La nozione di produttività marginale del capitale
In concreto, la produttività marginale del capitale è definita dal valore della produzione addizionale apportato da un’unità di capitale supplementare. Supponiamo per esempio che, in una società agricola, il fatto di disporre dell’equivalente di 100 euro in terreni aggiuntivi o meglio in utensili supplementari (considerati i prezzi in vigore per i terreni e gli utensili) faccia aumentare la produzione di cibo dell’equivalente di 5 euro annui (inoltre tutti gli altri elementi devono essere uguali, in particolare mantenendo costante la quantità di lavoro impiegata). In questo caso, la produttività marginale del capitale è di 5 euro per 100 euro investiti, ossia è del 5% annuo. In condizioni di concorrenza pura e perfetta, si tratta di un tasso di rendimento annuo che il detentore del capitale – proprietario fondiario o proprietario dei mezzi di produzione – dovrebbe ottenere da parte del lavoratore agricolo. Se cerca di ottenere più del 5% il lavoratore andrà ad affittare la terra e gli attrezzi da un altro capitalista. E se è il lavoratore che vuole pagare meno del 5%, la terra e gli attrezzi andranno a un altro lavoratore. Possono anche esistere situazioni in cui in cui il proprietario si trovi in una posizione di monopolio per affittare terra e utensili al lavoratore, oppure per comprargli la forza lavoro (è il cosiddetto “monopsonio”), nel qual caso il proprietario può imporre un tasso di rendimento superiore alla produttività marginale.
In un’economia più complessa, in cui gli impieghi del capitale sono molteplici e diversificati – in cui si possono investire 100 euro in un’azienda agricola, ma anche in abitazioni o in un’impresa industriale o di servizi –, diventa più difficile conoscere la produttività marginale del capitale. In linea di principio, spetta al sistema d’intermediazione finanziaria (specie le banche e i mercati finanziari) il compito di trovare gli impieghi migliori possibili del capitale, in modo che ciascuna unità di capitale disponibile sia investita là dove è maggiormente produttiva – magari in capo al mondo se necessario – e renda per chi lo detiene il miglior rendimento possibile. Un mercato del capitale si dice “perfetto” quando fa sì che ogni unità di capitale venga investita nel miglior modo possibile e ottenga la massima produttività marginale disponibile in economia, possibilmente nell’ambito di un portafoglio d’investimenti del tutto diversificato (in modo da beneficiare senza alcun rischio del rendimento medio dell’economia) e ovviamente con spese d’intermediazione minime.
Nella pratica, però, gli istituti finanziari e i mercati azionari sono lontanissimi da questo ideale di perfezione, e si caratterizzano spesso per l’instabilità cronica, le ondate speculative e le bolle a ripetizione. Va detto che non è semplice scovare, sull’intero pianeta, o anche in un intero paese, il miglior impiego possibile per un’unità di capitale – senza contare che il “breve termine” e la dissimulazione dei conti sono a volte la via più facile per ottenere un rendimento privato ai massimi e immediato. Al di là delle imperfezioni o meno delle istituzioni esistenti, resta comunque il fatto che i sistemi d’intermediazione finanziaria hanno svolto un ruolo centrale e insostituibile nella storia dello sviluppo economico. È un processo che ha sempre visto in scena una gran quantità di attori, e non solo le banche e i mercati finanziari ufficiali: per esempio, nei secoli XVIII e XIX, erano i notai a svolgere un ruolo essenziale per mettere in contatto tra loro persone che disponevano di fondi da investire e persone che coltivavano progetti d’investimento, come papà Goriot e le sue fabbriche di pasta, o César Birotteau e i suoi progetti immobiliari.14
È importante precisare che la nozione di produttività marginale del capitale si definisce indipendentemente dagli istituti e dalle regole – o dall’assenza di regole – che caratterizzano la divisione capitale-lavoro in una data società. Per esempio, se chi detiene terra e utensili sfrutta da solo il capitale, non contabilizza certo separatamente il rendimento di quel capitale che si versa da sé. Cionondimeno, il capitale non è meno utile, e la sua produttività marginale è la stessa di quella che sarebbe se il rendimento fosse versato a un proprietario esterno. Accade lo stesso se il sistema economico vigente decide di collettivizzare in tutto o in parte lo stock di capitale e, in casi estremi – per esempio in Unione Sovietica – di sopprimere ogni tipo di rendimento privato del capitale. Nel qual caso, il rendimento privato diventa inferiore al rendimento “sociale” del capitale, anche se quest’ultimo si continua a definire come produttività marginale di un’unità supplementare di capitale. Sapere se è legittimo e utile per una società che i detentori di capitale ricevano una tale produttività marginale quale remunerazione del loro titolo di proprietà (e del loro risparmio passato, o di quello dei loro antenati) senza che vi abbiano apportato alcun nuovo lavoro, è ovviamente una questione centrale, sulla quale avremo occasione di tornare.