Il rentier, nemico della democrazia

D’altra parte, niente garantisce che la distribuzione del capitale ereditario non finisca per toccare le punte di disuguaglianza toccate in passato. Come abbiamo già notato nel capitolo precedente, non esiste alcuna forza che possa opporsi al ritorno di una concentrazione patrimoniale estrema, altissima come durante la belle époque, soprattutto nel caso di un forte calo della crescita e di un rialzo significativo del rendimento netto da capitale, possibile in condizioni di concorrenza fiscale esasperata. Se ciò dovesse verificarsi, ne deriverebbero, a mio parere, contraccolpi politici non trascurabili. Le nostre società democratiche si reggono infatti su una visione meritocratica del mondo, o quantomeno sull’idea di una società in cui le disuguaglianze sarebbero determinate dal merito e dal lavoro più che dalla discendenza e dalla rendita. È una convinzione, o speranza, che ricopre un ruolo fondamentale nella società moderna. Per una ragione molto semplice: in democrazia, l’uguaglianza dichiarata dei diritti del cittadino contrasta con la disuguaglianza effettiva delle condizioni di vita reali. E per uscire da questa contraddizione è indispensabile far sì che le disuguaglianze sociali scaturiscano da principi razionali e universali, e non da contingenze arbitrarie. Le disuguaglianze devono insomma apparire giuste e utili a tutti (“Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune,” annuncia l’art. 1 della Dichiarazione del 1789), a parole e nei fatti. Nel 1893 Émile Durkheim ha pronosticato che le società democratiche moderne non tollererebbero a lungo l’esistenza dell’eredità e finirebbero per ridurre il diritto di proprietà in modo tale che il possesso si estingua con la morte delle persone.57

Non è forse significativo che i termini stessi di rendita e rentier abbiano assunto, nel corso del XX secolo, una connotazione peggiorativa? Nel complesso del presente volume, utilizziamo i due termini nella loro definizione originaria, vale a dire per designare le rendite annue prodotte da un determinato capitale e le persone che dispongono soltanto dei redditi prodotti da tale capitale, si tratti di affitti, interessi, dividendi, profitti, bonus o di qualunque altra forma giuridica, purché le rendite dipendano esclusivamente dal fatto di possedere quel dato capitale e prescindano dal lavoro. Del resto, era questo il significato originario dei termini rendita e rentier nei secoli XVIII e XIX e nei romanzi di Balzac e di Jane Austen, in un periodo in cui la priorità del patrimonio e della sua rendita al vertice della gerarchia dei redditi era dichiaratamente assunta e accettata come tale, quantomeno all’interno delle élite. Sorprende che il loro significato originario si sia di gran lunga affievolito nel corso del tempo, con l’avvento dei valori democratici e meritocratici. Nel corso del XX secolo, la parola “rendita” è diventata una parolaccia, un insulto, forse il peggiore. E il fenomeno è comune a tutti i paesi.

È anche molto interessante notare che, ai giorni nostri, la parola “rendita” è spesso usata con tutt’altro significato, cioè per indicare un’imperfezione del mercato (la “rendita da monopolio”) o, più in generale, ogni reddito indebito o ingiustificato, a prescindere dalla sua natura. A volte si ha quasi l’impressione che la rendita sia divenuta sinonimo del morbo economico per eccellenza. La rendita è la principale nemica della razionalità moderna, e deve essere battuta con ogni mezzo, in particolare con questo: una concorrenza sempre più pura e perfetta. Un esempio recente e rappresentativo dell’impiego attuale del termine “rendita” ci è fornito dalle interviste concesse dall’attuale presidente della Banca centrale europea (BCE) ai grandi quotidiani del continente qualche mese dopo la sua nomina. Alle domande pressanti dei giornalisti sulle strategie da seguire per risolvere il problema dell’Europa, Mario Draghi ha dato questa risposta lapidaria: “Vanno combattute le rendite.”58 Senza nessun’altra precisazione supplementare. Sembrava che il grande tesoriere avesse più che altro in mente la mancanza di concorrenza nel settore dei servizi, per esempio tra i tassisti o i parrucchieri, o qualcosa del genere.59

