Il decollo dei superdirigenti: un potente fattore di divergenza
Questo approccio in termini di norme e di accettabilità sociale sembra abbastanza plausibile, ma in effetti sposta solo il problema senza risolverlo. Va dunque spiegato da dove queste norme sociali derivino e come evolvano, il che ha ovviamente a che fare con la sociologia e la psicologia, con lo studio dell’opinione pubblica e delle sue percezioni, con la storia culturale e politica e con l’economia in sé e per sé. Il problema delle disuguaglianze riguarda le scienze sociali nel loro insieme e non una sola di esse. Nel nostro caso, abbiamo già notato come la “rivoluzione conservatrice” anglosassone degli anni settanta-ottanta, un aspetto della quale è stata la massima tolleranza possibile nei confronti dei salari dei superdirigenti, sia stata in larga misura determinata dalla sensazione, all’epoca, da parte di Stati Uniti e Regno Unito, di essere stati raggiunti, se non superati (anche se i Trente glorieuses vissuti dall’Europa e dal Giappone erano in realtà la conseguenza pressoché automatica degli eventi del 1914-45). Ma è evidente che hanno svolto un ruolo determinante anche altri fattori.
Intendiamoci. Non si vuole qui far risalire l’intera origine delle disuguaglianze salariali alle norme sociali in materia di equità delle retribuzioni. Come abbiamo già notato, la teoria della produttività marginale e della gara a inseguimento tra competenza e tecnologia consente di spiegare in modo più che plausibile l’evoluzione a lungo termine della distribuzione dei salari, perlomeno fino a un certo livello salariale e fino a un certo grado di precisione. La logica della tecnologia e della competenza fissa i limiti all’interno dei quali deve stabilizzarsi la maggioranza dei salari. Tuttavia, per le funzioni non duplicabili, e man mano che le funzioni diventano sempre meno duplicabili, soprattutto all’interno delle gerarchie manageriali delle grandi società, i margini d’errore circa le produttività individuali possono risultare considerevoli. La possibilità di spiegare il fenomeno in base alle logiche della tecnologia e della competenza diventa a questo punto sempre più labile, mentre diventa sempre più concreta quella di motivare il tutto in base alle norme sociali – benché il fenomeno interessi in misura davvero determinante solo un’esigua minoranza di salariati, appena una minima percentuale, più o meno l’1%, a seconda dei paesi e delle epoche.
Ma il fatto essenziale – che non ha niente di ovvio o di scontato – è invece il seguente: le variazioni nel tempo e tra paese e paese della quota salariale detenuta dal centile superiore della gerarchia dei salari possono assumere un’importanza rilevante, come dimostrano le curve contraddittorie osservate nei paesi ricchi dopo gli anni settanta-ottanta. Oggi l’inedita impennata dei salari dei superdirigenti deve essere messa sicuramente in rapporto al volume d’affari delle grandi imprese e alla differenziazione delle funzioni al loro interno. Ma, al di là del problema obiettivamente complesso della governance dei grandi organismi, è possibile spiegare l’escalation delle retribuzioni anche come una forma di “estremismo meritocratico”, ossia come un bisogno, da parte delle società moderne, in particolare della società americana, di proclamare loro sole i vincitori e di remunerarli con compensi stratosferici per dimostrare che sono stati scelti in base al merito e non seguendo le logiche inique del passato. Torneremo più avanti sull’argomento.
In ogni caso, è chiaro che, nella distribuzione delle ricchezze, siamo in presenza di un forte impulso alla divergenza: se le persone meglio pagate arrivano a fissarsi da sole – almeno in parte – il salario, vuol dire che le disuguaglianze diventeranno sempre più forti. È molto difficile prevedere fin dove si spingerà un processo del genere. Rifacciamoci al caso descritto poco sopra, quello del direttore finanziario di una grande azienda che realizzi come volume d’affari 10 miliardi di euro: pare improbabile che un giorno si decida che la produttività marginale del suddetto direttore debba essere, mettiamo, di 1 miliardo, oppure di 100 milioni (se non altro perché non avrebbe abbastanza denaro per pagare l’intero gruppo dirigente); in compenso, alcuni ritengono che retribuzioni individuali di 1 milione, 10 milioni o magari anche 50 milioni siano perfettamente giustificabili (l’incertezza sulle produttività individuali è tale che non esiste alcun freno evidente). Per cui non è impensabile che in futuro la quota del centile superiore nella massa salariale totale possa toccare, negli Stati Uniti, il 15-20%, o il 25-30%, o anche più.
