamente in redditi da lavoro e redditi da capitale. Il che può a volte falsare le comparazioni. In condizioni del genere, il metodo meno imperfetto in grado di valutare la quota di capitale può essere quello di applicare al rapporto capitale/reddito un tasso plausibile di rendimento medio. Nel prosieguo del libro, torneremo in modo dettagliato su questioni così delicate ed essenziali. Per il momento, gli ordini di grandezza enunciati in precedenza (β = 600%, α = 30%, r = 5%) possono considerarsi dei validi punti di partenza.
Tanto per dare un’idea, possiamo inoltre notare che il tasso di rendimento medio della terra nelle società rurali è in genere dell’ordine del 4-5%. Nei romanzi di Jane Austen e di Balzac, il fatto che la rendita annua prodotta dal capitale terriero – o, in altra misura, dai titoli del debito pubblico – equivalga al 5% circa del valore del capitale stesso, o che il valore di un capitale corrisponda a circa vent’anni di rendita annua, è un fatto talmente evidente che i due scrittori omettono spesso di precisarlo in termini espliciti. Ogni lettore sa bene che ci vuole un capitale dell’ordine di un milione di franchi per produrre una rendita annua di 50.000 franchi. Per gli scrittori del XIX secolo, come per i loro lettori, l’equivalenza tra patrimonio e rendita annua è una cosa scontata, e si passa di continuo da una scala di misura all’altra, come se il processo del reddito non potesse contemplare altra forma, e come se si impiegassero due registri sinonimici perfettamente omogenei, o due lingue parallele conosciute da tutti.
Nel primo decennio del XXI secolo ritroviamo questo medesimo tipo di rendimento – dell’ordine del 4-5% circa, a volte un po’ meno, soprattutto quando i prezzi salgono di molto senza che vi corrisponda un totale adeguamento degli affitti – per quanto riguarda il settore immobiliare. Per esempio, oggi, un grande appartamento parigino del valore di un milione di euro viene spesso affittato a poco più di 2500 euro al mese, ovvero 30.000 euro di locazione annua, il che corrisponde, dal punto di vista del proprietario, a un rendimento annuo di appena il 3% – somma in ogni caso considerevole da sborsare per un affittuario che dispone solo di un reddito da lavoro (anche se elevato) e reddito in ogni caso apprezzabile per il proprietario. La cattiva notizia – o la buona, a seconda di come la si interpreta – è che è stato sempre così, e che i prezzi o i costi degli affitti tendono in genere ad aumentare per avvicinarsi a un rendimento di locazione dell’ordine del 4% annuo (il che corrisponde, nell’esempio proposto, a circa 3000-3500 euro di affitto mensile, o a 40.000 euro annui). È, in definitiva, probabile che la quota d’affitto del locatario sia destinata ad aumentare nel prossimo futuro. Inoltre, per il proprietario, il rendimento annuo può essere integrato da un’eventuale plusvalenza a lungo termine. Un analogo tipo di rendimento, a volte un po’ più elevato, è riscontrabile negli appartamenti più piccoli. Un appartamento del valore di 100.000 euro può comportare un affitto di 400 euro al mese, vale a dire circa 5000 euro annui (5%). Detenere un bene del genere e scegliere di abitarlo può anche permettere di economizzare un affitto equivalente e di riservare la somma non spesa ad altri usi, il che implica comunque un vantaggio.
Per quanto riguarda il capitale investito nelle società – investimento per natura più rischioso – il rendimento medio è spesso più elevato. Il capitale in borsa delle società quotate, nei diversi paesi, equivale in genere a un margine di guadagno stimabile attorno alle 12-15 annualità di reddito, il che corrisponde a un tasso di rendimento annuo – escluse generalmente le imposte – compreso tra il 6% e l’8%.
La formula α = r × β consente di analizzare la rilevanza del capitale di un paese nel suo complesso, o anche dell’intero pianeta. Ma può anche essere impiegata per studiare il bilancio di una determinata impresa. Se, per esempio, consideriamo un’impresa che utilizzi un capitale (uffici, infrastrutture, macchinari) di un valore di 5 milioni di euro, e che realizzi un prodotto annuo di un milione di euro, suddiviso in 600.000 euro di massa salariale e 400.000 euro di profitti,16 vediamo che il rapporto capitale/prodotto della società stessa è β = 5 (capitale raggiunto che rappresenta l’equivalente di cinque anni di prodotto), che la quota di capitale compresa nel prodotto è α = 40% e che il tasso di rendimento del capitale è r = 8%.
Immaginiamo un’altra impresa che utilizzi meno capitale (3 milioni di euro), ma che realizzi la stessa quantità di prodotto (un milione di euro) impiegando più lavoro (700.000 euro di salari, 300.000 di profitti). Per questa società il rapporto è β = 3, α = 30%, r = 10%. La seconda impresa è insomma, quanto a capitale, meno intensiva della prima ma più redditizia (il tasso di rendimento del suo capitale è sensibilmente superiore).
In tutti i paesi, le grandezze β, α e r variano notevolmente a seconda delle imprese. Alcuni settori sono, quanto a capitale, più intensivi di altri – la metallurgia e l’energia sono più intensivi del tessile o dell’agroalimentare, e l’industria è più intensiva dei servizi rispetto al capitale. Esistono anche variazioni significative tra imprese di un medesimo settore, determinate dalle scelte di tecnica produttiva e di posizionamento sul mercato. I livelli raggiunti da β, α e r in questo o quel paese dipendono altresì dal peso assunto sia dal costo dagli immobili adibiti ad abitazione sia dal costo delle risorse naturali.
È bene insistere sul fatto che la legge α = r × β non ci dice come siano determinate le tre grandezze, e in particolare come sia determinato il rapporto capitale/reddito a livello di ciascun paese – rapporto che misura in qualche modo l’intensità capitalistica di una data società. Per fare dei passi in avanti dovremo introdurre altri meccanismi e altre nozioni, in particolare quella di tasso di risparmio e d’investimento e quella di tasso di crescita. Il che ci porterà a formulare la seconda legge fondamentale del capitalismo, secondo la quale il rapporto β di una società è tanto più elevato quanto più è rilevante il tasso di risparmio e quanto più è basso il tasso di crescita. È una cosa che vedremo nei prossimi capitoli. Per il momento, la legge α = r × β ci indica semplicemente che, a prescindere dalle forze economiche, sociali e politiche che determinano i livelli assunti dal rapporto capitale/reddito β, dalla quota di capitale α e dal tasso di rendimento r, queste tre grandezze non possono essere fissate indipendentemente l’una dalle altre. Sul piano concettuale, esistono due gradi di libertà, non tre.