La Germania: capitalismo renano e proprietà sociale
Cominciamo con il caso Germania. È interessante confrontare l’andamento della curva dei dati del Regno Unito e della Francia con quello tedesco, in particolare in merito alla questione dell’economia mista, di cui abbiamo appena visto l’importanza nel corso del dopoguerra. I dati storici tedeschi sono purtroppo più eterogenei, a causa della tardiva unificazione del paese e dei numerosi cambiamenti territoriali, e non consentono di risalire in misura credibile al periodo antecedente il 1870. Le stime di cui disponiamo per il periodo successivo al 1870 mettono comunque in evidenza sia le somiglianze con il Regno Unito e la Francia sia un certo numero di differenze.
Rileviamo innanzitutto che l’evoluzione d’insieme è similare: da un lato, sul lungo periodo, i terreni agricoli sono stati sostituiti dal capitale immobiliare, industriale e finanziario; dall’altra, il rapporto capitale/reddito non ha smesso di aumentare dalla fine della seconda guerra mondiale, e sembra in procinto di ritornare sui livelli precedenti gli eventi tragici del 1914 e del 1945 (cfr. grafico 4.1).
Si noterà che, durante la belle époque, il valore dei terreni agricoli in Germania è molto più vicino a quello della Francia che a quello del Regno Unito (l’agricoltura, oltre Reno, non è ancora scomparsa), e che il capitale industriale tedesco è superiore a quello degli altri due paesi. Invece gli investimenti esteri, alla vigilia della prima guerra mondiale, sono due volte più bassi in Germania che in Francia (circa il 50% del reddito nazionale contro più di un’annualità), e quattro volte più bassi che nel Regno Unito (circa due annualità di reddito nazionale). In gran parte ciò dipende dal fatto che la Germania non ha praticamente impero coloniale, il che genera tra l’altro non poche tensioni politiche e militari; si pensi in particolare alle crisi marocchine del 1905 e del 1911, nel corso delle quali il Kaiser vorrebbe mettere in discussione la supremazia francese in Marocco. La concorrenza esasperata tra le potenze europee per gli investimenti coloniali ha chiaramente contribuito a creare le condizioni che porteranno alla dichiarazione di guerra dell’estate del 1914: non c’è bisogno di sottoscrivere tutte le analisi di Lenin (L’imperialismo fase suprema del capitalismo è stato scritto nel 1916) per arrivare a una conclusione del genere.
Grafico 4.1.
Il capitale in Germania,
1870-2010
In Germania, nel 1910, il capitale nazionale equivale a 6,5 annualità di reddito nazionale (di cui circa 0,5 annualità collocate all’estero).
Fonti e dati: cfr. http://piketty.pse.ens.fr/capital21c.
Si noterà pure che la Germania ha accumulato negli ultimi decenni, grazie alle eccedenze commerciali, consistenti attivi esteri. Oggi l’attivo estero della Germania è vicino al 50% del reddito nazionale (più della metà del quale accumulato dopo l’anno 2000), più o meno equivalente ai livelli del 1913. Comparando i dati si nota che è una percentuale inferiore a quella dell’attivo estero francese e britannico della belle époque, ma è pur sempre una percentuale notevole se rapportata alla posizione attuale delle due potenze ex coloniali, posizione vicina allo zero. Il confronto tra il grafico 4.1 e i grafici 3.1 e 3.2 mostra fino a che punto la Germania, la Francia e il Regno Unito, dopo il XIX secolo, abbiano seguito traiettorie storiche assai differenziate – e abbiano in certa misura invertito le rispettive posizioni. Considerate le altissime eccedenze commerciali tedesche attuali, non è impossibile che la divergenza si accentui ulteriormente in futuro. Torneremo sull’argomento più avanti.
