Il futuro delle pensioni: ripartizione e crescita debole

I sistemi pensionistici pubblici si fondano essenzialmente sul principio di ripartizione: i contributi prelevati sui salari vengono immediatamente utilizzati per pagare le pensioni ai pensionati. Non si accantona alcuna somma, tutto viene immediatamente versato, contrariamente ai sistemi a capitalizzazione. Nei sistemi a ripartizione, fondati sul principio di solidarietà intergenerazionale (si pagano contributi per i pensionati di oggi nella speranza che i nostri figli faranno altrettanto domani per noi), il tasso di rendimento è, per definizione, uguale al tasso di crescita dell’economia: i contributi che permettono di finanziare le pensioni di domani saranno tanto più alti quanto più crescerà la massa salariale. Ciò, in linea di principio, implica anche che le generazioni attive di oggi hanno interesse a che la massa salariale cresca il più rapidamente possibile: perché deve investire nelle scuole e nelle università dei propri figli, e incoraggiare la natalità. In altri termini, tutte le generazioni sono legate le une alle altre: sembra dunque a portata di mano una società virtuosa e armoniosa.45

Quando, a metà del XX secolo, sono stati introdotti i sistemi a ripartizione, esistevano, per la loro adozione, condizioni praticamente ideali perché si producessero quei concatenamenti. Le crescita demografica era alta, l’aumento della produttività lo era ancora di più. In totale, nei paesi dell’Europa continentale, il tasso di crescita era vicino al 5% annuo: e tale era il rendimento assicurato dal principio di ripartizione. In concreto, le persone che hanno versato i propri contributi dagli anni quaranta agli anni ottanta sono poi state completamente ripagate (o lo sono ancora oggi) sulla base di masse salariali notevolmente più elevate di quelle sulla cui base hanno effettuato i versamenti. Oggi le cose vanno in modo diverso. Il calo del tasso di crescita, attorno all’1,5% annuo nei paesi ricchi – e forse anche, in definitiva, in tutto il pianeta –, riduce di altrettanto il tasso di rendimento della ripartizione. E tutto lascia pensare che il tasso di rendimento medio del capitale si fisserà nel corso del XXI secolo nettamente al di sopra del tasso di crescita economica (circa il 4-5% per il primo, appena l’1,5% per il secondo).46

In tali condizioni, verrebbe da concludere che i sistemi pensionistici basati sulla ripartizione debbano essere rimpiazzati quanto prima da sistemi basati sul principio della capitalizzazione. I contributi devono essere investiti e non subito riconosciuti ai pensionati, e così potranno ricapitalizzarsi a più del 4% annuo e finanziare le nostre pensioni da qui a qualche decennio. Ci sono però, in questo ragionamento, numerosi e importanti errori. In primo luogo, per ipotizzare che sia effettivamente preferibile un sistema basato sulla capitalizzazione, va considerato il fatto che il passaggio dalla ripartizione alla capitalizzazione comporta una difficoltà per nulla trascurabile: lascia una generazione di pensionati totalmente sul lastrico. La generazione che sta per andare in pensione e che ha finanziato le pensioni della generazione precedente s’inquieterebbe assai vedendo che i contributi che stavano per esserle versati per pagare l’affitto e le spese vengono in realtà dirottati e reinvestiti nei mercati di tutto il mondo. Non esiste una soluzione semplice a questo problema di transizione, il quale finisce per rendere una riforma del genere del tutto impraticabile, quantomeno in forme così estreme.

In secondo luogo, va considerato, nell’analisi dei vantaggi comparati dei vari sistemi pensionistici, che il tasso di rendimento da capitale è, in pratica, alquanto volatile. Sarebbe molto rischioso investire tutti i contributi pensionistici di un paese sui mercati finanziari mondiali. Il fatto che la disuguaglianza r > g sia mediamente verificata non significa che corrisponda sempre al vero. Quando si hanno mezzi sufficienti e ci si può permettere di aspettare dieci o vent’anni prima di andare in pensione, il rendimento da capitalizzazione sarebbe in effetti molto attraente. Ma quando si tratta di finanziare il tenore di vita essenziale di un’intera generazione, sarebbe del tutto irragionevole giocare in questo modo ai dadi. Il merito principale dei sistemi pensionistici basati sulla ripartizione è che sono i più idonei a garantire l’importo delle pensioni in modo affidabile e prevedibile: il tasso di crescita della massa salariale è forse più ridotto del tasso di rendimento da capitale, ma è tra le cinque e le dieci volte meno volatile.47 E accadrà lo stesso nel XXI secolo, per cui la pensione da ripartizione non potrà che continuare a essere parte integrante dello Stato sociale ideale del futuro, in tutti i paesi.

