A chi giova il debito pubblico?

Si tratta, per molte ragioni, di un’esperienza storica fondamentale. In primo luogo ci fa capire perché i socialisti del XIX secolo, a cominciare da Karl Marx, diffidavano in larga misura del debito pubblico, che percepivano – non senza una certa preveggenza – come uno strumento al servizio dell’accumulazione del capitale privato.

Tanto più che, all’epoca, il debito pubblico veniva rimborsato in modo consistente non solo nel Regno Unito, ma anche in tutti gli altri paesi, in particolare in Francia. L’episodio della “bancarotta dei due terzi” del 1797 non si è mai più ripetuto, e i rentiers dei romanzi di Balzac non sembrano darsi troppa pena per i loro titoli di debito pubblico, al pari dei rentiers dei romanzi di Jane Austen. Di fatto, l’inflazione, tra il 1815 e il 1914, sarà debole, sia in Francia sia nel Regno Unito, e gli interessi sul debito pubblico verranno sempre pagati tempestivamente. In Francia, per tutto il XIX secolo, l’investimento sui titoli di Stato è quanto mai sicuro, e contribuisce a far crescere e arricchire i patrimoni privati – esattamente come nel Regno Unito. Tanto che lo stock di debito pubblico francese, assai limitato nel 1815, non tarda a crescere nel corso dei decenni successivi, soprattutto nel periodo delle monarchie censitarie (tra il 1815 e il 1848).

Dal 1815 al 1816 lo Stato francese s’indebita fortemente per finanziare l’indennità versata agli eserciti di occupazione, poi di nuovo nel 1825 per finanziare il famoso “miliardo degli emigrati” versato agli aristocratici esiliati durante la Rivoluzione francese (per risarcirli della redistribuzione dei terreni – peraltro limitata – portata avanti in loro assenza). In totale, il debito pubblico cresce di una percentuale superiore al 30% del reddito nazionale. Sotto il Secondo impero, gli interessi finanziari sono ben remunerati. Nei feroci articoli che tra il 1849 e il 1850 dedica alla Lotta di classe in Francia, Marx si indigna per il modo in cui il nuovo ministro delle finanze di Luigi Napoleone Bonaparte, Achille Fould, rappresentante dei banchieri e dell’alta finanza, decide senza colpo ferire di aumentare le imposte sulle bevande per pagare i rentiers. Successivamente, in conseguenza della guerra franco-prussiana del 1870-71, lo Stato francese dovrà di nuovo indebitarsi con la popolazione per risarcire la Germania con una cifra equivalente a circa il 30% del reddito nazionale.13 In definitiva, nel periodo tra il 1880 e il 1914, il debito pubblico francese finisce per risultare più alto di quello britannico: esso si colloca intorno al 70-80% del reddito nazionale, mentre quello britannico è un po’ meno del 50%. Nel romanzo francese della belle époque, il tema del rendimento dei titoli di Stato è ampiamente presente. Lo stato distribuisce ogni anno in interessi l’equivalente di circa il 2-3% del reddito nazionale (ossia più del bilancio riservato, all’epoca, all’istruzione nazionale), e questi interessi danno da vivere a un gruppo sociale molto consistente.14

Nel XX secolo si è sviluppata una visione totalmente diversa del debito pubblico, fondata sulla convinzione che l’indebitamento potesse diventare al contrario uno strumento al servizio di una politica della spesa pubblica e di redistribuzione sociale a favore dei ceti più modesti. La differenza tra le due visioni è piuttosto semplice: nel XIX secolo il rimborso del debito avveniva a prezzi molto elevati, avvantaggiando chi aveva prestato soldi allo Stato e accrescendo il livello dei patrimoni privati; nel XX secolo il debito è stato intaccato dall’inflazione e rimborsato con denaro di scarso valore, per cui, de facto, è servito a finanziare i deficit da parte di chi aveva prestato i soldi allo Stato, senza dover subire un pari aumento delle tasse. Oggi, agli inizi del XXI secolo una tale visione “progressista” del debito pubblico continua a suscitare il favore di molti, mentre l’inflazione, da tempo ridiscesa a livelli non lontani da quelli del XIX secolo, ha praticamente cessato di produrre i suoi effetti redistributivi.

