La crisi cipriota: quando l’imposta sul capitale fa le funzioni della regolamentazione bancaria

Il primo insostituibile ruolo delle banche centrali è garantire la stabilità del sistema finanziario. Esse sono l’istituzione meglio attrezzata per accertare ogni giorno la situazione delle varie banche, per rifinanziarle in caso di necessità e per controllare che il sistema dei pagamenti funzioni normalmente; e in ciò sono aiutate da autorità e strutture specificamente incaricate della regolamentazione bancaria, per esempio della distribuzione delle licenze richieste per creare un istituto finanziario (non si può dar vita a una banca in un garage) oppure per verificare che gli indici conservativi in vigore (cioè i quantitativi di riserve e di attivi giudicati poco rischiosi che le banche devono detenere per poter prestare o investire questa o quella somma in attivi più rischiosi) siano correttamente rispettati. In tutti i paesi le banche centrali e le autorità di regolamentazione bancaria (a esse perlopiù collegate) lavorano di concerto. Nell’attuale progetto di definizione di un’unione bancaria europea, alla BCE è assegnato un ruolo centrale. Nella regolamentazione di certe crisi bancarie reputate particolarmente gravi, le banche centrali lavorano di comune accordo anche con le strutture internazionali create all’uopo, a cominciare dal Fondo monetario internazionale (FMI). È il caso della ormai famosa “Troika”, che raggruppa la Commissione europea, la BCE e il FMI, e che dal periodo 2009-10 tenta di spegnere la crisi finanziaria europea, un concentrato di crisi del debito pubblico e di crisi bancaria, soprattutto nell’Europa del Sud. La recessione del biennio 2008-9 ha infatti portato a un aggravamento del debito pubblico, il cui livello era già molto alto in quasi tutti i paesi alla vigilia della crisi (soprattutto in Grecia e in Italia), e a un deterioramento dei bilanci bancari, in particolare nei paesi investiti dall’esplosione della bolla immobiliare (a cominciare dalla Spagna). Le due crisi, in sostanza, sono indissolubilmente legate. Le banche detengono titoli del debito pubblico di cui nessuno conosce esattamente il valore (l’haircut, in Grecia, è stato piuttosto massiccio, e anche se è stato detto che la soluzione specifica non si ripeterà, la verità è che è obiettivamente molto difficile prevedere quello che potrebbe succedere in circostanze del genere), e le finanze pubbliche degli Stati non possono che continuare a depauperarsi finché durerà la stagnazione economica, che a sua volta dipende, in larga parte, dal blocco del sistema finanziario e del credito.

Una delle difficoltà è che né la Troika né le autorità pubbliche dei vari paesi interessati dispongono della trasmissione automatica delle informazioni bancarie internazionali e del “catasto finanziario” che permetterebbe loro di suddividere in modo trasparente ed efficace le perdite e gli sforzi. Nel capitolo precedente abbiamo già ricordato il caso dell’Italia e della Spagna, le loro difficoltà a predisporre da sole un’imposta progressiva sul capitale per risanare le proprie finanze pubbliche. Il caso della Grecia è ancora più abnorme. Tutti chiedono alla Grecia di far pagare le tasse ai cittadini più agiati. Il che sarebbe un’eccellente idea – sennonché, in assenza di una cooperazione internazionale adeguata, la Grecia non ha chiaramente i mezzi per imporre da sola un sistema fiscale giusto ed efficace, per cui diventa facile per i cittadini più ricchi spostare i loro fondi all’estero, spesso in altri paesi europei. Sino a oggi, le autorità europee e internazionali non hanno mai preso misure in grado di definire un quadro di regole e di norme su questa materia.23 Di conseguenza, in mancanza di interventi fiscali adeguati, la Grecia e gli altri paesi investiti dalla crisi si sentono spronati a trovare delle entrate cedendo, spesso a basso prezzo, attivi pubblici che restano in loro possesso: una soluzione che per gli acquirenti interessati – greci o europei dei vari paesi – è sicuramente più interessante della soluzione di pagare le tasse.

