L’imposta confiscatoria sui redditi eccessivi: un’invenzione americana

In generale, se si studia la storia della progressività fiscale nel corso del XX secolo, si constata con stupore come siano i paesi anglosassoni, in particolare gli Stati Uniti, ad aver introdotto l’imposta confiscatoria su redditi e patrimoni giudicati eccessivi. L’esame dei grafici 14.1 e 14.2 è assolutamente chiaro. Ed è talmente in contraddizione con le percezioni che in genere si hanno degli Stati Uniti e del Regno Unito dopo periodo 1970-80, all’esterno come all’interno dei due paesi, che non sarà inutile soffermarsi su questo punto.

Nel periodo tra le due guerre, tutti i paesi sviluppati si danno a sperimentare dei tassi superiori molto elevati, e spesso in modo imprevedibile. Ma sono gli Stati Uniti che sperimentano per primi, tassi superiori al 70% tanto per i redditi, nel periodo 1919-22, quanto per le successioni, tra il 1937 e il 1939. Quando si tassa una quota di reddito o di successione del 70-80%, è evidente che l’obiettivo principale non è far rialzare le entrate fiscali (di fatto, le quote in questione non fruttano mai molto). L’obiettivo vero è porre termine a quel certo tipo di redditi o di patrimoni, giudicati socialmente eccessivi ed economicamente sterili dal legislatore, o quantomeno renderne molto costoso il mantenimento a quei livelli e scoraggiarne energicamente la perpetuazione – evitandone nello stesso tempo l’interdizione assoluta o una qualche espropriazione. L’imposta progressiva continua, tutto sommato, a costituire un metodo relativamente liberale per ridurre le disuguaglianze, nel rispetto della libera concorrenza e della proprietà privata, mentre cambiano gli incentivi privati, anche in misura molto netta, ma sempre in modo prevedibile e continuo, seguendo regole prefissate precedentemente e democraticamente discusse, nel quadro dello Stato di diritto. L’imposta progressiva esprime in qualche modo un compromesso ideale tra giustizia sociale e libertà individuale. Non è un caso, dunque, che i paesi anglosassoni, manifestamente i più legati alle libertà individuali nel corso della loro storia, siano anche quelli che si sono spinti più lontano, nel corso del XX secolo, sulla strada della progressività fiscale. Anche se non va trascurato il fatto che i paesi dell’Europa continentale, in particolare la Francia e la Germania, hanno esplorato, negli anni del dopoguerra, altre vie, come la proprietà pubblica delle imprese e la definizione diretta del salario dei loro dirigenti, misure che rientrano a loro volta nel rispetto del diritto e che in certo modo dispensano quei paesi dal procedere oltre sulla strada della progressività fiscale.27

A queste motivazioni generali vanno aggiunti fattori più specifici. Alla fine del XIX secolo e all’inizio del XX, durante il periodo detto Gilded Age, negli Stati Uniti molti osservatori si preoccupano del fatto che il paese diventi sempre meno ugualitario e si allontani gradualmente dall’ideale dei pionieri che lo hanno fondato. Abbiamo già ricordato, nella Parte terza (cap. 10), il libro che Wilfford King dedica nel 1915 alla distribuzione delle ricchezze negli Stati Uniti, e le inquietudini che esprime in merito a un possibile avvicinamento alle società europee, allora percepite come società assolutamente non ugualitarie.28 Nel 1919 il presidente dell’American Economic Association, Irving Fisher, va ancora più lontano. Decide di dedicare il suo Presidential address alla questione delle disuguaglianze americane e spiega ai colleghi, senza giri di parole, che il principale problema dell’America è la crescente concentrazione della ricchezza. Fisher è rimasto impressionato dalle stime realizzate da King. Il fatto che “il 2% della popolazione possegga più del 50% delle ricchezze” e che “i due terzi della popolazione non posseggano quasi niente” gli appare “una distribuzione non democratica della ricchezza” (an undemocratic distribution of wealth), tale da minacciare le fondamenta stesse della società americana. Più che ridurre arbitrariamente la quota dei profitti o il rendimento da capitale, soluzioni evocate da Fisher per essere poi rifiutate, il metodo più idoneo gli sembra quello di tassare pesantemente le eredità più importanti (fa cenno a una tassazione pari ai due terzi della successione, o al totale, qualora l’eredità si perpetui da tre generazioni).29 Fa una certa sensazione notare come Fisher, pur vivendo in una società più ugualitaria, si preoccupi ben più di Leroy-Beaulieu delle disuguaglianze. La progressività fiscale americana trova in sostanza una sua spiegazione, anche se parziale, nella paura dell’America di assomigliare alla vecchia Europa.

Al tutto, va aggiunta l’estrema gravità della crisi degli anni trenta, che, negli Stati Uniti, porta alla messa sotto accusa delle élite economiche e finanziarie, le quali, dal punto di vista dell’opinione pubblica, erano quelle che si erano arricchite fino al punto da condurre il paese al totale dissesto (ricordiamo che alla fine degli anni venti la quota degli alti redditi nella composizione del reddito nazionale americano tocca vertici inauditi, in particolare per effetto di plusvalenze finanziarie mirabolanti). È in questo contesto che Roosevelt arriva al potere, all’inizio del 1933, con una crisi in atto già da più di tre anni, e un quarto del paese colpito dalla disoccupazione. Per cui decide immediatamente di rialzare con forza il tasso superiore dell’imposta sul reddito, tasso che è stato abbassato fino al 25% negli anni venti e durante la catastrofica presidenza Hoover, e che ora, nel 1933, passa al 63%, per poi salire nel 1937 al 79%, superando il precedente record del 1919. Nel 1942, il Victory Tax Act fa salire ancora il tasso superiore, fino all’88%, livello portato nel 1944 al 94%, con vari supplementi d’imposta. Il tasso superiore si stabilizza poi, fino alla metà degli anni sessanta, attorno al 90%, per poi scendere al 70% all’inizio degli anni ottanta. In totale, nell’arco del periodo 1932-80, cioè circa mezzo secolo, negli Stati Uniti il tasso superiore dell’imposta federale sul reddito ammonta a una media dell’81%.30

