La gerarchia morale dei patrimoni

In ogni caso, mi sembra urgente andare oltre il dibattito, sovente grottesco oltre che mal formulato, sul merito dei grandi patrimoni. Nessuno nega quanto sia importante contare, in una società di imprenditori, su invenzioni e innovazioni – durante la belle époque furono moltissime, dall’automobile al cinema all’elettricità, proprio come oggi. Solo che la ragione imprenditoriale non basta a giustificare tutte le disuguaglianze patrimoniali, soprattutto se sono insostenibili, e sminuisce l’importanza dei fatti. Il problema è che la disuguaglianza r > g, raddoppiata dalla disuguaglianza dei rendimenti in rapporto al volume del capitale iniziale, porta spesso a una concentrazione eccessiva e perenne del patrimonio: per quanto legittime siano in partenza, a volte le ricchezze si moltiplicano e si perpetuano oltre ogni limite e oltre ogni possibile giustificazione razionale, in termini di utilità sociale.

Gli imprenditori tendono così a trasformarsi in rentiers, non solo con il passaggio delle generazioni ma nel corso di una stessa vita, tanto più che le esistenze individuali tendono ad allungarsi sempre più: il fatto di aver avuto delle idee geniali a 40 anni non implica che si continui ad averle a 90, comunque non più dei giovani della generazione entrante. Eppure la ricchezza è sempre lì, spesso moltiplicata per più di dieci in vent’anni, come dimostrano i casi di Bill Gates e di Liliane Bettencourt.

Ecco la ragione di fondo per cui si rende necessaria l’introduzione di un’imposta progressiva annua sulle maggiori ricchezze mondiali: l’unico modo che consentirebbe un controllo democratico di un processo potenzialmente esplosivo, e che al tempo stesso salvaguarderebbe il dinamismo imprenditoriale e l’apertura economica internazionale. L’idea, e i suoi limiti, saranno studiati nella Parte quarta del volume.

Per il momento, ci limitiamo a notare che un approccio fiscale del genere aiuterebbe anche a risolvere la questione, sterile e senza sbocchi, della gerarchia morale dei patrimoni. Ogni fortuna, infatti, è al tempo stesso giustificata e potenzialmente eccessiva. La frode in sé esiste molto di rado, ma esiste molto di rado anche il merito in sé. L’imposta progressiva sul capitale ha appunto il vantaggio di trattare le diverse situazioni in modo flessibile, continuo e prestabilito, promuovendo la trasparenza democratica e finanziaria sui patrimoni e sul loro valore crescente – risultato non da poco.

Il pubblico dibattito sulle ricchezze si riduce troppo spesso a poche affermazioni perentorie – e in gran parte arbitrarie – sui meriti comparati di questa o quella persona. Per esempio, è una pratica oggi piuttosto comune contrapporre il nuovo leader mondiale della ricchezza, Carlos Slim, magnate messicano del settore immobiliare e delle telecomunicazioni, rampollo di una famiglia libanese e sovente descritto nei paesi occidentali come un intrallazzatore che deve la propria ricchezza a rendite di monopolio ottenute facendo affari con il governo del proprio paese (ovviamente corrotto), e l’ex leader mondiale, Bill Gates, provvisto di tutte le virtù dell’imprenditore modello e meritevole. A volte si ha quasi l’impressione che sia stato Bill Gates in persona ad aver inventato l’informatica e il microprocessore, e che sarebbe dieci volte più ricco se avesse potuto acquisire il saldo integrale della sua produttività marginale e del suo apporto personale al benessere mondiale (e meno male! Il buon popolo del pianeta ha certo usufruito con larghezza delle ricadute positive delle sue invenzioni). È un culto della personalità spiegabile con il bisogno insopprimibile delle moderne società democratiche di dare un senso alle disuguaglianze. Lo dico chiaramente: io non so, con certezza, quasi nulla del modo in cui Carlos Slim e Bill Gates si sono arricchiti, così come sono del tutto incapace di pronunciarmi sui loro rispettivi meriti. Tuttavia mi pare che anche Bill Gates abbia beneficiato, in buona sostanza, di una situazione di relativo monopolio sui sistemi telematici (come è successo con numerose ricchezze costruite sulle nuove tecnologie, dalle telecomunicazioni a Facebook). Inoltre, immagino che il suo contributo si sia avvalso del lavoro di migliaia di ingegneri e ricercatori elettronici e informatici, senza i quali, in settori del genere, nessuna invenzione sarebbe stata possibile – un personale specializzato che non ha però brevettato i propri articoli scientifici. In ogni caso, mi pare eccessivo contrapporre in modo tanto radicale due situazioni individuali senza nemmeno cercare di esaminare con precisione i fatti che le riguardano.20

Quanto ai miliardari giapponesi (Yoshiaki Tsutsumi e Taikichiro Mori), i quali, dal 1987 al 1994, hanno preceduto Bill Gates nella classifica di Forbes, si è pensato bene, nei paesi occidentali, di arrivare persino a dimenticarne il nome, certo ritenendo che la loro fortuna fosse dovuta alla bolla immobiliare e finanziaria allora protagonista in Giappone, o a manipolazioni poco chiare di stampo asiatico. La crescita giapponese dagli anni cinquanta agli anni ottanta è stata, in realtà, la più forte della storia, molto più forte di quella degli Stati Uniti negli anni novanta e nel decennio successivo, e si può quindi pensare che alcuni imprenditori ne abbiano approfittato, svolgendovi un ruolo positivo.