Un caso particolarmente rilevante è quello della crisi cipriota del marzo 2013. Cipro è un’isola di 1 milione di abitanti, entrata nell’Unione Europea nel 2004 e nell’eurozona nel 2008. Il suo settore bancario è ipertrofico, in ragione dei notevoli depositi esteri, soprattutto russi, attratti da una tassazione ridotta e dagli scarsi controlli da parte delle autorità locali. Secondo i responsabili della Troika, pare che i depositi russi comprendano enormi somme individuali. Tutti sanno degli oligarchi i cui averi ammontano a decine di milioni di euro, o anche a miliardi di euro, stando alle classifiche delle ricchezze pubblicate dalle riviste. Il problema è che nessuna statistica, anche grossolana e approssimativa, è mai stata pubblicata dalle autorità europee o dal FMI. È molto probabile che queste stesse istituzioni non ne sappiano molto, per il semplice motivo che non si sono mai dotate di mezzi per migliorare le proprie conoscenze in un ambito che riveste in realtà la massima importanza. Una simile opacità non agevola certo una regolamentazione pacifica e razionale del conflitto. Il problema, infatti, è che le banche cipriote non hanno più il denaro che risulta nei loro bilanci. Le somme, a quanto pare, sono state investite in titoli greci oggi svalutati e in investimenti immobiliari in parte fittizi. Per cui, com’è naturale, le autorità europee esitano a impiegare il denaro del contribuente europeo per rimettere in sesto senza contropartita le banche cipriote, anche perché si tratterebbe in sostanza di salvare dei miliardari russi.

Dopo mesi di riflessione, i membri della Troika hanno maturato l’idea, disastrosa, di proporre una tassa eccezionale su tutti i depositi bancari, con i seguenti tassi: 6,75% fino a 100.000 euro, 9,9% oltre i 100.000 euro. L’idea, che assomiglia a una tassa progressiva sul capitale, non sarebbe priva d’interesse. Però ha in sé due limiti gravi. Per iniziare, la progressività decisamente leggera è palesemente illusoria: si finisce per tassare quasi allo stesso modo il piccolo risparmiatore cipriota che possiede 10.000 euro sul conto corrente e l’oligarca russo che possiede 10 milioni di euro. Inoltre, la base impositiva non è mai stata definita con esattezza dalle autorità europee e internazionali preposte al caso. A quanto pare, verrebbero colpiti solo i depositi bancari in senso stretto, per cui basterebbe trasferire le proprie disponibilità su un conto titoli in azioni o obbligazioni, oppure indirizzarli verso altri attivi finanziari e immobiliari, per sfuggire in tutto e per tutto alla tassazione. In altri termini, se la tassa fosse stata davvero applicata, sarebbe risultata nettamente regressiva, considerate la composizione e le possibilità di reinvestimento dei portafogli più importanti. Proposta nel marzo del 2013, dopo essere stata votata all’unanimità dai membri della Troika e dai diciassette ministri delle finanze rappresentanti i paesi dell’eurozona, la tassa è stata risolutamente respinta dalla popolazione. Alla fine è stata adottata una nuova soluzione, che prevede in particolare un’esenzione per i depositi inferiori ai 100.000 euro (che è il livello teorico di garanzia previsto dal progetto di unione bancaria europea in corso di attivazione). Le modalità esatte restano però ancora molto vaghe. Sembra in via di adozione un approccio effettuato banca per banca, ma non si conoscono il tasso del prelievo e gli imponibili previsti.

L’episodio è interessante perché evidenzia i limiti delle banche centrali e delle autorità finanziarie. La loro forza è la rapidità d’azione; la loro debolezza è la loro limitata capacità di individuare con equità le redistribuzioni da operare. La conclusione è che l’imposta progressiva sul capitale non è solo utile come imposta permanente: essa potrà svolgere anche un ruolo decisivo sotto forma di prelievo eccezionale (con tassi eventualmente abbastanza elevati) nel quadro della regolamentazione delle più importanti crisi bancarie. Nel caso cipriota, non sarebbe così scioccante chiedere uno sforzo ai risparmiatori, dal momento che è il paese nel suo complesso a essere corresponsabile della strategia di sviluppo adottata dal governo. È al contrario profondamente scioccante non cercare neanche di procurarsi i mezzi per arrivare a una distribuzione equa, trasparente e progressiva degli sforzi. La buona notizia è che ciò potrebbe condurre le autorità internazionali a rendersi conto dei limiti dei mezzi di cui dispongono. Se si chiede ai responsabili interessati perché la proposta della tassa cipriota era così poco progressiva e aveva un imponibile così ridotto, ci si sente subito rispondere che nessuno disponeva delle informazioni bancarie necessarie per applicare un sistema di aliquote più marcatamente progressivo.24 La brutta notizia è la riluttanza, da parte delle autorità in questione, a regolare il problema, laddove la sua soluzione sarebbe invece a portata di mano. Non è nemmeno da escludere che l’idea dell’imposta progressiva sul capitale susciti blocchi squisitamente ideologici, e che tali blocchi siano ancora ben lontani dall’essere superati.

Il capitale nel XXI secolo
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