Per quanto riguarda il debito pubblico e la divisione tra capitale pubblico e privato, l’andamento tedesco è abbastanza vicino a quello francese. Con un’inflazione media di circa il 17% annuo tra il 1913 e il 1950, vale a dire una moltiplicazione dei prezzi per più di 300 (contro appena 100 in Francia), la Germania è il paese che più di tutti, nel XX secolo, ha annegato il proprio debito pubblico nell’inflazione. Nonostante i forti deficit accumulati durante le due guerre mondiali (tra il 1918 e il 1920 l’indebitamento pubblico supera in breve il 100% del PIL, e tra il 1943 e il 1944 supera il 150%), l’inflazione permetterà ogni volta di riportare molto rapidamente il debito su livelli bassissimi: appena il 20% del PIL, nel 1930 come nel 1950 (cfr. grafico 4.2).1 Con ciò, il ricorso all’inflazione è stato talmente elevato, e ha destabilizzato l’economia e la società tedesca in modo talmente violento, soprattutto con la superinflazione degli anni venti, che l’opinione pubblica tedesca ha maturato, dopo episodi così significativi, una mentalità fortemente antinflazionistica.2 Per cui, oggi, ci troviamo in una situazione paradossale: il paese che nel XX secolo ha più massicciamente utilizzato l’inflazione per liberarsi dei debiti, vale a dire la Germania, non vuole sentir parlare di un rialzo dei prezzi superiore al 2% annuo; il paese che nel XX secolo ha sempre rimborsato il proprio debito pubblico, anche al di là del ragionevole, vale a dire il Regno Unito, ha invece un atteggiamento più flessibile e non vede niente di male nel fatto che la sua banca centrale acquisti una buona parte del debito e lasci salire leggermente l’inflazione.
Grafico 4.2.
La ricchezza pubblica in Germania,
1870-2010
In Germania, nel 2010, i debiti pubblici equivalgono a circa 1 annualità di reddito nazionale (l’equivalenza vale anche per gli attivi).
Fonti e dati: cfr. http://piketty.pse.ens.fr/capital2c.
Anche per quanto riguarda l’accumulazione dell’attivo pubblico, il caso Germania è nuovamente simile al caso Francia, con rilevanti partecipazioni pubbliche nel settore bancario e industriale nel periodo 1950-70, in parte vendute dopo gli anni ottanta e novanta, ma ben lontane dall’essere state cancellate. Per esempio, il Land della Bassa Sassonia detiene ancora oggi quasi il 15% delle azioni – e il 20% dei diritti di voto garantiti dalla legge, legge che l’Unione Europea intende peraltro mettere in discussione – della Volkswagen, prima azienda automobilistica europea e mondiale.3 Tra il 1950 e gli anni settanta, grazie a un debito pubblico quasi nullo, il patrimonio pubblico netto tedesco equivaleva a circa un’annualità di reddito nazionale, mentre il patrimonio privato, all’epoca a un livello molto basso, non raggiungeva le due annualità (cfr. grafico 4.3). Esattamente come in Francia, in Germania il potere pubblico deteneva, nei decenni della ricostruzione e del miracolo economico, tra il 25% e il 30% del capitale nazionale. Ed esattamente come in Francia, il rallentamento della crescita dopo il periodo 1970-80 e l’accumulo del debito pubblico (iniziato molto prima della riunificazione e proseguito dopo) hanno portato, negli scorsi decenni, a un completo rovesciamento della situazione. Oggi, alla fine del primo decennio del XXI secolo, il patrimonio pubblico netto è praticamente a quota zero, e i patrimoni privati, che dal 1950 a oggi non hanno smesso di aumentare, rappresentano la quasi totalità del patrimonio nazionale.
Grafico 4.3.
Capitale privato e pubblico in Germania,
1870-2010
Nel 1970 il capitale pubblico equivale a quasi 1 annualità di reddito nazionale, contro poco più di 2 annualità per il capitale privato.
Fonti e dati: cfr. http://piketty.pse.ens.fr/capital21c.
Grafico 4.4.
Capitale privato e pubblico in Europa,
1870-2010
In Europa i movimenti del capitale nazionale sul lungo periodo si comprendono innanzitutto a partire da quelli del capitale privato.
Fonti e dati: cfr. http://piketty.pse.ens.fr/capital21c.
