Una soluzione semplice: le comunicazioni automatiche delle informazioni bancarie

Oggi l’obiettivo è estendere la comunicazione automatica delle informazioni bancarie a livello internazionale, in modo da riuscire a includere nelle dichiarazioni precompilate gli attivi detenuti nelle banche situate all’estero. È importante capire che la cosa non comporta alcuna difficoltà tecnica. Dato che una tale comunicazione automatica avviene già, tra banche e amministrazione fiscale a livello di un paese di 300 milioni di abitanti come gli Stati Uniti, o in paesi di 60 milioni o 80 milioni quali sono rispettivamente la Francia e la Germania, si può ben comprendere che il fatto di aggiungere le banche con sede nelle Isole Cayman o in Svizzera nel sistema non modifichi radicalmente il volume delle informazioni da trattare. Tra i tanti alibi abitualmente avanzati dai paradisi fiscali per preservare il segreto bancario e non trasmettere queste informazioni per via automatica, si trova spesso l’idea secondo cui i governi interessati potrebbero fare un cattivo uso delle informazioni richieste. Argomento ben poco convincente: non è chiaro, allora, perché non lo si dovrebbe applicare alle informazioni bancarie delle persone che hanno avuto la cattiva idea di aprire un conto nel proprio paese. La ragione più plausibile per la quale i paradisi fiscali difendono il segreto bancario sta nel fatto che da una parte l’accorgimento sottrae i loro clienti dagli obblighi fiscali, dall’altra permette a loro stessi di prelevare una parte del beneficio corrispondente. Il problema, evidentemente, è che una tale condotta non ha niente a che vedere con i principi dell’economia di mercato. Il diritto di fissarsi da soli il tasso d’imposta non esiste. Non ci si può arricchire con il libero scambio e l’integrazione economica con i propri vicini, per poi eluderne l’imposizione fiscale in totale impunità. È una cosa che equivale al furto bello e buono.

Il tentativo finora più avanzato per porre fine a questo sistema è la legge americana denominata FACTA (Foreign Account Tax Compliance Act), adottata nel 2010 e in procinto di entrare in vigore gradualmente tra il 2014 e il 2015: una legge che impone a tutte le banche estere la trasmissione al fisco americano di tutte le informazioni sui conti, gli investimenti e i redditi detenuti e percepiti dai contribuenti americani nel resto del mondo. Si tratta di un testo ben più ambizioso della direttiva europea del 2003 sui redditi da risparmio, la quale in primo luogo riguarda solo i depositi bancari e gli investimenti remunerati sotto forma di interessi (sono esclusi tutti i titoli diversi dalle obbligazioni, il che è deplorevole, poiché i patrimoni importanti prevedono perlopiù portafogli azionari, un tipo di investimento che invece rientra pienamente nei termini della legge FACTA) e in secondo luogo riguarda solo i paesi europei e non l’intero pianeta (diversamente di nuovo dalla legge FACTA). Questa incerta direttiva europea, pressoché ininfluente, non viene sempre applicata: per esempio, malgrado le molteplici discussioni e le molte proposte di emendamento avanzate dopo il periodo 2008-9, il Lussemburgo e l’Austria hanno regolarmente ottenuto dagli altri paesi dell’Unione Europea il prolungamento di un regime in deroga che consente loro di evitare le trasmissioni automatiche e di essere vincolati all’obbligo di trasmissione solo su motivata richiesta. Il regime in deroga, che continua a essere applicato alla Svizzera e agli altri paesi europei fuori dall’UE9, prevede in pratica che, per poter ottenere la trasmissione delle informazioni bancarie relative al cittadino, si debba già disporre di prove quasi definite in merito a una eventuale frode fiscale dello stesso: una condizione che, ovviamente, limita in misura drastica le possibilità di controllo e di accertamento della frode stessa. Nel corso del 2013, dopo che il Lussemburgo e la Svizzera hanno annunciato l’intenzione di conformarsi ai dettami dalla legge americana, in Europa sono ripresi i dibattiti per integrare in tutto o in parte le disposizioni americane nel quadro di una nuova direttiva europea. Al momento, non è possibile prevedere l’esito del confronto in corso su un testo che abbia forza di legge né ipotizzare quale sarà il contenuto preciso del medesimo.

È solo possibile notare come esista, in questo campo, un abisso tra le dichiarazioni trionfalistiche dei responsabili politici e la realtà effettuale, fatto quanto mai preoccupante per l’equilibrio delle nostre società democratiche. È impressionante constatare come i paesi che dipendono in maggior misura da entrate fiscali cospicue per poter finanziare il proprio stato sociale, cioè i paesi europei, siano anche quelli che si adoperano di meno per arrivare a una soluzione concreta del problema, soluzione molto semplice dal punto di vista tecnico. Ecco una conferma di quale dramma stiano vivendo i piccoli paesi in tempi di globalizzazione. Gli stati-nazione costruiti nel corso di secoli e secoli non hanno oggi la dimensione adeguata per produrre e applicare regole efficaci nel quadro del capitalismo patrimoniale globalizzato del XXI secolo. I paesi europei sono riusciti a raggiungere un’unità d’intenti per adottare una moneta unica (nel cap. 16 torneremo sulla portata e i limiti dell’unificazione monetaria), ma non hanno prodotto quasi nulla in materia fiscale. I responsabili dei paesi più importanti della UE – i quali sono pertanto i primi responsabili del fallimento in corso e del divario tra i loro discorsi e le loro azioni – cercano una copertura invocando la responsabilità degli altri paesi e delle istituzioni europee. E nulla lascia presagire che le cose possano cambiare nei prossimi anni.

