L’euro: una moneta senza Stato per il XXI secolo?
A prescindere dalle diverse crisi bancarie nell’Europa del Sud, è evidente che episodi del genere pongono un problema più generale, che è quello dell’architettura complessiva dell’Unione Europea. Come si è arrivati a creare, per la prima volta nella storia su scala continentale, una moneta senza Stato? Dal momento che il PIL dell’Unione Europea equivale nel 2013 a quasi un quarto del PIL mondiale, la domanda riveste chiaramente un interesse generale, che va ben oltre quello degli abitanti dell’area.
La risposta che in genere si dà alla domanda è la seguente: la creazione dell’euro, decisa nel 1992 con il Trattato di Maastricht, sulla scia della caduta del Muro e dell’unificazione tedesca, e divenuta effettiva il 1° gennaio 2002 con la distribuzione di banconote, è soltanto la prima tappa di un lungo processo. L’unione monetaria comporta naturalmente un’unione politica, fiscale, di bilancio, vale a dire un legame sempre più stretto. Basta pazientare e non bruciare le tappe. È una risposta che corrisponde al vero, almeno in parte. Ho però l’impressione che, a forza di non voler tracciare con precisione il cammino da intraprendere, a forza di eludere continuamente il confronto sull’itinerario da percorrere, le tappe e il punto d’arrivo, si rischi talvolta di uscire di strada. Se l’Europa, nel 1992, è arrivata a creare una moneta senza Stato, non lo ha fatto solo per pragmatismo. Lo ha fatto anche perché un tale disegno istituzionale è stato concepito tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta, in un momento in cui si pensava che l’unica funzione delle banche centrali fosse quella di guardar passare i treni, ossia assicurarsi che l’inflazione si mantenesse su livelli relativamente bassi. Dopo la stagflazione degli anni settanta, i governi e l’opinione pubblica si sono convinti che le banche centrali dovessero, prima di tutto, essere indipendenti dal potere politico e avere quale unico obiettivo un tasso d’inflazione ridotto. Così si è arrivati a creare una moneta senza Stato e una banca centrale senza governo. Un’idea, quella della sostanziale passività delle banche centrali, che è andata in pezzi dopo la crisi del 2008, in seguito alla quale tutti hanno riscoperto il ruolo cruciale svolto dalle banche stesse in casi di grave crisi economica, e, con esso, il carattere del tutto inadeguato dell’architettura istituzionale europea.
Intendiamoci bene. Considerato l’immenso potere di produrre liquidità specifico delle banche centrali, è assolutamente legittimo circoscriverlo con statuti rigidi e con compiti chiaramente definiti. Come nessuno si sogna di conferire a un capo di governo il potere di cambiare come gli pare i nomi dei presidi o dei professori universitari (per non parlare dei contenuti del loro insegnamento), così non c’è nulla di scioccante nel fatto che i rapporti tra il potere politico e le autorità monetarie siano regolati da restrizioni precise. Dobbiamo però essere chiari sui limiti di una tale indipendenza. Nessuno, che io sappia, ha mai proposto, nel corso degli ultimi decenni, di restituire alle banche centrali lo status privato di cui godevano in molti paesi fino alla prima guerra mondiale, o anche, in molti casi, fino al 1945.25 In concreto, il fatto che le banche centrali siano istituzioni pubbliche determina che i loro dirigenti vengano nominati dai governi, a volte dai parlamenti. E sono cariche perlopiù irrevocabili per tutta la durata del loro mandato (in genere cinque o sei anni), il che significa, e non è poco, che al termine del mandato possono essere sostituiti, qualora la loro politica sia risultata inadeguata. In pratica, i dirigenti della Federal Reserve, della Banca del Giappone o della Banca d’Inghilterra devono operare di concerto con i governi democraticamente eletti e legittimi. Non solo: in ciascuno di questi paesi, la banca centrale ha svolto un ruolo chiave per stabilizzare i tassi d’interesse del debito pubblico a livelli contenuti e prevedibili.
Nel caso della Banca centrale europea occorre, tuttavia, affrontare difficoltà particolari. In primo luogo, gli statuti della BCE sono più restrittivi degli altri: l’obiettivo di mantenere bassa l’inflazione è stato prioritario rispetto a quello della piena occupazione e della crescita, il che rispecchia lo specifico contesto ideologico nel quale la BCE è stata concepita. Da un altro lato e ancora più importante, gli statuti impediscono alla BCE di acquisire i titoli del debito pubblico al momento della loro emissione: la banca deve prima lasciare che le banche private prestino denaro agli Stati membri dell’eurozona (eventualmente a un tasso più alto di quello osservato dalla BCE per prestare denaro alle banche private stesse), per poi rastrellare i titoli sul mercato secondario: esattamente ciò che la BCE ha dovuto fare per finanziare i paesi dell’Europa del Sud, dopo molte esitazioni.26 Più in generale, è evidente che la prima difficoltà sta nel fatto che la BCE deve vedersela con diciassette differenti debiti pubblici nazionali e con diciassette governi nazionali, e che non è certo facile per la banca svolgere il ruolo stabilizzatore che le compete in un contesto del genere. Se la Federal Reserve dovesse ogni mattina scegliere tra il debito pubblico del Wyoming, della California e di New York, e decidere tassi e quantità a seconda delle diverse tensioni percepibili su ciascuno dei tre distinti mercati, per giunta sotto la pressione dei diversi Stati, farebbe molta fatica a portare avanti una politica monetaria serena.
Dopo l’introduzione dell’euro nel 2002, fino al biennio 2007-8 i tassi d’interesse sono stati rigorosamente gli stessi per i vari paesi. Nessuno pensava a una possibile uscita dall’euro e tutto sembrava funzionare bene. Tuttavia, quando è esplosa la crisi finanziaria mondiale, i tassi hanno iniziato a differenziarsi in misura notevole. E oggi occorre considerare con molta attenzione l’ampiezza delle sue conseguenze sui bilanci pubblici. Quando un debito pubblico sfiora un’annualità di PIL, basta una variazione di pochi punti sul tasso d’interesse per provocare gravi conseguenze. Inoltre, di fronte a queste incertezze, diventa pressoché impossibile organizzare un sereno dibattito democratico sugli sforzi necessari e le norme indispensabili per riformare lo Stato sociale. E, per i paesi dell’Europa del Sud, si tratta davvero della peggiore tra le combinazioni immaginabili. Prima della creazione dell’euro, era possibile svalutare la propria moneta, il che consentiva almeno di ristabilire la competitività e di rilanciare l’attività economica. Oggi, si può dire che la speculazione sui tassi d’interesse nazionali sia in qualche modo ancora più destabilizzante delle speculazioni di un tempo sui tassi di cambio tra paesi europei; anche perché, nel frattempo, i bilanci bancari internazionali hanno assunto un’importanza tale che basta una crisi di panico tra alcuni operatori del mercato per innescare processi di vasta portata, perlomeno a livello di paesi come la Grecia, il Portogallo o l’Irlanda, o anche come la Spagna e l’Italia. Secondo logica, la contropartita alla perdita di sovranità monetaria dovrebbe essere l’accesso a un debito pubblico garantito, e a un tasso basso e prevedibile.