Ricchezza dei morti, ricchezza dei vivi

È interessante esaminare più da vicino lo sviluppo storico del rapporto μ tra la ricchezza media dei defunti e quella dei vivi, rapporto che abbiamo raffigurato nel grafico 11.5. Si nota subito che in Francia, nel corso degli ultimi due secoli, dagli anni venti dell’Ottocento agli anni dieci del XXI secolo, i defunti sono sempre stati – in media – più ricchi dei vivi: il rapporto μ è sempre stato superiore al 100%, in genere di gran lunga superiore, tranne che negli anni dell’immediato dopoguerra, in cui il rapporto, ottenuto senza incorporare le donazioni fatte prima del decesso, è risultato, sia pure di poco, inferiore al 100%. Ricordiamo che, secondo la teoria del ciclo vitale cara a Modigliani, il patrimonio dovrebbe essere accumulato soprattutto in vista della pensione, in particolare nelle società che tendono a invecchiare, per cui le persone anziane dovrebbero consumare gran parte delle proprie riserve durante la vecchiaia e morire con pochissimo patrimonio o patrimonio zero. È il famoso “triangolo di Modigliani”, insegnato a tutti gli studenti di economia, secondo cui il patrimonio cresce innanzitutto con l’età, nella misura in cui ciascuno accumula riserve in vista della vita attiva. Il rapporto μ dovrebbe dunque essere sistematicamente pari allo 0% o quantomeno molto basso, in tutti i casi nettamente inferiore al 100%. Il meno che si possa dire è che una simile teoria del capitale e del suo sviluppo nelle società avanzate, del tutto plausibile a priori (più la società invecchia, più si accumula per la vecchiaia e più si muore con un patrimonio quasi nullo), non ci aiuta a spiegare in modo soddisfacente i fatti osservati. È chiaro che il risparmio in vista della pensione non è che una delle ragioni – e non la più importante – per le quali le persone accumulano patrimoni: i motivi legati alla trasmissione e alla perpetuazione familiare del capitale non sono mai tramontati. Nella sostanza, almeno in Francia, le varie forme di “ricchezza vitalizia” (annuitized wealth), cioè non trasmissibile ai discendenti, equivalgono in totale a meno del 5% del patrimonio privato. Nei paesi anglosassoni, in cui i fondi pensione sono più sviluppati, la quota può salire al massimo al 15-20%, dato certo non trascurabile, ma insufficiente per modificare radicalmente la funzione successoria del patrimonio (anche perché nulla ci dice che la ricchezza relativa al ciclo di vita prenderà il posto della ricchezza trasmissibile, e non è da escludere un suo impiego addizionale: torneremo più avanti sull’argomento11). È certo molto difficile dire come avrebbe potuto svilupparsi la struttura dell’accumulazione patrimoniale nel corso del XX secolo se non ci fossero stati i sistemi pensionistici pubblici settore per settore – sistemi che hanno garantito un tenore di vita soddisfacente alla stragrande maggioranza dei pensionati, anche se in una misura molto inferiore e disuguale rispetto a quella garantita dal risparmio finanziario, passato in second’ordine durante i due dopoguerra. Si può pensare che, se non ci fossero stati, il livello globale di accumulazione patrimoniale (misurato dal rapporto capitale/reddito) sarebbe oggi ancora più elevato.12 Fatto sta che il rapporto capitale/reddito è oggi più o meno al medesimo livello della belle époque (quando il bisogno di accumulazione in vista della pensione era molto più limitato, data l’aspettativa di vita), e che la ricchezza vitalizia equivale, rispetto a un secolo fa, a una quota poco più alta del patrimonio totale.

Grafico 11.5.
Il rapporto tra il patrimonio medio al momento del decesso e il patrimonio medio delle persone in vita, Francia 1820-2010

Nel periodo 2000-10 il patrimonio medio al decesso è più alto del 20% del patrimonio delle persone in vita, se non si incorporano le donazioni fatte prima del decesso, mentre è due volte più alto se si incorporano le donazioni.
Fonti e dati: cfr. http://piketty.pse.ens.fr/capital21c.

Si noterà anche l’importanza delle donazioni per i due secoli passati, e la loro crescita spettacolare nel corso degli ultimi decenni. Il valore totale delle donazioni equivale ogni anno a circa il 30-40% del valore delle successioni nel periodo tra gli anni venti e gli anni sessanta dell’Ottocento (allora espresse in forma di dote, vale a dire di donazione fatta allo sposo al momento delle nozze, spesso con restrizioni sull’uso dei beni fissati dal contratto di matrimonio). Dopodiché, dagli anni settanta dell’Ottocento agli anni sessanta del Novecento, il valore delle donazioni diminuisce leggermente e si stabilizza attorno al 20-30% del valore delle successioni, prima di aumentare con forza e regolarità per arrivare al 40% negli anni ottanta, al 60% negli anni novanta e a più dell’80% nel primo decennio del XXI secolo. Oggi il capitale trasmesso per donazione è importante quanto quello delle successioni propriamente dette, o quasi. Le donazioni rappresentano oggi quasi la metà del livello raggiunto dal flusso successorio, ed è perciò fondamentale valutarne per intero la portata. In concreto, se non incorporassimo le donazioni fatte prima del decesso, troveremmo che il patrimonio medio al momento del decesso non supererebbe, nel periodo 2000-10, neanche del 20% quello delle persone in vita – tutto perché i defunti hanno già provveduto a trasmettere quasi la metà delle loro attività. Se invece incorporassimo nel patrimonio dei defunti le donazioni fatte prima del decesso, troveremmo che il rapporto μ così corretto supererebbe in realtà il 220%: il patrimonio corretto dei defunti è oltre due volte più alto di quello dei vivi. Siamo insomma in presenza di una nuova età dell’oro delle donazioni, di un’ondata ancor più massiccia di quella del XIX secolo.

È interessante notare che le donazioni, oggi come nel XIX secolo, avvengono nella grande maggioranza dei casi a beneficio dei figli, spesso nel quadro di un investimento immobiliare, e che si effettuano in media circa dieci anni prima del decesso del donatore (uno scarto relativamente stabile nel tempo). La crescente importanza delle donazioni a partire dagli anni settanta-ottanta corrisponde dunque, in qualche misura, a un ringiovanimento di chi le riceve: nei primi anni del XXI secolo l’età media delle successioni si aggira sui 45-50 anni, mentre l’età media delle donazioni è di circa 35-40 anni, per cui lo scarto rispetto alla situazione prevalente nel XIX secolo e all’inizio del XX è meno sensibile di quanto indichi il grafico 11.3.13 La spiegazione più convincente dell’escalation graduale e progressiva delle donazioni iniziata negli anni settanta-ottanta, ben prima cioè degli incentivi fiscali partiti negli anni novanta, è che i genitori dotati di mezzi hanno man mano preso coscienza, in considerazione dell’allungamento dell’aspettativa di vita, che sia legittimo consentire ai figli di accedere al patrimonio verso i 35-40 anni anziché verso i 45-50, o anche dopo. In ogni caso, quale che sia il risvolto preciso delle varie spiegazioni possibili, il fatto è che la nuova età dell’oro delle donazioni, presente in Francia come in altri paesi europei, soprattutto in Germania, è un ingrediente essenziale per l’attuale ritorno in scena dell’eredità.

Il capitale nel XXI secolo
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