Creazione di liquidità e capitale nazionale
In concreto, che cosa fanno le banche centrali? Nell’ambito della nostra ricerca, è importante precisare, in primo luogo, che le banche centrali in quanto tali non creano ricchezza: redistribuiscono la ricchezza. Più esattamente, quando la Federal Reserve o la BCE (Banca centrale europea) decidono di stampare 1 miliardo di dollari o di euro supplementari, sarebbe sbagliato pensare che il capitale nazionale americano o europeo aumenti di 1 miliardo di dollari o di euro. In realtà, il capitale nazionale non cambia né di un dollaro né di un euro, perché le operazioni effettuate dalle banche centrali sono sempre operazioni di prestito. Esse portano, per definizione, alla creazione di attivi e passivi finanziari, destinati a compensarsi esattamente nel momento in cui vengono introdotti. Per esempio, la Federal Reserve presta 1 miliardo di dollari alla Lehman Brothers o alla General Motors (o al governo americano) che si trova indebitata per quella somma. Né il patrimonio netto della Federal Reserve né quello della Lehman Brothers né quello della General Motors né a fortiori quello degli Stati Uniti o del pianeta viene modificato dall’operazione. Del resto, sarebbe incredibile che le banche centrali potessero con una semplice operazione contabile aumentare il capitale nazionale del loro paese e, nel caso, dell’intero universo.
Tutto dipende dall’impatto sull’economia reale della politica monetaria adottata. Se il prestito fatto dalla banca centrale permette alla società in questione di superare la crisi e di evitare il fallimento definitivo (fallimento che avrebbe forse portato a un calo del patrimonio nazionale), una volta che la situazione si è stabilizzata e il prestito viene rimborsato, si può pensare che il prestito della Federal Reserve abbia contribuito ad accrescere il patrimonio nazionale (o quantomeno a non abbassarlo). Viceversa, se il prestito serve solo a ritardare l’inevitabile fallimento della società e se al tempo stesso impedisce a un concorrente affidabile di farsi avanti (cosa che può sempre capitare), si può pensare che questa politica abbia finito per diminuire il patrimonio nazionale. Tutti e due i casi sono possibili, e sono sicuramente presenti, in proporzioni diverse, in tutte le politiche monetarie. Dal momento che l’intervento delle banche centrali ha impedito alla recessione del periodo 2008-9 di ampliarsi a dismisura, si può pensare che esse abbiano contribuito, in media, ad aumentare il PIL, l’investimento e dunque il capitale dei paesi ricchi e del mondo intero. Ma va da sé che questo tipo di valutazione dinamica resterà sempre incerto e controvertibile. Quel che è certo è che, nel momento in cui le banche centrali aumentano la massa monetaria accordando un prestito a una società finanziaria o non finanziaria, o anche a un governo, il loro intervento non ha nell’immediato alcun impatto sul capitale nazionale, e nemmeno sul capitale pubblico o privato.20
In che cosa consistono le politiche monetarie “non convenzionali” sperimentate dopo la crisi del 2007 e del 2008? In tempi normali, le banche centrali si limitano ad assicurarsi che la massa monetaria cresca allo stesso ritmo degli attivi economici, in modo da garantire una bassa inflazione, nell’ordine dell’1% o del 2% annuo. In concreto, introducono moneta nuova prestando denaro alle banche per durate brevissime, spesso appena qualche giorno. Questi prestiti permettono di garantire la solvibilità dell’intero sistema finanziario. Di fatto, gli enormi flussi di depositi e di prelievi effettuati quotidianamente a nome di famiglie e imprese non si equilibrano mai perfettamente, alla giornata, sulla singola banca. Dopo il 2008, la novità principale consiste nella durata dei prestiti consentiti alle banche private. Anziché prestare a brevissimo termine (pochi giorni), la Federal Reserve e la BCE hanno iniziato a concedere prestiti con scadenza tre mesi o sei mesi – da qui, un aumento molto consistente dei volumi corrispondenti durante l’ultimo trimestre 2008 e all’inizio del 2009. E hanno anche iniziato a prestare, soprattutto negli Stati Uniti, a società non finanziarie, con prestiti al settore bancario fino a nove o dodici mesi e acquisti diretti di obbligazioni relativamente a lunga scadenza. A partire dal 2011 e dal 2012, le banche centrali hanno di nuovo ampliato la gamma dei loro interventi. Gli acquisti di buoni del tesoro e di varie obbligazioni pubbliche, praticati dopo l’inizio della crisi dalla Federal Reserve, dalla Banca del Giappone e dalla Banca d’Inghilterra, sono stati effettuati, con l’aggravarsi della crisi stessa nell’Europa del Sud, anche dalla BCE.