Esiste tuttavia una differenza significativa tra il valore del capitale privato in Germania e quello del capitale privato in Francia e nel Regno Unito. I patrimoni privati tedeschi sono enormemente cresciuti nel dopoguerra: nel 1950 erano a un livello estremamente basso (appena poco più di un’annualità e mezza di reddito nazionale), mentre oggi superano le quattro annualità di reddito nazionale. Il fenomeno di ricostituzione della ricchezza privata a livello europeo è ormai incontestabile, come risulta, in modo persino spettacolare, dal grafico 4.4. Nonostante ciò, il valore dei patrimoni privati tedeschi è oggi fissato a un livello sensibilmente inferiore rispetto a quello del Regno Unito e della Francia: appena poco più di quattro annualità di reddito nazionale in Germania, contro cinque-sei annualità in Francia e nel Regno Unito, e più di sei annualità in Italia e Spagna, come vedremo nel prossimo capitolo. Pur tenendo conto dell’elevato livello di risparmio tipico della Germania, il basso livello dei patrimoni tedeschi, confrontato con quello degli altri paesi europei, rappresenta in certa misura un paradosso, forse in parte transitorio, ed è comunque spiegabile nel seguente modo.4
Il primo fattore da prendere in considerazione è il basso livello dei prezzi immobiliari in Germania rispetto agli altri paesi europei, motivabile in parte con il fatto che i forti rialzi di prezzo registrati ovunque in Europa tra il 1990 e il 2000 sono stati frenati oltre Reno dall’unificazione tedesca, la quale ha comportato che un gran numero di alloggi sia stato immesso sul mercato a prezzi molto bassi. Per spiegare un possibile divario a lungo termine, bisognerebbe però fare ricorso a fattori più duraturi nel tempo, per esempio una maggiore regolazione del mercato delle abitazioni e degli affitti.
In ogni caso, gran parte della disparità tra Germania e Francia e Regno Unito deriva non già dalla differenza nel valore dello stock immobiliare, bensì dal diverso valore degli altri capitali interni, in particolare del capitale delle imprese (cfr. grafico 4.1). La disparità, insomma, non deriva tanto dal livello più basso del capitale immobiliare tedesco, quanto dal livello più basso della capitalizzazione di borsa delle imprese. Se, per calcolare il totale dei patrimoni privati utilizziamo non il valore di mercato delle società e gli attivi finanziari corrispondenti, ma il loro valore di bilancio (vale a dire il valore contabile ottenuto cumulando gli investimenti iscritti a bilancio e deducendone i debiti), ecco che il paradosso tedesco non esiste più: i patrimoni privati tedeschi passerebbero immediatamente ai medesimi livelli della Francia e del Regno Unito (tra cinque e sei annualità di reddito nazionale, anziché quattro). Nel prossimo capitolo torneremo su tali complicazioni, in apparenza di natura puramente contabile, ma in verità di natura fortemente politica.
Per il momento, limitiamoci a notare che i valori di mercato, più bassi, delle imprese tedesche sembrano corrispondere a quello che a volte viene definito il modello di “capitalismo renano”, o stakeholder model, ossia un modello economico in cui la proprietà delle imprese appartiene non solo agli azionisti ma anche a un certo numero di portatori di interessi – gli stakeholder – a cominciare dai rappresentanti dei lavoratori (i quali nei consigli di amministrazione tedeschi dispongono di poteri deliberanti e non solo di consultazione, pur non essendo tenuti a detenere azioni), e in certi casi i rappresentanti del Land, delle associazioni dei consumatori e dei comitati di difesa dell’ambiente ecc. Non intendiamo, qui, idealizzare questo modello di proprietà sociale condivisa delle imprese, il quale ha comunque i suoi limiti. Intendiamo semplicemente constatare che il modello può essere economicamente efficiente quanto il modello di capitalismo di mercato anglosassone, o stockholder model (in cui tutto il potere è in teoria nelle mani degli azionisti, ma in pratica la situazione è assai più complessa), e che implica automaticamente, per le società, una valorizzazione di mercato inferiore – senza che, per questo, il vero valore sociale sia necessariamente più basso. Il dibattito sulle differenti forme di capitalismo è iniziato subito dopo il 1990, con il dissolvimento dell’Unione Sovietica.5 Si è poi fatto un po’ meno acceso con l’andar del tempo, in parte perché il modello economico tedesco è parso perdere velocità negli anni successivi all’unificazione (tra il 1998 e il 2002 la Germania veniva spesso indicata come la grande malata d’Europa). Se si pensa però alla relativa buona salute dimostrata dalla Germania di fronte alla crisi finanziaria mondiale del periodo 2007-12, non è da escludere che il dibattito torni a riaccendersi negli anni a venire.6