Al di là del confronto delle traiettorie nazionali tra paesi ricchi a partire dagli anni settanta-ottanta, i dati che dimostrano nel modo più convincente la debolezza della governance d’impresa, e il fatto che la definizione dei compensi più alti abbia poco a che vedere con una logica razionale di produttività, sono i seguenti. Quando si raccolgono i dati di fondo a livello di imprese individuali – il che è possibile per le società quotate nel complesso del paesi ricchi –, è molto difficile spiegare le variazioni delle retribuzioni dei dirigenti in rapporto alla performance delle imprese considerate. Per essere più precisi, si possono scomporre per un certo numero di indicatori di performance – il progresso delle vendite dell’impresa, il livello dei profitti ecc. – le variazioni dovute a cause esterne all’impresa (per esempio, lo stato generale della congiuntura, i contraccolpi derivanti dal prezzo mondiale delle materie prime, la variazioni del tasso di cambio, oppure la performance media del settore considerato) e le variazioni restanti. I dirigenti d’azienda possono appellarsi solo alle variazioni del secondo tipo – almeno in parte. Se le retribuzioni seguono la logica della produttività marginale, ci si dovrebbe aspettare, infatti, che non cambino, o cambino di poco, rispetto alla prima componente, e cambino soltanto rispetto alla seconda. Invece il problema è che accade esattamente il contrario: le retribuzioni aumentano in misura maggiore quando aumentano per ragioni esterne le vendite e i profitti. E il dato è particolarmente chiaro se si esamina il caso delle società americane: è il fenomeno che Bertrand e Mullainathan chiamano reward for luck, “il compenso della fortuna”.36
Riprenderemo e completeremo il nostro approccio nella Parte quarta. Vedremo come la tendenza al “compenso della fortuna” vari moltissimo nel tempo e a seconda dei paesi, in particolare in rapporto alla politica fiscale e più specificamente in rapporto al tasso marginale superiore del reddito, che sembra svolgere, almeno fino a un certo punto, un ruolo di “freno fiscale” (quando è elevato) o di “incentivo all’evasione” (quando è debole). Questa evoluzione fiscale è a sua volta legata alle trasformazioni delle norme sociali in fatto di disuguaglianza, anche se poi segue una logica propria. In concreto, il fortissimo calo del tasso marginale superiore, nei paesi anglosassoni, a partire dagli anni settanta-ottanta (giusto i paesi che, nei decenni precedenti, avevano inventato una politica fiscale quasi confiscatoria sui redditi giudicati sproporzionati), sembra aver del tutto modificato i parametri istitutivi dei compensi dei quadri dirigenti, i quali si sentono oggi molto più motivati che in passato a fare di tutto pur di ottenere aumenti cospicui. Infine, analizzeremo in quale misura tale automatismo di crescita comporti un elemento di divergenza di natura prettamente politica: il calo del tasso superiore conduce a un’escalation delle alte retribuzioni, che a sua volta accresce l’influenza politica – in particolare attraverso il finanziamento dei partiti, delle lobby e dei think tanks – del gruppo sociale interessato a mantenere questo tasso su bassi livelli, o magari ad abbassarlo ulteriormente.
1 Cfr. C. Goldin, L. Katz, The Race Between Education and Technology: The Evolution of US Educational Wage Differentials, 1890-2005, Cambridge (MA), Harvard University Press e NBER, 2010.
2 Cfr. cap. 7, tabella 7.2.
3 Nel lessico dei bilanci nazionali, le spese per la salute e l’educazione sono considerate un “consumo” (una fonte di guadagno in sé) e non un investimento. Ecco un altro motivo che può spiegare perché l’espressione “capitale umano” pone dei problemi.
4 All’interno di ciascuna fase esistono naturalmente ulteriori sottofasi: per esempio, tra il 1998 e il 2002, il salario minimo è aumentato di circa il 10% per compensare il passaggio della durata legale del lavoro da 39 a 35 ore settimanali mantenendo lo stesso salario mensile.
