La nozione di rendimento puro da capitale
Un altro motivo d’incertezza – che ci ha indotto a pensare che i tassi di rendimento medio indicati nei grafici 6.3 e 6.4 siano in qualche misura sovrastimati, e a indicare quindi, contestualmente, anche quelli che possiamo chiamare tassi di rendimento “puro” del capitale – deriva dal fatto che i bilanci nazionali non si curano di considerare la seguente realtà: l’investimento di un certo capitale richiede in genere un minimo di lavoro, o quantomeno di attenzione, da parte di chi lo detiene. Vanno dunque valutati i costi di gestione e d’intermediazione finanziaria “formale”, ossia i servizi di consulenza o di gestione del portafogli assicurati da una banca o da un istituto finanziario ufficiale, o anche da un’agenzia immobiliare o da una società di gestione di comproprietà – e si tratta di costi regolarmente dedotti dal calcolo dei redditi da capitale e dal tasso di rendimento medio (esattamente come abbiamo fatto qui). Ma non si può valutare allo stesso modo l’intermediazione finanziaria “informale”, ossia quell’attività per cui ciascuno può passare del tempo – a volte molto tempo – a gestire personalmente il proprio portafoglio di investimenti e i propri affari, e a determinare quali siano gli investimenti più vantaggiosi. Questa attività può essere assimilata, in certi casi, a un vero e proprio lavoro imprenditoriale, o quantomeno al lavoro dell’“uomo d’affari”.
È ovviamente molto difficile – e in parte arbitrario – calcolare con precisione il valore di tale lavoro informale, e si spiega come esso finisca per essere tralasciato nella stesura dei bilanci nazionali. In teoria bisognerebbe misurare il tempo impiegato e attribuirgli un valore orario, equivalente al valore formale calcolato nei settori formali finanziari o immobiliari. Si potrebbe anche immaginare che tali costi informali siano maggiori nei periodi di maggior crescita economica (o di inflazione elevata), essendo periodi che richiedono redistribuzioni più frequenti del proprio portafoglio e più tempo per cercare le migliori opportunità d’investimento, rispetto ai periodi di quasi stagnazione economica. Per esempio, è difficile considerare i rendimenti medi del 10% osservati in Francia – e a un grado leggermente inferiore nel Regno Unito – durante i periodi della ricostruzione dei due paesi seguiti a ciascuna delle due guerre mondiali (livelli simili si possono riscontrare anche nei paesi emergenti di oggi, e in fortissima crescita, come in Cina) come un rendimento puro da capitale. È probabile che rendimenti del genere includano una parte non trascurabile di guadagno di lavoro informale, del tipo imprenditoriale.
A titolo illustrativo, abbiamo indicato nei grafici 6.3 e 6.4, per il Regno Unito e la Francia, le stime del rendimento puro da capitale nelle diverse epoche, ottenute deducendo dal rendimento medio osservato una stima plausibile – anche se forse un po’ troppo alta – dei costi informali di gestione (vale a dire il valore del tempo di lavoro passato a gestire il proprio patrimonio). I tassi di rendimento puro così ottenuti sono perlopiù di 1 o 2 punti più bassi dei tassi medi osservati, e devono in ogni caso essere considerati valori minimi.5 In particolare, i dati disponibili sui tassi di rendimento effettivamente ottenuti per livello di ricchezza, e che esamineremo nella Parte terza, fanno pensare che esistano importanti economie di scala nella gestione dei patrimoni, e che il rendimento puro ottenuto dai maggiori patrimoni sia sensibilmente più elevato dei livelli qui indicati.6