Attivi reali e attivi nominali
Il terzo punto che merita di essere precisato è che i tassi di rendimento indicati nei grafici 6.3 e 6.4 devono assolutamente essere considerati rendimenti reali. In altri termini, sarebbe un grave errore voler dedurre il tasso d’inflazione – oggi nei paesi ricchi intorno all’1-2% annuo – dai suddetti rendimenti.
Il motivo è semplice, e lo abbiamo appena ricordato: nella loro stragrande maggioranza, le quote di tipo patrimoniale detenute dalle famiglie sono attivi “reali” (cioè investimenti che si riferiscono a un’attività economica reale, come l’immobiliare a uso abitativo o le azioni, il cui prezzo evolve con l’evolversi dell’attività stessa) e non attivi “nominali” (il cui valore è fermo al valore nominale iniziale, come il denaro depositato su un conto in banca, o un buono del tesoro non indicizzato all’inflazione).
La caratteristica degli attivi nominali è di essere soggette a un grave rischio inflazionistico: quando si depositano 10.000 euro su un conto bancario o su un libretto di risparmio, o si acquista un’obbligazione pubblica o privata non indicizzata, i 10.000 euro iniziali valgono, dieci anni dopo, sempre 10.000 euro, anche se nel frattempo i prezzi al consumo sono raddoppiati. Nel qual caso, si rileva che il valore reale dell’investimento si è dimezzato: rispetto a dieci anni prima si può comprare solo la metà dei beni e dei servizi. Il che corrisponde a un rendimento negativo di -50% su dieci anni, rendimento che può essere o meno compensato dagli interessi ottenuti nel corso del decennio. In genere, in periodi di forte rialzo dei prezzi, il tasso d’interesse “nominale”, ossia quello preesistente all’effetto inflazione, sale a livelli elevati, il più delle volte a livelli superiori all’inflazione. Tutto, però, dipende dalla data in cui è stato effettuato l’investimento, dall’inflazione prevista in quel momento ecc. Per cui, il tasso d’interesse “reale”, vale a dire il rendimento realmente ottenuto al netto del tasso di inflazione, può essere molto negativo come molto positivo, a seconda dei casi.10 In ogni caso, se vogliamo conoscere il rendimento reale di un attivo nominale, dobbiamo calcolarne gli interessi al netto dell’inflazione.
Per gli attivi reali le cose stanno diversamente. Il valore sia dei beni immobiliari sia delle azioni, sia delle quote di società o dei molteplici investimenti finanziari e dei fondi comuni d’investimento, realizzati sui mercati azionari crescono in genere almeno alla velocità dell’indice dei prezzi al consumo. In altri termini, non solo al valore degli affitti o dei dividendi percepiti ogni anno non va sottratto il valore dell’inflazione, ma, al rendimento annuo, va spesso aggiunta una plusvalenza al momento della vendita dell’attivo (o va dedotta, a volte, una minusvalenza). È per questo che gli attivi reali sono molto più consistenti di quelli nominali: rappresentano in generale più di tre quarti degli attivi totali detenuti dalle famiglie, in alcuni casi i nove decimi.11
Quando, nel capitolo precedente, abbiamo studiato l’accumulazione del capitale, abbiamo concluso che sul lungo periodo i diversi effetti tendono a compensarsi. In concreto, se si considera l’insieme degli attivi, e il periodo 1910-2010 nel suo complesso, si vede che il prezzo degli attivi sembra essere cresciuto in media allo stesso ritmo dell’indice dei prezzi al consumo, quantomeno a una prima approssimazione. Infatti le plusvalenze o le minusvalenze, per questa o quella categoria di attivi (in particolare, gli attivi nominali generano di per sé delle minusvalenze, compensate dalle plusvalenze di quelli reali), possono essere robuste, e in effetti variano sensibilmente a seconda dei periodi: nel periodo 1910-50, il prezzo relativo del capitale è molto diminuito, prima di risalire tendenzialmente nel periodo 1950-2010. In queste condizioni, l’approccio più ragionevole è quello di considerare che i rendimenti medi del capitale indicati nei grafici 6.3 e 6.4, ottenuti – ricordiamolo – dividendo il flusso annuo di redditi da capitale (affitti, dividendi, interessi, profitti ecc.) per lo stock di capitale, senza perciò considerare le plusvalenze e le minusvalenze, rappresentano una valida stima del rendimento medio del capitale a lungo termine.12 Con ciò, quando studiamo il rendimento di un attivo specifico, non ci esime dal dover aggiungere la plusvalenza o dover dedurre la minusvalenza (per esempio a dedurre il costo dell’inflazione nel caso di un attivo nominale). Tuttavia, a questo punto, non avrebbe più molto senso dedurre il costo dell’inflazione dall’insieme del rendimento del capitale senza aggiungervi le plusvalenze, le quali in media equilibrano ampiamente gli effetti dell’inflazione.
Intendiamoci: non si vuole, qui, negare che l’inflazione possa a volte avere effetti reali sui patrimoni, sul loro rendimento e sulla loro distribuzione. Si vuole semplicemente sottolineare l’importanza degli effetti di redistribuzione nell’ambito dei patrimoni rispetto agli effetti strutturali a lungo termine. Per esempio, abbiamo visto come, nei paesi ricchi, dopo le due guerre mondiali, l’inflazione abbia svolto un ruolo fondamentale per ridurre a poca cosa l’entità del debito pubblico. Se però l’inflazione si prolunga nel tempo mantenendosi su livelli elevati, tutti cercano di proteggersi dai suoi effetti investendo in attivi reali. Anche se sappiamo benissimo che i patrimoni più consistenti sono spesso i meglio indicizzati e i più diversificati a lungo termine, e che invece i patrimoni modesti – come i conti bancari e i libretti di risparmio – sono quelli più duramente colpiti.
Si potrebbe sostenere la tesi secondo cui il passaggio da un’inflazione quasi nulla per tutto il XIX secolo e fino all’inizio del XX a un’inflazione del 2% alla fine del XX e all’inizio del XXI, avrebbe portato a un leggero calo del rendimento puro del capitale, per cui sarebbe più facile essere un rentier dei secoli scorsi in un regime d’inflazione nulla (il patrimonio ereditato dal passato non corre il rischio di essere eroso dall’inflazione) che essere un investitore di oggi, costretto a passare il tempo a riallocare il proprio patrimonio, o quantomeno a riflettere sulla migliore strategia di investimento. Ma, anche qui, non è del tutto sicuro che i patrimoni più elevati siano i più duramente colpiti dall’inflazione, né che questo meccanismo sia il più appropriato per raggiungere questo obiettivo. Torneremo su tale questione di fondo nella Parte terza, quando esamineremo le modalità secondo cui i rendimenti effettivamente ottenuti dagli uni e dagli altri varino a seconda del livello del patrimonio, e nella Parte quarta, quando esamineremo e confronteremo le diverse istituzioni e politiche pubbliche in grado d’incidere sulla distribuzione della ricchezza, prime tra tutte il fisco e l’inflazione. Per il momento, ci limitiamo a notare che l’inflazione svolge innanzitutto un ruolo di redistribuzione tra i detentori di patrimoni – un ruolo a volte auspicabile, a volte meno –, e che l’eventuale impatto dell’inflazione sul rendimento medio del capitale non può che essere, in ogni caso, abbastanza limitato, comunque inferiore all’apparente effetto nominale.13