La Francia: un capitalismo senza capitalisti nel dopoguerra

Riprendiamo il filo della storia della ricchezza pubblica e dedichiamoci agli attivi detenuti dal potere pubblico. Rispetto ai debiti, gli attivi hanno una storia all’apparenza meno tumultuosa.

Per semplificare, possiamo dire che il valore totale degli attivi pubblici è cresciuto sul lungo periodo tanto in Francia quanto nel Regno Unito, ed è passato in entrambi i paesi da appena il 50% del reddito nazionale nei secoli XVIII e XIX a circa il 100% tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI (cfr. grafici 3.3 e 3.4).

A prima vista, il progresso corrisponde al graduale ampliamento del ruolo economico dello Stato nel corso della storia, in particolare con lo sviluppo, nel XX secolo, di servizi pubblici sempre più estesi nei settori dell’istruzione e della sanità (che necessitano di notevoli strutture e attrezzature pubbliche) e di infrastrutture pubbliche e semipubbliche in quelli dei trasporti e delle comunicazioni. I servizi e le infrastrutture pubbliche sono più estese in Francia che nel Regno Unito, cosa che sembra tradursi nel fatto che dal 2010 in Francia, il valore totale dell’attivo pubblico si avvicina al 150% del reddito nazionale, contro il 100% nel Regno Unito.

Questa visione semplificata e lineare dell’accumulazione dell’attivo pubblico sul lungo termine omette tuttavia un aspetto importante della storia del secolo scorso, cioè la formazione di attivi pubblici significativi nei settori industriali e finanziari dagli anni cinquanta agli anni settanta, seguita da notevoli ondate di privatizzazioni degli stessi attivi a partire dagli anni ottanta e novanta. È un ricorso storico che, sia pure con ampiezze variabili, si può osservare sia nella maggior parte dei paesi sviluppati, in particolare in Europa, sia in molti paesi in via di sviluppo.

Il caso della Francia è emblematico. Per capirlo, risaliamo un poco indietro. Nella Francia del XX secolo, come in tutti i paesi, la fiducia nel capitalismo privato è stata fortemente scossa dalla crisi economica degli anni trenta e dalle catastrofi che ne seguirono. La “grande depressione”, scatenatasi nell’ottobre 1929 con il crac della borsa di Wall Street, travolge i paesi ricchi con una violenza sconosciuta fino a quel momento: nel 1932 la disoccupazione colpisce un quarto della popolazione attiva, negli Stati Uniti come in Germania, nel Regno Unito come in Francia. La dottrina tradizionale del laissez-faire, e del non intervento del potere pubblico nella vita economica, dottrina prevalente in tutti i paesi per tutto il XIX secolo e in larga misura fino ai primi anni trenta, si ritrova duramente screditata. E si diffonde un po’ ovunque la tesi opposta, favorevole a un più ampio interventismo. I governi e l’opinione pubblica presentano ovviamente il conto alle élite finanziarie ed economiche che si sono arricchite oltremisura, fino a trascinare il mondo sull’orlo dell’abisso. Si prospettano così vari modelli di economia “mista”, in grado di coniugare livelli diversi di proprietà pubblica delle imprese con forme più tradizionali di proprietà privata, o comunque s’invoca una forte regolazione e ripresa di controllo da parte della mano pubblica del sistema finanziario e del capitalismo privato nel suo insieme.

La vittoria dell’Unione Sovietica a fianco degli Alleati nel 1945 ha inoltre rafforzato il prestigio del sistema economico statalista messo in campo dai bolscevichi. Il sistema non ha forse favorito l’industrializzazione a marce forzate di un paese notoriamente arretrato, uscito nel 1917 da una condizione ancora feudale? Nel 1942 Joseph Schumpeter giudica inevitabile il trionfo del socialismo sul capitalismo. E nel 1970, nell’ottava edizione del suo famoso libro di testo, Paul Samuelson continua a prefigurare, tra il 1990 e il 2000, il possibile sorpasso del PIL americano da parte del PIL sovietico.17