È interessante rilevare un fatto: la redistribuzione grazie all’inflazione è stata più forte in Francia che nel Regno Unito. Come s’è visto nel capitolo precedente, la Francia ha registrato tra il 1913 e il 1950 un tasso d’inflazione medio superiore al 13% annuo, equivalente a una moltiplicazione per cento dei prezzi. Quando Proust pubblica, nel 1913, Dalla parte di Swann, le rendite dei titoli di Stato sembrano indistruttibili come il Grand Hôtel di Cabourg dove il romanziere va a passare le estati. Nel 1950, al contrario, il potere d’acquisto delle rendite è stato ridotto di cento volte, per cui i rentiers del 1913 e i loro discendenti non possiedono quasi più nulla.

Il che, per lo Stato, significa che malgrado un forte debito pubblico iniziale (nel 1913 circa l’80% del reddito nazionale) e deficit molto elevati nel periodo tra il 1913 e il 1950, soprattutto durante gli anni di guerra, nel 1950 il debito pubblico francese è sceso a un livello relativamente basso (circa il 30% del reddito nazionale), vicino a quello del 1815. In particolare, gli enormi deficit accumulati ai tempi della Liberazione sono stati quasi immediatamente annullati da un’inflazione superiore al 50% annuo per quattro annualità consecutive, dal 1945 al 1948, in un clima politico a dir poco surriscaldato. Qualcosa di molto simile alla “bancarotta dei due terzi” del 1797: si saldano i conti del passato per poter ricostruire il paese grazie a un debito pubblico basso (cfr. grafico 3.4).

Nel Regno Unito le cose si mettono diversamente: seguono un ritmo più lento, in un clima politicamente meno acceso. Tra il 1913 e il 1950 il tasso d’inflazione medio è di poco più del 3% medio annuo, equivalente a una moltiplicazione per tre dei prezzi (più di trenta volte inferiore a quella francese). Il che significa una spoliazione non indifferente per chi vive di rendita, inimmaginabile nel XIX secolo e fino alla prima guerra mondiale, ma non sufficiente a impedire l’enorme accumulo di deficit pubblici nel corso dei due conflitti mondiali: il Regno Unito è interamente mobilitato per finanziare lo sforzo bellico ed è riluttante a stampare nuova moneta, per cui il paese, nel 1950, finisce per trovarsi sulle spalle un debito pubblico colossale, superiore al 200% del PIL, un livello ancora più alto di quello del 1815. Occorrerà aspettare l’inflazione, tra il 1950 e il 1960 (più del 4% annuo), e soprattutto quella degli anni settanta (circa il 15% annuo), perché il debito pubblico ridiscenda attorno al 50% del PIL (cfr. grafico 3.3).

Questo meccanismo di redistribuzione tramite l’inflazione è estremamente efficace, e nel corso del XX secolo ha svolto un ruolo storico essenziale in entrambi i paesi. Tuttavia pone due problemi non di poco conto. Da una parte, la sua individuazione è relativamente incerta e approssimativa: tra i proprietari di patrimoni, coloro che detengono direttamente o indirettamente – tramite i propri depositi bancari – i titoli di debito pubblico non sono sempre i più agiati, anzi. Dall’altra, il meccanismo non può funzionare sul lungo termine: quando l’inflazione diventa un dato permanente, i finanziatori esigono un tasso d’interesse nominale più elevato, e la crescita dei prezzi non ha più l’effetto previsto. Senza contare che un’inflazione elevata tende continuamente ad accelerarsi (una volta innestato il processo inflattivo, diventa difficile fermarlo) e comporta effetti non facilmente controllabili (determinati gruppi sociali vedono i loro redditi ampiamente rivalutati, altri meno). Non per nulla, dopo gli anni settanta, decennio segnato nei paesi ricchi da un misto di inflazione elevata, crescita della disoccupazione e relativa stagnazione economica – la cosiddetta “stagflazione” –, si è nuovamente sviluppato un forte consenso in favore di una bassa inflazione.

Il capitale nel XXI secolo
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