Quanto s’è appena detto non implica che la logica r > g possa essere del tutto ignorata e che nulla debba essere cambiato nei sistemi attualmente in vigore nei paesi sviluppati. Basti pensare alla sfida dell’invecchiamento. In un mondo in cui si muore tra gli 80 e i 90 anni, è difficile mantenere gli stessi parametri fissati in un periodo in cui si moriva tra i 60 e i 70 anni. Inoltre l’aumento dell’età pensionabile non è solo un modo per accrescere le risorse disponibili per i salari e le pensioni (soluzione sempre ottima, quando la crescita è debole). Risponde anche a un bisogno di realizzazione individuale nel lavoro: per molte persone, andare in pensione a 60 anni e accingersi a entrare in una fase d’inattività teoricamente anche più lunga della loro carriera professionale è una prospettiva ben poco allettante. A complicare la questione contribuiscono le numerose differenti situazioni personali. Alcuni, quelli che svolgono professioni soprattutto intellettuali, si augurano sicuramente di restare al posto di lavoro almeno fino a 70 anni (inoltre è augurabile che la loro quota nell’occupazione totale aumenti nel corso del tempo). Molti altri, invece, che hanno iniziato a lavorare presto ed esercitano mestieri faticosi o poco gratificanti, aspirano legittimamente ad andare in pensione abbastanza presto (tanto più che la loro aspettativa di vita è sovente più bassa di quella del personale più qualificato). Il problema è che molte riforme avviate di recente nei paesi sviluppati tendono a non tenere nel dovuto conto tali distinzioni, o a chiedere uno sforzo maggiore ai secondi piuttosto che ai primi, suscitando reazioni di rifiuto.

Una delle maggiori difficoltà a cui devono ovviare queste riforme è data dal fatto che i sistemi pensionistici hanno spesso toccato livelli di notevole complessità, con decine di regimi e di regole differenti per dipendenti pubblici, dipendenti del settore privato, autonomi. Per tutti coloro che hanno dovuto sottostare, nel corso della vita lavorativa, a sistemi diversi – fenomeno sempre più frequente per le giovani generazioni – il diritto alla pensione diventa a volte un enigma. Ed è una complessità nient’affatto sorprendente: deriva dal fatto che i vari sistemi si sono costruiti per strati successivi, man mano che i sistemi stessi venivano estesi a nuovi gruppi sociali e professionali, secondo un processo che nella maggioranza dei paesi sviluppati ha avuto inizio nel XIX secolo (in particolare nel settore pubblico). Ma è anche una complessità che rende molto difficile elaborare soluzioni condivise, dal momento che ciascuno ha l’impressione che il proprio regime sia meno vantaggioso di quello degli altri. La congerie delle regole e dei regimi porta spesso a confondere gli obiettivi, soprattutto a sottovalutare le risorse che sono già impegnate in grandi volumi nella costruzione dei sistemi pensionistici e che non possono essere accresciute indefinitamente. Per esempio, la complessità del sistema francese fa sì che molti giovani dipendenti non abbiano una cognizione chiara del loro diritto alla pensione: alcuni hanno persino l’impressione che non la percepiranno affatto, quando invece il sistema si fonda su un tasso globale di contribuzione pensionistica molto rilevante (attorno al 25% dei salari lordi). Il varo di un regime pensionistico unico basato su conteggi individuali che permettano a ciascuno di acquisire gli stessi diritti, quale che sia la complessità del proprio percorso professionale, è parte delle riforme più importanti alle quali lo Stato sociale deve far fronte nel XXI secolo.48 Un tale sistema darebbe a ciascuno la possibilità di calcolare con un buon anticipo quanto potrà ricevere come pensione di ripartizione e quindi di organizzare meglio le proprie scelte di risparmio e di accumulo patrimoniale, fattore che in un mondo a crescita debole svolgerà inevitabilmente un ruolo decisivo, accanto al sistema per ripartizione. La pensione è il patrimonio di coloro che non hanno patrimonio, si sente dire spesso. È esatto, ma ciò non toglie che si debba cercare di far sì che l’accumulo patrimoniale possa riguardare anche i più modesti.49

Il capitale nel XXI secolo
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