Nel 1945, in Francia, questo generale clima di diffidenza nei confronti del capitalismo privato è anche rafforzato dal fatto che una buona parte delle élite economiche è sospettata di collaborazionismo con l’occupante tedesco e di arricchimenti scandalosi nel periodo tra il 1940 e il 1945. È nell’atmosfera elettrizzata della Liberazione che vengono varate le grandi ondate di nazionalizzazioni, riguardanti soprattutto il settore bancario, le miniere di carbone e l’industria automobilistica, in particolare la famosa nazionalizzazione-sanzione delle fabbriche Renault: il proprietario Louis Renault viene arrestato per collaborazionismo nel settembre del 1944, e le sue fabbriche sono sequestrate dal governo provvisorio e nazionalizzate nel gennaio del 1945.18 Nel 1950, in Francia, secondo le stime disponibili, il valore totale dell’attivo pubblico è superiore a un’annualità di reddito nazionale. Se si considera il fatto che il valore del debito pubblico è stato fortemente ridotto dall’inflazione, il patrimonio pubblico netto è di poco inferiore a un’annualità di reddito nazionale, in un’epoca in cui il totale dei patrimoni privati equivale ad appena due annualità di reddito nazionale (cfr. grafico 3.6). Anche qui, la precisione delle stime non deve ingannare: è difficile stimare il valore del capitale in un periodo in cui i prezzi degli attivi sono storicamente bassi, ed è possibile che l’attivo pubblico sia leggermente sottostimato rispetto a quello privato. Tuttavia gli ordini di grandezza si possono considerare validi: in Francia, nel 1950, il potere pubblico detiene il 25-30% del patrimonio nazionale, e forse anche qualcosa di più.

Si tratta di una porzione ragguardevole, soprattutto se si tiene conto del fatto che la proprietà pubblica ha praticamente risparmiato le piccole e medie imprese o l’agricoltura, ed è sempre rimasta nettamente minoritaria (meno del 20%) nel settore immobiliare a uso abitativo. Nei settori industriale e finanziario, i più direttamente interessati dalle nazionalizzazioni, la quota dello Stato nel patrimonio nazionale ha invece superato, tra gli anni cinquanta e gli anni settanta, il 50%.

Questa esperienza storica, anche se relativamente breve, è importante per comprendere il complesso rapporto che lega ancora oggi l’opinione pubblica francese e il capitalismo privato. Per tutto il periodo dei Trente glorieuses, nel corso del quale il paese, in piena ricostruzione, ha conosciuto una fortissima crescita economica (la più forte nel corso della sua storia), la Francia ha sperimentato un sistema economico misto, in qualche modo un capitalismo senza capitalisti, o quantomeno un capitalismo di Stato in cui i proprietari privati non detenevano più il controllo delle maggiori imprese.

Nello stesso periodo, ondate di nazionalizzazioni hanno naturalmente investito molti altri paesi, tra cui il Regno Unito, paese nel quale, nel 1950, il valore dell’attivo pubblico è superiore a un’annualità di reddito nazionale, esattamente come in Francia. Con una differenza: il debito pubblico britannico supera di due annualità il reddito nazionale, per cui, negli anni cinquanta, il patrimonio pubblico netto è fortemente negativo e il patrimonio privato è di gran lunga più elevato. Nel Regno Unito, il patrimonio pubblico diventerà infine positivo solo verso gli anni sessanta e settanta, senza tuttavia superare il 20% del patrimonio nazionale (cifra comunque già considerevole).19

La specificità della curva francese è che la proprietà pubblica, dopo aver conosciuto i fasti degli anni cinquanta e settanta, ha subito una forte flessione ridiscendendo a livelli di grande debolezza dagli anni ottanta e novanta, mentre i patrimoni privati, immobiliari e finanziari, hanno raggiunto livelli ancora più alti che nel Regno Unito: equivalenti, dal primo decennio del XXI secolo, a circa sei annualità di reddito nazionale, venti volte il patrimonio pubblico. Dopo essere stata, negli anni cinquanta, la nazione del capitalismo di Stato, la Francia è diventata la Terra promessa del nuovo capitalismo patrimoniale privato del XXI secolo.