Il problema posto dall’uso della parola “rendita” è molto semplice: il fatto che il capitale produca redditi, vale a dire il fenomeno che, seguendo la consuetudine, chiamiamo nel presente libro “rendita annua prodotta dal capitale”, non ha, a rigore, nulla a che vedere con un problema di concorrenza imperfetta o di situazione di monopolio. Nella misura in cui il capitale svolge un ruolo utile nel processo produttivo, è naturale che il capitale stesso produca un rendimento. E nella misura in cui la crescita è debole, diventa pressoché inevitabile che il rendimento da capitale risulti nettamente superiore al tasso di crescita, il che comporta automaticamente un aumento smisurato del peso delle disuguaglianze patrimoniali derivanti dal passato. Una contraddizione logica di questo tipo non verrà certo risolta grazie a una dose supplementare di concorrenza. La rendita non è un’imperfezione del mercato: è, al contrario, la conseguenza di un mercato del capitale “puro e perfetto”, nel senso che gli economisti danno all’espressione, ossia di un mercato del capitale che offre a ciascun detentore – anche al meno abile dei rentiers – il rendimento più alto e meglio diversificato che si possa trovare nell’economia nazionale o anche mondiale. C’è sicuramente qualcosa di inquietante in questa nozione di rendita prodotta da un capitale, una rendita che il detentore può ottenere senza lavorare. C’è qualcosa che urta il senso comune, e che infatti ha turbato le coscienze di non poche civiltà, le quali hanno tentato di introdurre dei provvedimenti, non sempre felici: dalla proibizione dell’usura al comunismo di tipo sovietico (torneremo più avanti sull’argomento). Resta il fatto che la rendita, in un’economia di mercato e di proprietà privata del capitale, è una realtà. E la circostanza che il capitale terriero sia diventato un capitale immobiliare, industriale e finanziario non ha mutato in alcun modo una realtà del genere, oggi profondamente radicata. Si pensa a volte che la logica dello sviluppo economico dovrebbe essere quella di rendere meno decisiva la distinzione tra lavoro e capitale. In verità, è proprio il contrario: la crescente manipolazione del mercato del capitale e la qualità ormai sofisticatissima dell’intermediazione finanziaria puntano a tenere sempre più distinte le identità di chi detiene il capitale e di chi lo gestisce, dunque a tenere sempre più distinti il reddito puro da capitale e il reddito da lavoro. A volte, la razionalità economica e tecnologica non ha nulla a che vedere con la razionalità democratica. Dopo che l’Illuminismo ha dato alla luce la prima, si è pensato un po’ troppo spesso che la seconda fosse una semplice filiazione naturale, che nascesse come per incanto. Invece la democrazia reale e la giustizia sociale esigono, come si sa, istituzioni specifiche, che non sono soltanto quelle del mercato e non possono nemmeno ridursi alle istituzioni parlamentari e democratiche, che adempiono a funzioni perlopiù formali.

Riassumendo: la forza di divergenza di fondo sulla quale poniamo l’accento nel nostro libro – sintetizzabile nella disuguaglianza r > g – non ha nulla a che vedere con un’imperfezione dei mercati, e non si potrà certo correggere con mercati più liberi e concorrenziali. L’idea secondo cui la libera concorrenza promuoverebbe la fine della società fondata sull’eredità e l’avvento di un mondo più meritocratico è una pericolosa illusione. L’introduzione del suffragio universale, e la fine delle elezioni indette a seconda del censo (fatto che nel XIX secolo limitava il diritto di voto alle persone in possesso di un patrimonio adeguato, vale a dire, nella società francese o britannica degli anni venti-quaranta dell’Ottocento, l’1% o il 2% patrimonialmente più ricco), ha posto termine al privilegio politico legalizzato dei detentori di patrimonio.60 Ma non ha abolito, in quanto tale, le forze economiche capaci di mantenere in vita una società di rentiers.

Il capitale nel XXI secolo
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