5 Come per l’imposta sul reddito, l’episodio fu oggetto di un’aspra vertenza con la Corte suprema, la quale nel 1935 annullò il salario minimo, prima che quest’ultimo fosse definitivamente reintrodotto da Roosevelt nel 1938.
6 Nel grafico 9.1 abbiamo convertito i salari minimi nominali in euro e dollari del 2013. Cfr., per i salari minimi nominali, i grafici supplementari S9.1-S9.2.
7 Nel 2013 alcuni Stati americani hanno fatto registrare un salario minimo più elevato di quello federale: 8 dollari in California e nel Massachusetts, 9,20 dollari nello Stato di Washington.
8 Al tasso di cambio di 1,30 euro a sterlina. In pratica il divario rispetto al salario minimo francese risulta superiore se si tiene conto dei contributi a carico del datore di lavoro (che vengono ad aggiungersi al salario lordo). Torneremo sull’argomento nella Parte quarta.
9 Esistono ancora oggi variazioni significative tra paese e paese: nel Regno Unito, molti pagamenti e redditi – per esempio gli affitti, i sussidi, nonché un certo numero di salari – sono fissati settimanalmente e non mensilmente. Cfr., in proposito, R. Castel, Les métamorphoses de la question sociale. Une chronique du salariat, Paris, Fayard, 1995.
10 Cfr. in particolare D. Card, A. B. Krueger, Myth and Measurement: The New Economics of the Minimum Wage, Princeton (NJ), Princeton University Press, 1995. Card e Krueger considerano le numerose variazioni dei salari minimi tra Stati limitrofi. Il “monopsonio” puro corrisponde a una situazione in cui un solo datore di lavoro può comprare il lavoro dei salariati in una determinata zona geografica (nella situazione di monopolio puro, c’è un solo venditore). Nel qual caso, egli fissa il salario al più basso livello possibile, per cui un eventuale aumento del salario minimo non solo non ridurrebbe il livello d’impiego (il datore di lavoro ha un margine di guadagno talmente forte che può assumere chiunque gli si presenti), ma potrebbe persino farlo crescere (perché aumenterebbe il numero delle persone che chiedono di essere assunte, persone che abbandonerebbero attività illegali, il che sarebbe una buona cosa, oppure gli studi, cosa un po’ meno buona). Sono appunto queste le osservazioni fatte da Card e Krueger.
11 Cfr. in particolare cap. 8, grafici 8.6-8.8.
12 Si tratta di un fatto centrale, a volte trascurato nel dibattito accademico americano. Oltre ai lavori già citati di Katz e Goldin, segnaliamo anche l’opera recente di R. Blank, Changing Inequality, Berkeley (CA), University of California Press, 2011, incentrata quasi per intero sulla crescita della disparità salariale legata al diploma o alla laurea (nonché sull’evoluzione delle strutture familiari). Anche Rajan, nel suo libro Fault Lines, cit., sembra ritenere che la crescita della disuguaglianza determinata dal possesso della laurea o meno pesi di più del privilegio goduto dall’1% (opinione inesatta). Ciò si spiega con il fatto che le stime normalmente utilizzate dai ricercatori di economia del lavoro e della formazione non consentono di valutare appieno la misura dell’escalation di cui ha beneficiato il centile superiore (solo i dati fiscali lo consentono). Le loro stime hanno certo il vantaggio di recare un maggior numero di informazioni sociodemografiche (in particolare circa lauree e diplomi) rispetto ai dati fiscali. Ma si fondano comunque su campioni di portata limitata e pongono tra l’altro non pochi problemi legati all’autodichiarazione. In teoria, i due tipi di fonti dovrebbero essere utilizzati congiuntamente per ottenere una stima ideale. Su tali questioni metodologiche, cfr. allegato tecnico.
13 Nota bene: noi abbiamo rappresentato nel grafico 9.2 – e nei grafici successivi – classi di reddito ottenute senza considerare le plusvalenze (non calcolate in modo del tutto compatibile nei diversi paesi). Se si tiene conto del fatto che negli Stati Uniti le plusvalenze sono particolarmente significative (in questi primi decenni del XXI secolo la quota del centile superiore con plusvalenze ha nettamente superato il 20% del reddito nazionale), il divario rispetto agli altri paesi anglosassoni è in realtà ancora più forte di quanto non dica il grafico 9.2. Cfr., per esempio, il grafico S9.3.