Il cambiamento desta grande impressione proprio perché non è stato effettivamente programmato. Il processo di privatizzazione, di liberalizzazione dell’economia, di deregulation dei mercati finanziari e dei flussi di capitale – mutazione che a partire dagli anni ottanta interessa l’intero pianeta – ha origini molteplici e complesse. Il ricordo della grande depressione degli anni trenta e delle catastrofi che ne sono seguite si è affievolito. La stagflazione degli anni settanta ha rivelato i limiti dell’approccio keynesiano del dopoguerra. Con la fine della ricostruzione e della crescita travolgente dei Trente glorieuses, il processo di estensione indefinita della mano pubblica, ossia del ruolo dello Stato e dei prelievi obbligatori, che ha dominato il ventennio dal 1950 al 1970, viene di fatto rimesso in discussione. Il processo di deregulation ha inizio tra il 1979 e il 1980 con le “rivoluzioni conservatrici” negli Stati Uniti e nel Regno Unito, paesi che sopportano a stento di essere stati raggiunti dai paesi concorrenti (anche se il processo di riaggancio è stato perlopiù automatico, come abbiamo potuto vedere nel cap. 2). Al tempo stesso, il fallimento sempre più evidente dei modelli statalisti sovietico e cinese negli anni settanta, induce anche i due giganti comunisti ad adottare all’inizio degli anni ottanta un graduale processo di liberalizzazione del proprio sistema economico, con l’introduzione di nuove forme di proprietà privata delle imprese.

In questo quadro internazionale convergente gli elettori francesi manifestano nel 1981 un certo anticonformismo (è proprio vero che ciascun paese ha la sua storia e il suo calendario politico), eleggendo una nuova maggioranza social-comunista, il cui programma consiste in particolare nel portare avanti e ampliare il processo di nazionalizzazione dei settori bancari e industriali iniziato nel 1945. Si tratta però di un intermezzo di breve durata: nel 1986 una maggioranza liberale rilancia un clamoroso processo di privatizzazioni in tutti i settori, peraltro ripreso e ampliato tra il 1988 e il 1993 da una nuova maggioranza socialista. Nel 1990 la Renault diventa una società per azioni, mentre l’amministrazione delle Telecomunicazioni viene trasformata in France Télécom, il cui capitale viene quindi aperto ai privati tra il 1997 e il 1998. Nel quadro di una crescita rallentata, di una disoccupazione elevata e di forti deficit di bilancio, la vendita progressiva delle partecipazioni pubbliche dal 1990 al 2000 assicura ai successivi governi non poche entrate supplementari, anche se non rallenta la crescita costante dell’indebitamento pubblico. Il patrimonio pubblico netto scende infatti a livelli bassissimi. Per tutto il periodo, i patrimoni privati raggiungono a poco a poco i livelli degli anni precedenti le catastrofi del XX secolo. È così che la Francia, senza aver veramente capito il motivo di ciò che è successo, ha finito per trasformare completamente, in due riprese e in opposte direzioni, la struttura del patrimonio nazionale nel corso del secolo appena conclusosi.

1 Secondo le stime disponibili (in particolare quelle di King e Petty per il Regno Unito, e di Vauban e Boisguillebert per la Francia), gli immobili a uso agricolo e il bestiame rappresentavano nel XVIII secolo quasi la metà di quello che classifichiamo oggi come “altro capitale interno”. Se sottraessimo tali somme per concentrarci esclusivamente sull’industria e i servizi, la crescita degli altri capitali interni non agricoli apparirebbe non meno forte di quella delle abitazioni (o anche leggermente più forte).

2 L’operazione immobiliare di César Birotteau nel quartiere della Madeleine è un valido esempio.

3 Pensiamo alle fabbriche di pasta di papà Goriot, o alla profumeria di Birotteau.

4 Per tutte le serie di dati, in dettaglio, cfr. allegato tecnico.

5 Cfr. allegato tecnico.

6 Per le serie dei dati annuali relative alla bilancia commerciale e alla bilancia dei pagamenti del Regno Unito e della Francia, cfr. allegato tecnico.

7 A partire dagli anni cinquanta, le posizioni estere nette dei due paesi sono state quasi sempre in bilico tra il -10% e il +10% del reddito nazionale, vale a dire a un livello dieci-venti volte più basso rispetto a quello della belle époque. Le difficoltà legate alla stima delle posizioni estere nette nel mondo attuale (sulle quali torneremo più avanti) non possono in alcun modo mettere in discussione questo dato di fatto.

