Identità nazionali e performance economica

Sono questioni caratterizzate da una carica emotiva talmente forte per le identità nazionali e il vanto dei popoli che diventa pressoché impossibile esaminarle serenamente. Maggie ha salvato il Regno Unito? Bill Gates sarebbe esistito senza Ronald Reagan? Il grande capitalismo renano divorerà il piccolo modello sociale francese? In presenza di angosce esistenziali così profonde, la ragione si trova sovente sprovvista di mezzi – tanto più che è obiettivamente difficile giungere a conclusioni del tutto precise e sicure muovendo da raffronti di tassi di crescita limitati a poche decine di centesimi. Trattandosi di Bill Gates e di Ronald Reagan, personaggi di culto come pochi (Bill ha inventato il personal computer o solo il mouse? Ronald ha distrutto l’URSS da solo o con l’aiuto del papa?), non sarà forse inutile ricordare che l’economia americana è stata molto più innovativa nel periodo 1950-70 rispetto a quanto lo sia stata tra il 1990 e il 2010, almeno se la si valuta dal punto di vista del tasso di crescita della sua produttività, quasi due volte più alto nel corso del primo periodo – cosa che, trattandosi di un’economia che si colloca in entrambi i periodi all’avanguardia mondiale, dovrebbe secondo logica essere legata al suo ritmo d’innovazione.44

Di recente è stato proposto un nuovo argomento: è possibile che l’economia americana sia diventata più innovativa, ma che il fenomeno non risulti evidente dal suo prodotto perché gli Stati Uniti innovano per l’insieme del mondo ricco, il quale sopravvive grazie alle invenzioni provenienti dall’America. Al che, suonerebbe sorprendente che gli Stati Uniti, i quali finora non si sono molto distinti per l’altruismo internazionale (gli europei si lamentano regolarmente delle loro emissioni di carbonio, e i paesi poveri della loro avarizia), non riservassero un po’ di questa produttività per se stessi: vantaggio che in linea di principio dovrebbero apportare i brevetti. Come si vede, si tratta di una discussione ben lungi dal concludersi a breve.45

Per cercare di fare almeno qualche progresso, abbiamo tentato, con Emmanuel Saez e Stefanie Stantcheva, di andare al di là dei raffronti tra paese e paese e di sviluppare una nuova base di dati che riguarda i compensi degli alti dirigenti delle società quotate nell’insieme dei paesi sviluppati. I risultati ottenuti suggeriscono che l’escalation di questi compensi si spieghi effettivamente abbastanza bene tramite il modello di contrattazione (il calo del tasso marginale fa da particolare stimolo alla contrattazione allo scopo di strappare il compenso più alto) e non ha molto a che vedere con un ipotetico miglioramento della produttività dei dirigenti in questione.46 Innanzitutto troviamo un dato secondo il quale l’elasticità del compenso dei dirigenti è più forte in presenza di profitti “fortunati” (cioè variazioni di profitto che non possono essere dovute all’azione del dirigente, come quelle legate alla performance media del settore considerato) che in presenza di profitti “sfortunati” (cioè variazioni di profitto non spiegabili con variabili settoriali) – un esito che abbiamo già enunciato nella Parte terza (cap. 9) e che pone comunque seri problemi in merito alla visione incentivante del compenso dei dirigenti. Inoltre e soprattutto, l’elasticità in presenza di profitti “fortunati” – grosso modo, la capacità dei dirigenti di ottenere un aumento senza giustificazioni chiare in termini di performance economica – è cresciuta soprattutto nei paesi in cui il tasso marginale è molto diminuito. Infine, è evidente che queste variazioni del tasso marginale non bastano a spiegare i forti rialzi delle remunerazioni dei dirigenti in alcuni paesi e non in altri. In particolare, le variazioni della dimensione delle imprese o l’importanza del settore finanziario non bastano assolutamente a spiegare i fatti osservati.47 Anche l’idea secondo cui l’escalation dei compensi si spiegherebbe con l’assenza di concorrenza – e che basterebbe avere mercati concorrenziali e procedure di governance e di controllo migliori per arrestare il processo – ci sembra poco realistica.48 I nostri risultati suggeriscono che solo tassi di imposizione fiscale dissuasivi, come quelli applicati negli Stati Uniti o nel Regno Unito fino agli anni settanta del Novecento, aiuterebbero a frenare la corsa e a porre termine all’escalation degli altissimi compensi.49 Trattandosi di una questione così complessa e così globale (economica, politica, sociale, culturale), è chiaramente impossibile raggiungere delle certezze: è la bellezza delle scienze sociali. Per esempio, è probabile che le norme sociali in materia di retribuzione dei dirigenti abbiano anche una diretta influenza sui livelli di retribuzione osservati nei vari paesi, indipendentemente dall’effetto transitorio del tasso di imposizione fiscale. Tutti gli elementi disponibili suggeriscono che il modello esplicativo qui esposto riesca a farci comprendere meglio i fatti osservati.

Il capitale nel XXI secolo
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