14 La traiettoria della Nuova Zelanda è pressoché identica alla traiettoria dell’Australia. Cfr. grafico S9.4. In generale, per non sovraccaricare i grafici, presenteremo qui solo una parte dei paesi e dei dati disponibili. Invitiamo il lettore interessato ai dati completi a consultare l’allegato tecnico, oppure il sito della WTID (http://topincomes.parisschoolofeconomics.eu).
15 Il fatto che paesi come gli Stati Uniti e il Canada, così vicini per tanti aspetti, seguano a volte traiettorie molto differenti in termini di disuguaglianze salariali – per via di non poche differenze istituzionali –, è stato studiato da economisti americani e canadesi. Cfr., per esempio, D. Card, R. Freeman, Small Differences that Matter: Labor Markets and Income Maintenance in Canada and the United States, Chicago (IL), University of Chicago Press, 1993.
16 Se includiamo le plusvalenze, che in Svezia sono molto cresciute tra gli anni novanta e il decennio successivo, raggiunge anche il 9%. Cfr. allegato tecnico.
17 Negli Stati Uniti, nel corso degli anni 2000-10, la parte del millile superiore ha superato l’8% se non si calcolano le plusvalenze, e ha superato il 12% se si calcolano le plusvalenze. Cfr. allegato tecnico.
18 In Francia e in Giappone, lo “0,1%” ha dunque moltiplicato da quindici a venticinque volte il reddito medio (da 450.000 a 750.000 euro, considerando un reddito medio di 30.000 euro), mentre negli Stati Uniti lo “0,1%” lo ha moltiplicato da venti a cento volte (da 600.000 euro a 3 milioni di euro, sempre considerando un reddito medio di 30.000 euro). Questi ordini di grandezza sono approssimativi, ma consentono di visualizzare meglio il fenomeno e di collegarlo ai lauti guadagni spesso citati dai media.
19 Al livello dell’“1%” considerato nel suo insieme, il reddito medio è naturalmente molto più basso: una quota del 10% del reddito nazionale detenuta dai più ricchi significa per definizione che il reddito medio dell’1% è dieci volte più alto della media dei redditi (e una quota del 20% significa che è venti volte più alto). La nozione di coefficiente di Pareto (sulla quale torneremo nel cap. 10) permette di collegare le quote del decile, del centile e del millile superiori: nei paesi a basso tasso di disuguaglianza (come la Svezia negli anni settanta), i membri dello 0,1% del decile superiore sono solo due volte mediamente più ricchi di quelli dell’1% del decile superiore, per cui la quota del millile superiore nella composizione del reddito nazionale equivale ad appena un quinto di quella del centile superiore; nei paesi a forte tasso di disuguaglianza (come gli Stati Uniti dell’inizio del XXI secolo), i membri dello 0,1% del decile superiore arrivano a essere anche cinque volte più ricchi, per cui la quota del millile superiore equivale al 40-50% di quella del centile superiore.
20 A seconda che si calcolino o meno le plusvalenze. Per le classi di reddito complete, cfr. allegato tecnico.
21 Cfr. in particolare cap. 5, tabella 5.1.
22 Per la Svezia e la Danimarca, in relazione ad alcuni singoli anni del periodo 1900-10, la quota dell’1% raggiunge anche il 25% del reddito nazionale, vale a dire livelli molto superiori a quelli osservati nel Regno Unito, in Francia o in Germania nella stessa epoca (in cui il massimo osservato è più vicino al 22-23%). Si tratta comunque, considerando i limiti delle fonti disponibili, di variazioni poco significative. Cfr. allegato tecnico.
23 Per tutti i paesi per i quali disponiamo di dati sulla composizione dei redditi per livelli di reddito omologhi a quelli che abbiamo presentato nel cap. 8 per la Francia e gli Stati Uniti (cfr. grafici 8.3, 8.4, 8.9 e 8.10), rileviamo un fenomeno analogo.
24 Per lo stesso grafico completato con le classi di reddito annue, cfr. grafico S9.6. Le classi di reddito riguardanti gli altri paesi sono identiche e sono anch’esse disponibili online.
