Che cosa fanno le banche centrali?

Per meglio comprendere il ruolo dell’inflazione, e più in generale il ruolo delle banche centrali nella regolamentazione e nella redistribuzione del capitale, è utile uscire un po’ dal quadro della crisi attuale e collocare i problemi in una prospettiva storica di più lunga durata. Nel tempo in cui la base aurea è praticamente la norma in tutti i paesi, vale a dire fino alla prima guerra mondiale, il ruolo delle banche centrali è molto più ridotto rispetto a oggi. In particolare, la loro facoltà di battere moneta è molto limitata, in un sistema dominato dallo stock di oro e di argento. Una delle difficoltà più evidenti consiste appunto nel fatto che l’evoluzione generale dei prezzi dipende prima di tutto dalle eventuali scoperte aurifere e argentifere, cioè dal caso. Se lo stock di oro mondiale è stazionario, e la produzione mondiale è in forte crescita, il livello dei prezzi non può che scendere di continuo (un’identica massa monetaria deve sostenere una maggiore produzione), il che, in pratica, solleva notevoli difficoltà.17 Se si fanno scoperte inaspettate, come nell’America latina spagnola tra i secoli XVI e XVII, o in California a metà del XIX secolo, il prezzo può salire improvvisamente alle stelle, il che crea altri tipi di problemi, e di arricchimenti indotti.18 Il tutto è ben poco soddisfacente, ed è ben poco probabile che si torni un giorno a una situazione del genere (l’oro, questa “reliquia barbara”, diceva Keynes).

Tuttavia, a partire dal momento in cui si sopprime ogni convertibilità con i metalli preziosi, è chiaro che la facoltà di battere moneta delle banche centrali diventa potenzialmente infinita e deve essere seriamente disciplinata. Ed è proprio il dibattito sull’indipendenza delle banche centrali a provocare una lunga serie di malintesi. All’inizio della crisi degli anni trenta, le banche centrali dei paesi industrializzati adottano una politica molto conservatrice: appena uscite dalla logica della base aurea, si rifiutano di creare la liquidità necessaria per salvare le istituzioni finanziarie in difficoltà, e da qui, i fallimenti bancari a catena, che aggravano terribilmente la crisi e fanno sprofondare il mondo nell’abisso. È importante avere ben presente la gravità del trauma causato da questa drammatica esperienza storica. A partire da quella data, tutti ritengono che la principale funzione delle banche centrali sia assicurare la stabilità del sistema finanziario, il che implica, in caso di panico assoluto, l’obbligo di assumere un ruolo da “prestatore di ultima istanza”, consistente nel creare la liquidità necessaria per evitare il crollo generalizzato delle istituzioni finanziarie. È fondamentale capire che, dopo la crisi degli anni trenta, si tratta di una convinzione condivisa da tutti gli osservatori, quale che sia il loro modo d’intendere il New Deal o le varie forme di Stato sociale adottate negli Stati Uniti e in Europa dopo le crisi degli anni trenta e quaranta. A volte, la fiducia riposta nel ruolo stabilizzatore della banca centrale sembra persino inversamente proporzionale a quella riposta nelle politiche sociali e fiscali adottate nello stesso periodo.

Tutto ciò è espresso con particolare chiarezza nella monumentale Storia monetaria degli Stati Uniti, pubblicata nel 1963 da Milton Friedman. In quest’opera fondamentale, il capofila degli economisti monetaristi studia con meticolosa attenzione i processi di breve durata della politica monetaria seguita dalla Federal Reserve, soprattutto consultando gli archivi e i verbali dei suoi diversi comitati, dal 1857 al 1960.19 Il punto focale della ricerca riguarda – e non c’è da sorprendersi – gli anni neri della crisi del 1929. Per Friedman non possono sussistere dubbi: è proprio la politica grossolanamente restrittiva della Federal Reserve a trasformare il crac di borsa in una crisi del credito, e a precipitare l’economia nella deflazione e in una recessione di ampiezza inaudita. La crisi è innanzitutto monetaria, e la sua soluzione non può che essere monetaria. Dalla sua dotta analisi Friedman trae conclusioni politiche trasparenti: per garantire una crescita tranquilla e pacifica nel quadro delle economie capitalistiche occorre, ed è sufficiente, seguire una politica monetaria appropriata, che assicuri una crescita costante del livello dei prezzi. Secondo la dottrina monetarista, il New Deal e il suo florilegio di posti di lavoro pubblici e di contributi sociali previsti da Roosevelt e dai democratici come risposta alla crisi degli anni trenta e all’uscita dalla seconda guerra mondiale non sono che una gigantesca fumisteria, costosa e inutile. Per salvare il capitalismo non c’è bisogno né di welfare state né di un governo tentacolare: basta una buona Federal Reserve. Nell’America degli anni sessanta e settanta, nella quale una parte dei democratici pensa di riproporre il New Deal, mentre l’opinione pubblica comincia a preoccuparsi del possibile declino degli Stati Uniti rispetto a un’Europa in piena crescita, quel messaggio politico forte e chiaro fa l’effetto di una bomba: i lavori di Friedman e della Scuola di Chicago contribuiscono senza dubbio a sviluppare un clima di diffidenza nei confronti dell’estensione infinita del ruolo dello Stato e a sviluppare il contesto intellettuale che porterà alla rivoluzione conservatrice tra il 1979 e il 1980.

Ma è ugualmente possibile rileggere quei medesimi eventi concludendo che niente impedisce di prevedere una buona Federal Reserve con un buono stato sociale e una buona fiscalità progressiva. Con tutta evidenza, queste istituzioni sono più complementari che alternative. Contrariamente a quanto la dottrina monetarista tenta di suggerire, il fatto che la Federal Reserve abbia in effetti condotto una politica grossolanamente restrittiva all’inizio degli anni trenta (come peraltro le banche centrali degli altri paesi ricchi), non dice alcunché sui meriti e i limiti delle altre istituzioni. Ma non è questo il punto che ci interessa qui. Il fatto è che, da decenni, tutti gli economisti – monetaristi, keynesiani o neoclassici – e tutti gli osservatori, di qualsiasi tendenza politica, sono concordi nel ritenere che le banche centrali debbano svolgere il ruolo del “prestatore di ultima istanza”, e prendere tutte le misure necessarie per evitare il crollo finanziario e la spirale deflazionistica.

Questo relativo consenso storico spiega perché tutte le banche centrali del pianeta, negli Stati Uniti come in Europa e in Giappone, hanno reagito alla crisi apertasi nel periodo 2007-2008 assumendosi il ruolo del prestatore e dello stabilizzatore. Per cui, a parte quello della Lehman Brothers nel settembre 2008, i fallimenti bancari sono stati relativamente limitati. Il che non significa che esista un consenso analogo sulla natura esatta delle politiche monetarie “non convenzionali” da seguire in situazioni simili.

Il capitale nel XXI secolo
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