L’estremismo meritocratico nelle società ricche
È anche interessante notare che le convinzioni meritocratiche più radicali sono spesso chiamate in causa per legittimare altissime disuguaglianze salariali, tanto più forti quanto appaiono più giustificate di quelle derivanti dall’eredità. Da Napoleone fino alla prima guerra mondiale, esiste in Francia un piccolo numero di alti funzionari molto ben pagati (in qualche caso fino a cinquanta volte il reddito medio dell’epoca), a cominciare degli stessi ministri; e il loro stato di privilegio appare sempre giustificato – in primo luogo dall’imperatore in persona, uscito dalla piccola nobiltà corsa – dall’idea che, grazie alla loro retribuzione e al loro lavoro, i più capaci e meritevoli debbano poter vivere con la stessa dignità e la stessa eleganza dei più fortunati (in qualche modo una risposta, dall’alto, a Vautrin). Come nota Adolphe Thiers nel 1831 parlando alla tribuna della Camera dei deputati: “I prefetti devono poter godere di un prestigio non inferiore a quello dei notabili del dipartimento in cui abitano.”48 Nel 1881 Paul Leroy-Beaulieu spiega che lo Stato, a forza di aumentare solamente le piccole retribuzioni, si è spinto troppo oltre. E prende con decisione le difese degli alti funzionari del tempo, i quali, in maggioranza, non percepiscono più “di 15.000 o 20.000 franchi l’anno,” “cifre che al volgo sembrano enormi” ma che in realtà “non permettono di vivere con eleganza e di accumulare un risparmio di un certo rilievo.”49
Il fatto più inquietante, forse, è che si ritrova lo stesso tipo di ragionamento nelle società più ricche, nelle quali l’argomento austeniano del bisogno e della dignità sembrerebbe più difficile da applicare. Negli Stati Uniti dei primi anni del XXI secolo si sentono spesso, a proposito dei guadagni stratosferici dei superdirigenti (in certi casi cinquanta o cento volte il reddito medio, o anche di più), giustificazioni analoghe: si insiste sul fatto che senza quelle retribuzioni altissime solo i possessori di patrimoni potrebbero godere della vera agiatezza, il che sarebbe ingiusto; insomma, i redditi di parecchi milioni o di parecchie decine di milioni di euro versati ai superdirigenti sarebbero una manifestazione di grande giustizia sociale.50 Ecco come possono ripresentarsi, man mano che si procede negli anni, condizioni di disuguaglianza ancora più gravi e più inique che in passato. Ed ecco come si può immaginare un futuro caratterizzato per un verso dal ritorno delle fortissime disuguaglianze da capitale ereditario, per l’altro da disuguaglianze salariali esasperate e legittimate da assurde considerazioni in fatto di merito e di produttività (assurde perché abbiamo già constatato quanto siano artificiose). L’estremismo meritocratico può insomma portare a una gara a inseguimento tra i superdirigenti e i rentiers, a scapito di tutti coloro che non sono né l’una né l’altra cosa.
Va anche sottolineato che il rilievo delle giustificazioni meritocratiche nella legittimazione delle disuguaglianze della società moderna non riguarda soltanto il vertice della gerarchia, ma anche le disparità che oppongono le classi popolari alle classi medie. Alla fine degli anni ottanta, Michèle Lamont ha realizzato alcune centinaia di interviste con rappresentanti delle “classi medie superiori” negli Stati Uniti e in Francia, sia nelle grandi metropoli (New York, Parigi) sia in città di media importanza (Indianapolis, Clermont-Ferrand), per approfondire con gli intervistati il significato del loro successo, il modo in cui vivono la propria identità pubblica, il ruolo che pensano di occupare nella società, l’interpretazione che danno alla barriera che li separa dalle altre categorie sociali e dalle classi popolari. La prima conclusione è la seguente: in ciascun paese queste “élite colte” insistono innanzitutto sul proprio merito e sulle proprie qualità morali, che definiscono usando termini come rigore, pazienza, operosità, sforzo e così via (anche tolleranza, gentilezza ecc.).51 Gli eroi e le eroine di Balzac e Jane Austen avrebbero ritenuto inutile descrivere così le loro qualità personali per distinguersi dai loro domestici (dei quali, per la verità, non si parla mai).