25 Nel grafico 9.8 ci siamo limitati a indicare la media aritmetica tra i quattro paesi europei indicati nel grafico 9.7. I quattro paesi sono i più rappresentativi della diversità europea, e la traiettoria non sarebbe granché differente se si includessero gli altri paesi dell’Europa del Nord e del Sud, o se la si calcolasse in base al reddito nazionale di ciascun paese. Cfr. allegato tecnico.
26 Rimandiamo il lettore interessato agli studi pubblicati nei due volumi del 2007 e del 2010, relativi alla situazione di ventitré paesi: cfr. Atkinson, Piketty, Top Incomes over the 20th Century: A Contrast Between Continental-European and English-Speaking Countries, cit.; Idd., Top Incomes: A Global Perspective, Oxford, Oxford University Press, 2010.
27 Per un’analisi storica approfondita della dinamica delle disuguaglianze tedesche – che tiene conto dell’inevitabile imprecisione delle fonti disponibili –, cfr. F. Dell, L’Allemagne inégale. Inégalités de revenus et de patrimoine en Allemagne, dynamique d’accumulation du capital et taxation de Bismarck à Schröder, 1870-2005, Paris, EHESS, 2008.
28 In Cina, prima del 1980, non esisteva un’imposta sul reddito (come la intendiamo noi), per cui non esiste alcuna fonte che consenta di studiare la disuguaglianza dei redditi nell’arco del XX secolo (le classi di reddito presentate partono dal 1986). Per la Colombia, i dati fiscali che abbiamo raccolto partono dal 1993, anche se l’imposta sul reddito esisteva già da molto tempo, per cui è possibile che si finisca un giorno per trovare anche i dati precedenti (in molti paesi sudamericani i dati fiscali storicamente accertati sono stati archiviati piuttosto male).
29 La lista dei progetti in corso è disponibile sul sito del WTID.
30 Quando è possibile accedere ai file fiscali, la computerizzazione costituisce naturalmente un perfezionamento delle fonti d’informazione. Ma se i file restano inaccessibili, o sono male archiviati (il che accade spesso), la scomparsa delle pubblicazioni statistiche cartacee può comportare in molti casi una perdita di memoria fiscale e storica.
31 Più si avvicina a un’imposta puramente proporzionale, meno si fa sentire il bisogno di dati dettagliati per fasce di reddito. Sull’affinamento delle tecniche d’indagine fiscale torneremo nella Parte quarta: qui ci limitiamo a ricordare che esse hanno avuto un impatto rilevante sugli strumenti d’osservazione.
32 L’aggiornamento per l’anno 2010 indicato nel grafico 9.9 è stato effettuato sulla base di dati estremamente imprecisi sui guadagni dei dirigenti d’impresa, e deve perciò essere considerato alquanto approssimativo. Cfr. allegato tecnico.
33 Cfr. A. Banerjee, T. Piketty, “Top Indian Incomes, 1922-2000”, in World Bank Economic Review, 2005. Cfr. anche Idd., Are the Rich Growing Richer? Evidence from Indian Tax Data, in A. Deaton, V. Kozel, Data and Dogma: The Great Indian Poverty Debate, New Delhi, MacMillan, 2004. In India, tra il 1990 e il 2000, il “buco nero” equivale da solo a circa la metà della crescita totale: in altri termini, secondo i bilanci nazionali il reddito pro capite è cresciuto di quasi il 4% annuo, mentre secondo le ricerche condotte sui nuclei familiari è cresciuto di poco più del 2% annuo. Non è una divergenza da poco.
34 Cfr. allegato tecnico.
35 Di fatto, il risultato principale – e del tutto evidente – dei modelli economici di sperimentazione ottimale in presenza di informazioni imprecise è che gli attori interessati (qui le aziende) non hanno alcun interesse a pervenire a un’informazione completa, quando esistono – come esistono – costi di sperimentazione (è costoso testare decine di direttori finanziari prima di sceglierne uno che vada bene) e, a maggior ragione, quando l’informazione ha un valore pubblico che eccede il valore privato per l’impresa interessata. Per le indicazioni bibliografiche, cfr. allegato tecnico.
36 Cfr. M. Bertrand, S. Mullainathan, “Are CEOs Rewarded for Luck? The Ones without Principals Are”, in Quarterly Journal of Economics, 2001. Cfr. anche L. Bebchuk, J. Fried, Pay without Performance, Cambridge (MA)Harvard University Press, 2004.