La redistribuzione moderna: il problema della progressività fiscale
L’imposta non è un problema tecnico. Si tratta di una questione eminentemente politica e filosofica, di certo innanzitutto politica. Senza imposte, non può esistere destino comune né capacità collettiva ad agire. È stato sempre così. La rivoluzione fiscale è connaturata a ogni cambiamento politico importante. L’ancien régime scompare quando le assemblee rivoluzionarie votano l’abolizione dei privilegi fiscali della nobiltà e del clero, e adottano un regime fiscale universale e moderno. La Rivoluzione americana nasce dalla volontà dei sudditi delle colonie britanniche di prendere in mano il proprio destino e gestire le proprie imposte (“No taxation without representation”). In due secoli il contesto è cambiato, ma l’obiettivo essenziale rimane lo stesso. Si tratta di far sì che i cittadini possano scegliere in modo sovrano e democratico quali risorse destinare ai propri progetti comuni: formazione, salute, pensioni, disuguaglianze, lavoro, sviluppo sostenibile ecc. Tanto che, in tutte le società, la forma concreta che le imposte possono assumere è al centro del confronto politico. Si tratta di mettersi d’accordo su chi deve pagare che cosa e in nome di quali principi: impresa non da poco, tant’è vero che le opinioni differiscono su molti punti, a cominciare naturalmente dal reddito e dal capitale. In particolare, esistono in tutte le società delle persone che hanno un alto reddito da lavoro e un ridotto capitale ereditato, e viceversa: e il legame tra queste due forme di ricchezza non è fortunatamente quasi mai perfetto. Per cui le visioni del sistema fiscale ideale possono essere diverse.
Si distinguono abitualmente le imposte sul reddito, le imposte sul capitale e le imposte sui consumi. Si possono ritrovare dei prelievi fiscali di queste tre categorie praticamente in tutte le epoche, in proporzioni diverse. Queste categorie, peraltro, non sono esenti da ambiguità, e i confini tra l’una e l’altra non sono sempre delineati con chiarezza. Per esempio, l’imposta sul reddito riguarda in linea di principio tanto i redditi da capitale quanto i redditi da lavoro: si tratta dunque, almeno in parte, di un’imposta sul capitale. E in genere si includono tra le imposte sul capitale sia i prelievi che gravano sul flusso dei redditi da capitale (per esempio sugli utili delle società) sia quelli che incidono sul valore dello stock del capitale (per esempio la tassa fondiaria, l’imposta sulle successioni o l’imposta sui patrimoni). Le imposte sui consumi comprendono in età moderna la tassa sul valore aggiunto e le varie tasse sugli scambi commerciali, sulle bevande, sui profumi, sul tabacco e su qualunque altro bene e servizio specifico. Sono tasse che esistono da sempre, spesso le più odiate di tutte e le più insopportabili per le classi popolari, non diversamente dalle famigerate gabelle (per esempio la tassa sul sale) dell’ancien régime. Sono imposte spesso definite “indirette”, nel senso che non dipendono direttamente dal reddito o dal capitale del singolo contribuente: vengono pagate indirettamente, attraverso il prezzo di vendita, quando si fanno gli acquisti. In assoluto, si potrebbe immaginare un’imposta diretta sul consumo, dipendente dall’importo consumato da ciascuno, ma è una cosa che non è mai esistita.1
Nel XX secolo è comparsa una quarta categoria di prelievi fiscali, quella dei contributi sociali. Si tratta di una forma di prelievo particolare che grava sui redditi, in genere solo sui redditi da lavoro (salari, stipendi e redditi da lavoro non dipendente), e destinata alle casse della previdenza sociale, soprattutto per finanziare i redditi di inattività (pensioni di vecchiaia, indennità di disoccupazione), un prelievo che può a volte servire a far luce sulla struttura e l’organizzazione dello Stato sociale. Alcuni paesi, come la Francia, impiegano i contributi sociali anche per finanziare altre spese pubbliche, dal servizio sanitario ai sostegni per le famiglie, per cui, in totale, i contributi sociali equivalgono a quasi la metà dei prelievi fiscali e rendono ancora più complicato l’intero meccanismo. Viceversa, altri paesi, come la Danimarca, scelgono di finanziare le spese pubbliche tramite un’enorme imposta sul reddito, le cui entrate vengono destinate alle pensioni, alla disoccupazione, alla sanità e così via. Tutte queste distinzioni tra differenti forme giuridiche di prelievo fiscale sono comunque arbitrarie, almeno in parte.2
Al di là delle dispute terminologiche, infatti, un criterio spesso più pertinente per caratterizzare le varie imposte potrebbe riguardare la caratteristica più o meno proporzionale o progressiva del prelievo fiscale. Un’imposta è detta proporzionale quando la sua aliquota è uguale per tutti (si parla così di flat tax). Un’imposta è progressiva quando il suo tasso è più alto per i più ricchi (coloro che hanno il reddito più elevato, o il capitale più elevato, o i consumi più elevati, a seconda che si consideri un’imposta progressiva sul reddito, sul capitale o sui consumi) e più basso per i più poveri. Un’imposta può anche essere regressiva, quando il tasso per i più ricchi scende, o perché i più ricchi riescono a eludere in parte l’imposta di diritto comune (legalmente, per l’ottimizzazione fiscale, o illegalmente, tramite l’evasione), o perché il diritto comune prevede che l’imposta sia regressiva, come nel caso della famosa poll tax, che nel 1990 è costata a Margaret Thatcher il posto di primo ministro.3
Se si considera l’insieme dei prelievi fiscali, si constata che lo Stato fiscale moderno adotta un criterio relativamente proporzionale al reddito, soprattutto nei paesi in cui il gettito fiscale è rilevante. E il fatto non deve stupire: è impossibile prelevare la metà del reddito nazionale e finanziare diritti sociali ambiziosi senza chiedere un contributo sostanziale all’insieme della popolazione. Del resto, la logica dei diritti universali che presiede allo sviluppo dello Stato fiscale e sociale moderno si sposa abbastanza bene con l’idea di un prelievo fiscale proporzionale o leggermente progressivo.