Va peraltro sottolineato che la legge FACTA, per quanto sia ben più ambiziosa delle direttive europee, è a sua volta palesemente insufficiente. In primo luogo, la sua stesura è poco precisa e sistematica, per cui c’è da scommettere che certi attivi finanziari, in particolare quelli detenuti tramite i trust funds e le fondazioni, riusciranno a sfuggire in tutta legalità all’obbligo di trasmissione automatica delle informazioni. In secondo luogo, le sanzioni previste – una tassa addizionale del 30% sui redditi che le banche recalcitranti potrebbero ricavare dai loro attivi americani – sono inadeguate. Serviranno forse a convincere quelle banche che non possono non essere operative sul territorio americano a rispettare la legge (come le maggiori banche svizzere e lussemburghesi), ma daranno sicuramente luogo a una proliferazione di piccoli istituti bancari specializzati nella gestione di portafogli esteri e che non realizzeranno il benché minimo investimento negli Stati Uniti. Per cui strutture del genere, con sede in Svizzera, in Lussemburgo, a Londra o in zone più esotiche, potranno tranquillamente continuare a gestire attivi detenuti da contribuenti americani (o, domani, europei) senza trasmettere la minima informazione e senza subire la minima sanzione.

È probabile che l’unico modo di ottenere risultati tangibili sia quello di comminare sanzioni automatiche non soltanto alle banche ma anche ai paesi che rifiutino di inserire nella propria legislazione l’obbligo di trasmissione automatica a tutti gli istituti operanti sul territorio. Si può pensare, per esempio, a sanzioni dell’ordine del 30% dei diritti doganali per i paesi interessati, o anche a sanzioni maggiori, se necessario. Ma le cose devono essere ben chiare: l’obiettivo non è quello di arrivare a un embargo generalizzato che colpisca i paradisi fiscali, o a una guerra commerciale senza fine con la Svizzera e il Lussemburgo. Il protezionismo non è, di per sé, una fonte di ricchezza, e fondamentalmente tutti traggono vantaggio dal libero scambio e dall’apertura economica. A patto, tuttavia, che certi paesi non ne approfittino per eludere le procedure fiscali dei paesi vicini. Gli accordi sul libero scambio e sulla liberalizzazione dei movimenti di capitale negoziati dopo gli anni settanta e ottanta del secolo scorso avrebbero dovuto imporre nell’immediato lo scambio automatico e sistematico delle informazioni bancarie. Invece non lo hanno fatto. Il che non è un buon motivo per arrendersi definitivamente allo stato delle cose. Per paesi che devono in parte il loro tenore di vita all’opacità finanziaria, si tratta certo di un processo difficile da accettare. Si tratta infatti di paesi e zone franche che hanno sviluppato, accanto ad attività bancarie illecite (o quantomeno attività che sarebbero oltremodo ostacolate da una trasmissione automatica delle informazioni), dei veri servizi finanziari rispondenti ai bisogni dell’economia reale internazionale, e che perciò continueranno a esistere, qualunque cosa succeda. In ogni caso, questi paesi, qualora venisse applicato un regime di trasparenza finanziaria generalizzata, non potrebbero non subire una diminuzione rilevante del loro tenore di vita.10 Ed è poco probabile che lo accettino se le sanzioni non verranno adottate, tanto più che gli altri paesi – soprattutto i paesi più popolosi dell’UE – non hanno, per il momento, granché brillato per determinazione e coerenza, su tali questioni: da qui, la loro limitata credibilità. Inoltre, non sarà inutile ricordare che l’intera costruzione europea si è basata, finora, sulla convinzione che si possa ottenere il mercato unico e la libera circolazione dei capitali senza concedere niente in cambio (o quasi). È quindi necessario, per non dire indispensabile, un mutamento di rotta, ma sarebbe ingenuo pensare che tutto possa verificarsi senza scosse. La legge FACTA ha avuto almeno il merito di sviluppare il dibattito in termini di sanzioni concrete e di andare oltre i soliti inutili discorsi altisonanti. L’unica soluzione, insomma, è inasprire i termini delle sanzioni, cosa non da poco, soprattutto in Europa.

Si noterà infine che l’obiettivo della legge FACTA come delle direttive europee non è, al momento, quello di imporre dichiarazioni precompilate e di prelevare un’imposta progressiva sul patrimonio globale. L’obiettivo è prima di tutto arrivare a stabilire una lista degli attivi posseduti da ciascuno: per rispondere alle esigenze interne dell’amministrazione fiscale, in particolare al fine di reperire le coperture alle eventuali carenze nelle dichiarazioni dei redditi. Le informazioni raccolte verranno inoltre utilizzate per identificare eventuali omissioni in merito alla fiscalità patrimoniale (per esempio per l’imposta sulle successioni, o anche per l’imposta sul patrimonio globale per i paesi interessati), anche se i controlli effettuati riguardano in primo luogo la fiscalità dei redditi. Si può vedere, in ogni caso, come questi differenti aspetti siano strettamente legati, e come la trasparenza finanziaria internazionale sia una questione centrale per il complesso dello Stato fiscale moderno.

Il capitale nel XXI secolo
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