8 Più precisamente, per un reddito medio di 30.000 euro, il patrimonio medio del 1700 avrebbe dovuto essere dell’ordine di 210.000 euro (circa sette annualità di reddito, e non sei), di cui 150.000 euro in terreni agricoli (circa cinque annualità di reddito, se includiamo immobili rurali e bestiame), 30.000 euro in immobili residenziali e 30.000 euro in altri capitali interni.

9 Ancora, per un reddito medio di 30.000 euro, il patrimonio medio nel 1910 sarebbe stato dell’ordine di 210.000 euro (sette annualità di reddito), con altri capitali interni più vicini ai 90.000 euro (tre annualità di reddito) che ai 60.000 euro (due annualità). Tutte queste cifre sono volutamente semplificate e arrotondate. Per le cifre in dettaglio, cfr. allegato tecnico.

10 Più esattamente: nel Regno Unito gli attivi pubblici rappresentano il 93% del reddito nazionale, e il debito pubblico il 92%, con un patrimonio pubblico netto del +1%; in Francia il 145% per gli attivi pubblici, il 114% per il debito pubblico, con un patrimonio pubblico netto del + 31%. Per le serie dettagliate dei dati relative ai due paesi, cfr. allegato tecnico.

11 Cfr. F. Crouzet, La Grande Inflation. La monnaie en France de Louis XVI à Napoléon, Paris, Fayard, 1993.

12 Nel Regno Unito, sull’insieme del periodo tra il 1815 e il 1914, l’eccedenza primaria del bilancio è compresa tra due e tre punti del PIL, e finanzia con lo stesso importo gli interessi del debito (all’epoca, il bilancio totale per l’istruzione è inferiore a due punti del PIL). Per serie annuali dettagliate del debito pubblico primario e secondario, e per l’evoluzione del rendimento del debito pubblico in questo periodo, cfr. allegato tecnico.

13 Questi due trasferimenti spiegano in sostanza il rialzo del debito pubblico in Francia nel XIX secolo. Per gli importi e le fonti, cfr. allegato tecnico.

14 In Francia, tra il 1880 e il 1914, gli interessi del debito pubblico superano i livelli britannici. Per i dati dettagliati annuali del deficit pubblico nei due paesi, cfr. allegato tecnico.

15 I passi di Principles of Political Economy and Taxation (1817) che Ricardo dedica al problema non sono comunque del tutto limpidi. Sull’episodio, cfr. anche l’interessante analisi retrospettiva di G. Clark, “Debt, Deficits, and Crowding out: England, 1727-1840”, in European Review of Economic History, 2001.

16 Cfr. R. Barro, “Are Government Bonds Net Wealth?”, in Journal of Political Economy, 1974, e “Government Spending, Interest Rates, Prices, and Budget Deficits in the United Kingdom, 1701-1918”, in Journal of Monetary Economics, 1987.

17 Cfr. P. Samuelson, Economics, New York, McGraw-Hill, 1970, VIII ed., p. 831 (trad. it. a cura di M. Ferretti, Economia, Bologna, Zanichelli, 1993).

18 Cfr. C. Andrieu, L. Le Van, A. Prost, “Les nationalisations de la Libération: de l’utopie au compromise”, Paris, FNSP - Fondation nationale des sciences politiques, 1987, e Piketty, Les hauts revenus en France au XXe siècle, cit., pp. 137-138.

19 È illuminante rileggere le stime del capitale nazionale effettuate nel Regno Unito nel corso del XX secolo, e come la forma e l’ampiezza degli attivi e dei passivi si vanno completamente trasformando. Cfr. in particolare H. Campion, Public and Private Property in Great Britain, London, Oxford University Press, 1939; J. Revell, The Wealth of the Nation. The National Balance Sheet of the United Kingdom, 1957-1961, London, Cambridge University Press, 1967. Al tempo di Giffen (fine Ottocento) il problema non si poneva, tanto era evidente la superiorità del capitale privato. La stessa curva è ravvisabile in Francia, per esempio attraverso l’opera pubblicata nel 1956 da François Divisia, Jean Dupin e Roni Roy e non a caso intitolata À la recherche du franc perdu (Paris, Hommes et Mondes) il cui volume III, dedicato alla Fortune de la France, tenta non senza difficoltà di riprendere le fila delle stime effettuate da Colson studiando la belle époque.

Il capitale nel XXI secolo
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