La divisione capitale-lavoro sul lungo periodo: non così stabile

Per procedere, almeno un po’, in questa direzione, e per tentare almeno di precisare i termini di un dibattito apparentemente senza uscita, è utile iniziare a fissare alcuni dati di fatto nel modo più rigoroso e minuzioso possibile. Che cosa sappiamo esattamente di come si è evoluta la divisione capitale-lavoro a partire dal XVIII secolo? Per lungo tempo, la tesi più diffusa tra gli economisti, e passata un po’ troppo in fretta ai libri di testo, è stata quella di una grandissima stabilità, a lungo termine, della divisione del reddito nazionale tra capitale e lavoro, in genere circa due terzi/un terzo.5 Grazie alla prospettiva storica di cui oggi possiamo godere, e ai nuovi dati di cui possiamo disporre, dimostreremo che la realtà è nettamente più complessa.

Da una parte, la divisione capitale-lavoro ha conosciuto durante il secolo scorso modifiche di grande ampiezza, in ragione della caotica storia politica ed economica del XX secolo. In confronto, gli spostamenti registrati nel XIX secolo, già ricordati nell’Introduzione (crescita del capitale nella prima metà del secolo, prima lieve decrescita e poi stabilizzazione, nella seconda metà), sembrano molto più pacifici. Riassumendo: i traumi del “primo XX secolo” (1914-45) – prima guerra mondiale, Rivoluzione bolscevica del 1917, crisi del 1929, seconda guerra mondiale, nuove politiche di regolamentazione, tassazione e controllo pubblico del capitale a seguito dei rivolgimenti citati – hanno registrato come conseguenza, negli anni cinquanta e sessanta del Novecento, un calo dei livelli storici raggiunti dal capitale privato. Il processo di ricostituzione dei patrimoni si rimette tuttavia in moto molto in fretta, per poi accelerare con la rivoluzione conservatrice anglosassone del 1979-80, il crollo del blocco sovietico del 1989-90, la globalizzazione finanziaria e la deregulation del decennio 1990-2000, eventi che segnano una svolta politica di segno contrario rispetto alla svolta precedente, e che permettono ai capitali privati di toccare dal 2010 in poi, nonostante la crisi del 2007-8, soglie di prosperità patrimoniale mai più raggiunte dopo il 1913. Il che non è di per sé un fatto negativo, nel processo economico in atto, e in particolare nel processo di ricostituzione dei patrimoni, in parte naturale e auspicabile. Ma cambia in ogni caso, in misura notevole, la prospettiva che ci si può dare in termini di divisione capitale-lavoro in questo inizio di XXI secolo e delle possibili evoluzioni per i decenni che verranno.

D’altra parte, se proviamo ad adottare, a prescindere dalla duplice congiuntura del XX secolo, una prospettiva di lunghissimo termine, la tesi di una completa stabilità del rapporto capitale/lavoro finisce per scontrarsi con la radicale trasformazione storica della natura stessa del capitale (dal capitale fondiario e terriero del XVIII secolo al capitale immobiliare, industriale e finanziario del XXI) e soprattutto con l’idea secondo cui la crescita moderna si caratterizzerebbe per un’analoga crescita potenziale del “capitale umano” – tesi altrettanto diffusa tra gli economisti, e che di primo acchito pare implicare un aumento tendenziale della quota rappresentata dal lavoro nella composizione del reddito nazionale. Vedremo che una tale tendenza a lunghissimo termine è forse già in atto, ma in proporzioni ben più modeste di quanto si pensi: oggi la quota di capitale (non umano) appare solo leggermente più bassa rispetto a quella dei primi decenni del XIX secolo. Gli altissimi livelli di capitale patrimoniale osservabili oggi nei paesi ricchi sembrano spiegarsi innanzitutto con il ritorno a un regime di crescita debole della popolazione e della produttività – rafforzato da un ritorno a un regime politico obiettivamente molto favorevole ai capitali privati.

Per comprendere appieno trasformazioni del genere, vedremo che l’approccio più fecondo consiste nell’analizzare l’evoluzione del rapporto capitale/reddito (vale a dire il rapporto tra lo stock totale del capitale e il flusso annuo di reddito e prodotto) e non soltanto della divisione capitale-lavoro (vale a dire la ripartizione del flusso di reddito e di prodotto tra redditi da capitale e redditi da lavoro), e nello studiarla più sistematicamente rispetto a un passato in cui perlopiù non si disponeva di dati adeguati.

In ogni caso, prima di presentare tutti questi risultati in maniera dettagliata, dobbiamo procedere per tappe. La Parte prima del volume ha come obiettivo l’introduzione di nozioni fondamentali. Nella parte restante del capitolo 1 cominceremo a presentare i concetti di prodotto interno e di reddito nazionale, di capitale e di lavoro, e il concetto relativo al rapporto capitale/reddito, per poi passare a esaminare le trasformazioni della ripartizione mondiale del prodotto e del reddito dopo la Rivoluzione industriale. Nel capitolo 2 analizzeremo l’evoluzione generale dei tassi di crescita nel corso della storia – fattore che svolgerà un ruolo cruciale nel prosieguo della nostra analisi.

Una volta segnati questi punti di partenza, nella Parte seconda del volume potremo esaminare, procedendo sempre per tappe, la dinamica del rapporto capitale/reddito e della divisione capitale-lavoro. Nel capitolo 3 esamineremo le trasformazioni della composizione del capitale e del rapporto capitale/reddito dopo il XVIII secolo, iniziando con i casi del Regno Unito e della Francia, i meglio conosciuti sul lunghissimo periodo. Il capitolo 4 introdurrà i casi della Germania e soprattutto dell’America, il cui esempio completa utilmente il quadro europeo. Infine, i capitoli 5 e 6 cercheranno di estendere le analisi al complesso dei paesi ricchi, e per quanto possibile al complesso del pianeta, e di trarne insegnamenti validi per la possibile dinamica del rapporto capitale/reddito e della divisione capitale-lavoro a livello mondiale nei primi decenni del XXI secolo.

Il capitale nel XXI secolo
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