In merito a queste politiche vanno precisati alcuni punti. Innanzitutto, le banche centrali hanno il potere di evitare il fallimento di una banca o di una società non finanziaria prestandole il denaro necessario per pagare salari e fornitori. Ma non possono obbligare le imprese a investire, le famiglie a consumare e l’economia a riprendere la crescita. Non hanno nemmeno il potere di decidere circa il tasso d’inflazione. Le liquidità create dalle banche centrali hanno di certo consentito di evitare depressione e deflazione, ma oggi, nei paesi ricchi, in particolare in Europa, dove la crisi dell’eurozona incide non poco sulla fiducia, il clima rimane pesante. Il fatto che i governi dei principali paesi ricchi (Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito) si trovino, tra il 2012 e il 2013, a ricevere finanziamenti a tassi eccezionalmente bassi – appena l’1% – testimonia l’importanza delle politiche stabilizzatrici condotte dalle banche centrali. Ma soprattutto dimostra che gli investitori privati non sanno bene che cosa fare con le liquidità prestate a tasso zero o quasi dalle autorità monetarie, per cui preferiscono girare il prestito agli Stati giudicati più sicuri, a un rendimento quasi nullo. I tassi d’interesse, molto bassi per certi paesi e molto più alti per altri, sono il segno di una situazione economica anomala e in continua fibrillazione.21
La forza delle banche centrali sta nel loro potere di redistribuzione molto rapida delle ricchezze, in teoria in proporzioni infinite. Se necessario, una banca centrale può nello spazio di un secondo creare tutti i miliardi che vuole e depositarli sul conto di una società o di un governo in stato di bisogno. In caso d’urgenza assoluta (panico finanziario, guerra, catastrofe naturale), l’immediatezza e l’illimitatezza della liquidità monetaria rappresentano delle risorse insostituibili. In particolare, un’amministrazione fiscale non potrebbe mai agire altrettanto in fretta per fissare un’imposta: deve definire l’imponibile, l’entità dei tassi, votare una legge, raccogliere l’imposta, prevedere eventuali contestazioni ecc. Se si dovesse procedere così a rilento per risolvere una crisi finanziaria, tutte quante le banche sarebbero già fallite. La rapidità di esecuzione è appunto la principale forza delle autorità monetarie.
La debolezza delle banche centrali sta invece nel fatto che la loro facoltà di decidere a chi assegnare prestiti, con quale importo e per quale durata, e di gestire poi il portafoglio finanziario corrispondente, è evidentemente alquanto limitata. La prima conseguenza è che la dimensione del loro bilancio non può superare determinati limiti. In concreto, con tutte le nuove gamme di prestiti e di interventi sui mercati finanziari introdotte dopo il 2008, la dimensione dei bilanci delle banche centrali è più o meno raddoppiata. La totalità degli attivi e dei passivi finanziari è passata da circa il 10% annuo a più del 20% del PIL per quanto riguarda la Federal Reserve e la Banca d’Inghilterra, e dal 15% circa al 30% circa del PIL per quanto riguarda la BCE. Si tratta certo di una crescita incredibile. Ma è altrettanto chiaro che gli importi rimangono abbastanza modesti in rapporto alla totalità dei patrimoni privati netti, i quali nella maggioranza dei paesi ricchi raggiungono il 500% o il 600% del PIL.22
In assoluto, sarebbe possibile pensare a importi molto più elevati. Le banche centrali potrebbero decidere di riscattare tutte le imprese di un paese, l’intero settore immobiliare, finanziare la riconversione energetica, investire nelle università, guidare l’economia nel suo complesso. L’unico problema, ovviamente, è che le banche centrali non hanno un’amministrazione attrezzata per farlo, e soprattutto non hanno la legittimazione democratica per intraprendere azioni del genere. Le redistribuzioni operate dalle banche centrali sono immediate e potenzialmente infinite, ma possono anche essere mirate in modo infinitamente improprio (come gli effetti dell’inflazione sulle disuguaglianze), per cui è preferibile che i loro interventi non superino un certo limite. Ecco perché le banche centrali operano nel quadro di uno stretto mandato, incentrato sulla stabilità del sistema finanziario. In pratica, quando il potere pubblico decide di intervenire a favore di determinati specifici settori industriali, come negli Stati Uniti a favore della General Motors negli anni 2009 e 2010, è lo Stato americano e non la Federal Reserve a farsi direttamente carico dei prestiti, delle partecipazioni e dei vari aiuti all’impresa in questione. In Europa succede la stessa cosa: la politica industriale o universitaria dipende dagli Stati e non dalla banca centrale. Non si tratta di un problema d’impossibilità tecnica, si tratta di un problema di governance democratica. Il fatto che le imposte e i bilanci pubblici richiedano tempo per essere votati e applicati non dipende interamente dal caso: quando si spostano quote importanti di ricchezza nazionale, è bene non commettere errori.
Tra le molte controversie sui limiti del ruolo delle banche centrali, ve ne sono due che interessano in modo particolare la nostra ricerca e meritano di essere discusse a parte: la complementarità tra regolamentazione bancaria e imposta sul capitale (questione perfettamente illustrata dall’esempio recente della crisi cipriota) e i limiti sempre più evidenti dell’architettura istituzionale oggi in vigore in Europa (dove si sta sperimentando una costruzione inedita nella storia, quanto meno su scala continentale: una moneta senza Stato).