È importante insistere sul fatto che nessun paese dell’Europa continentale ha mai praticato tassi simili (oppure lo ha fatto in casi eccezionali, tutt’al più per alcuni anni, certo non per mezzo secolo). In particolare, la Francia e la Germania, dagli anni quaranta agli anni ottanta, applicano tassi superiori in genere compresi tra il 50% e il 70%, senza però mai spingersi all’80-90%. L’unica eccezione riguarda la Germania tra il 1947 e il 1949, dove il tasso superiore tocca il 90%. Ma si tratta del periodo in cui i parametri vengono fissati dalle autorità alleate di occupazione (in pratica dalle autorità americane). Quando la Germania ritrova la propria sovranità fiscale, nel 1950, il paese decide di tornare in fretta a tassi che gli sembrano più conformi alla propria sensibilità, e il tasso superiore ridiscende in pochi anni a poco più del 50% (cfr. grafico 14.1). Un fenomeno analogo si può osservare pure in Giappone.31

Il tropismo anglosassone in fatto di progressività si manifesta anche, in misura ancor più radicale, per l’imposta progressiva sulle successioni. Nel periodo in cui, dagli anni trenta agli anni ottanta, gli Stati Uniti stabilizzano il loro tasso superiore tra il 70% e l’80%, la Francia e la Germania non superano mai il 30-40%, con l’unica eccezione, in Germania, nel periodo 1946-49 (cfr. grafico 14.2).32

Il solo paese a raggiungere i valori più alti americani – o anche a superarli, qualche volta, sia per i redditi sia per le successioni – è il Regno Unito. Il tasso applicabile ai redditi britannici più elevati raggiunge il 98% negli anni quaranta e poi di nuovo negli anni settanta, che è un record storico assoluto.33 Va anche notato che una distinzione spesso applicata durante quel periodo in entrambi i paesi riguarda la differenza tra “reddito guadagnato” (earned income), cioè il reddito da lavoro (salari e redditi da attività non salariate), e “reddito non guadagnato” (unearned income), cioè il reddito da capitale (affitti, interessi, dividendi ecc.). Il tasso superiore indicato nel grafico 14.1 per gli Stati Uniti e il Regno Unito riguarda il “reddito non guadagnato”: capita a volte che il tasso superiore applicabile al “reddito guadagnato” sia leggermente inferiore, in particolare negli anni settanta del Novecento.34 È una distinzione interessante, perché traduce in linguaggio fiscale il grado di sospetto nei confronti dei redditi più alti: tutti i redditi troppo elevati sono sospetti, ma quelli “non guadagnati” lo sono ancora di più. Il contrasto con il contesto attuale, nel quale, in molti paesi, soprattutto europei, sono invece i redditi da capitale a beneficiare di un regime più favorevole, è impressionante. Va pure notato che la soglia di applicazione di tassi massimi come questi, soglia variabile nel corso del tempo, è sempre molto elevata: rapportata al reddito medio degli anni dieci del XXI secolo, si colloca in genere tra 0,5 e 1 milione di euro; nel quadro della divisione attuale, il tasso riguarderebbe quindi meno dell’1% della popolazione (perlopiù tra lo 0,1% e lo 0,5% della popolazione).

Il fatto di tassare maggiormente i “redditi non guadagnati” è anche coerente con l’adozione simultanea di un’imposta successoria pesantemente progressiva. Se lo si inquadra in una prospettiva di più lungo termine, il caso del Regno Unito diventa assai interessante. Si tratta di un paese in cui la concentrazione patrimoniale è stata, nel XIX secolo e durante la belle époque, la più cospicua. Tuttavia i traumi subiti dagli alti patrimoni per gli eventi delle guerre del XX secolo (distruzioni, espropriazioni) sono stati, nel Regno Unito, meno gravi che nel continente, per cui il paese decide di infliggere loro uno choc fiscale, nel periodo di pace ma non meno traumatico, con un tasso superiore che raggiunge o supera, nel 1940-80, il 70-80%. Il Regno Unito è sicuramente il paese in cui, nel corso del XX secolo e soprattutto nel periodo tra le due guerre, la riflessione sulla tassazione dell’eredità e sui dati successori è stata più intensa.35 Nel novembre 1938, nella prefazione alla riedizione del suo testo classico del 1929 dedicato all’eredità, Josiah Wedgwood ritiene, al pari del compatriota Bertrand Russell, che le “plutodemocrazie” e le loro élite ereditarie siano uscite sconfitte dall’avvento del fascismo. La sua convinzione è che “le democrazie politiche che non democratizzano il proprio sistema economico sono intrinsecamente instabili”. E vede nell’imposta progressiva sulle successioni lo strumento fondamentale in grado di favorire la democratizzazione, in quel mondo nuovo che l’economista auspica con tutte le sue forze.36

Il capitale nel XXI secolo
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