Anziché lasciarsi andare a valutazioni sulla gerarchia morale della ricchezza, che spesso si riducono, in pratica, a un esercizio di eurocentrismo o di occidentalocentrismo, mi sembra più utile tentare di comprendere le leggi generali che governano in genere le dinamiche patrimoniali, al di là della considerazione delle singole persone, e cercare di prevedere modi di regolazione – soprattutto fiscali – applicabili a tutti allo stesso modo, a prescindere dalle rispettive nazionalità. In Francia, quando il magnate dell’acciaio Lakshmi Mittal ha rilevato nel 2006 Arcelor (all’epoca il secondo gruppo siderurgico mondiale), e si è di nuovo segnalato nell’autunno 2012 per gli investimenti giudicati troppo a buon mercato sull’altoforno di Florange, i media si sono particolarmente accaniti contro il miliardario indiano. In India, tutti sono convinti che una tale ostilità si spieghi, almeno in parte, con il colore della sua pelle. Siamo sicuri che questo dettaglio non conti proprio nulla? È vero che i metodi di Mittal sono brutali, e che il suo stile di vita è, per così dire, scandaloso (tutta la stampa francese si sente infastidita dalla quantità di lussuose dimore londinesi di Mittal, “che valgono tre volte l’investimento di Florange”21), ma è anche vero che ci si scandalizza di meno quando un analogo stile di vita ha come scenario un hôtel particulier di Neuilly-sur-Seine, oppure quando un altro noto miliardario, questa volta francese, rispondente al nome di Arnaud Lagardère, giovane erede ben poco noto per il merito, la virtù e l’utilità sociale, riceve dallo Stato francese più di un miliardo di euro per uscire dal capitale dell’EADS (leader aeronautico mondiale).

Facciamo un ultimo esempio, ancora più clamoroso. Nel febbraio 2012, la giustizia francese fa sequestrare più di 200 metri cubi di beni (automobili di lusso, quadri d’autore ecc.) nell’hôtel particulier, in Avenue Foch, di proprietà di Teodorin Obiang, figlio del dittatore della Guinea Equatoriale. Lungi da me l’idea di compiangere lo sfortunato miliardario: non ci sono dubbi che la sua partecipazione nella società che sfrutta il legname guineano (da cui il giovane pare trarre la maggior parte del proprio reddito) sia stata acquisita per vie illegali, e che le risorse di cui gode siano state di fatto sottratte ai legittimi proprietari, cioè agli abitanti della Guinea Equatoriale. Tra l’altro si tratta di un episodio esemplare e istruttivo, che dimostra come la proprietà privata sia un po’ meno sacra di quanto a volte si pensi, e come sia tecnicamente possibile, volendo, trovare il filone giusto nel complicato dedalo delle tante società di comodo attraverso le quali i vari Teodorin Obiang amministrano beni e partecipazioni. Ma non ci sono nemmeno dubbi sul fatto che, a Parigi come a Londra, si possano trovare altri esempi di ricchezze individuali ottenute in sostanza attraverso appropriazioni indebite di risorse naturali: pensiamo agli oligarchi russi o agli emiri del Qatar. Può darsi che simili appropriazioni private di petrolio, gas o alluminio non siano accomunabili al furto puro e semplice di legname realizzato da Teodorin Obiang; può darsi anche che sia più ammissibile intervenire a livello giudiziario quando il furto avviene ai danni di un paese molto povero di quando avviene ai danni di un paese un po’ meno povero.22 Comunque mi si darà atto che i due diversi casi sono legati l’uno all’altro più da motivi di continuità che di discontinuità, e che i grandi patrimoni sono, non di rado, ritenuti più sospetti quando hanno la pelle scura. Un fatto è certo: le magistrature e le procedure giudiziarie non possono regolare tutti i problemi in materia di beni acquisiti illegalmente e di ricchezze indebite esistenti al mondo. Solo un’imposta sul capitale favorisce l’adozione di un trattamento più sistematico e più equo in vista della soluzione del problema.

Un problema che, nei suoi termini generali, è il seguente: il rendimento da capitale mescola spesso indissolubilmente elementi eterogenei che possono dipendere o da un effettivo lavoro imprenditoriale (forza indispensabile allo sviluppo economico), o dalla fortuna pura e semplice (ci si trova nel posto giusto al momento giusto per rilevare a buon prezzo un attivo allettante), o da attività illecite somiglianti al furto o alla frode – è normale che nelle faccende di eredità intervenga quel tanto di arbitrio che è parte integrante degli arricchimenti patrimoniali. Il capitale ha per natura rendimenti volatili e imprevedibili, e può produrre con facilità, per chiunque lo detenga, plusvalenze – o minusvalenze – immobiliari e finanziarie equivalenti a decine di anni di salario. Al vertice della gerarchia dei patrimoni, effetti simili sono ancora più accentuati. Ed è sempre stato così. In Ibiscus (1926) lo scrittore di fantascienza Aleksej Tolstoj prefigura l’orrore capitalista. Nel 1917, a Pietroburgo, il contabile Simon Nevzorov spacca un armadio in faccia all’antiquario che gli propone un impiego, e gli ruba così una piccola fortuna. L’antiquario si è a sua volta arricchito riscattando a poco prezzo i beni degli aristocratici in fuga dalla Rivoluzione. Quanto a Nevzorov, arriva in sei mesi a moltiplicare il capitale iniziale grazie un losco affare che mette in piedi, a Mosca, con il nuovo amico Ritčev. Nevzorov è il prototipo del parassita, miserabile e meschino. E dimostra con la sua stessa grettezza fino a che punto il capitale sia il contrario del merito: l’accumulazione del capitale comincia a volte con la rapina, e l’arbitrio del suo rendimento torna sovente a perpetuare il furto iniziale.

Il capitale nel XXI secolo
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