Le criticità legate alle fasce temporali

In generale, quando si studia la dinamica della distribuzione delle ricchezze, è essenziale distinguere più fasce temporali. Ecco perché, qui privilegiamo le traiettorie di lungo periodo e i processi di fondo. Si tratta insomma di traiettorie valutabili soltanto nell’arco di trenta-quarant’anni, o anche più, come dimostra il ciclo di crescita strutturale del rapporto capitale/reddito in atto in Europa dopo la seconda guerra mondiale, un processo che si sta sviluppando da quasi settant’anni e che, fino a dieci o vent’anni fa, sarebbe stato impossibile prevedere sulla base della semplice sovrapposizione di indicatori diversi (oltre che per mancanza di dati disponibili). Ma questa focalizzazione sul lungo periodo non deve farci dimenticare che, al di là delle tendenze di lunga durata, continuano a esistere processi più brevi, che finiscono sì per compensarsi, ma che per gli attori che li vivono dall’interno costituiscono la realtà più tangibile del periodo. Il che è tanto più vero nella misura in cui i processi cosiddetti “brevi” possono a volte durare abbastanza a lungo – dieci-quindici anni o più – e quindi assumere un ruolo importante nell’arco di una vita umana.

La storia delle disuguaglianze, in Francia come negli altri paesi, è piena di questi processi di breve e medio termine, e non è solo esclusiva di un periodo molto caotico come quello tra le due guerre. Esaminiamone gli episodi più importanti. Durante ciascuna delle guerre mondiali, assistiamo a fenomeni di compressione delle gerarchie salariali, seguiti in ciascun dopoguerra (negli anni venti, poi alla fine degli anni quaranta e negli anni cinquanta-sessanta) da movimenti di ripresa e di allargamento delle disuguaglianze salariali. Si tratta di processi di grande ampiezza – il 10% meglio pagato scende di circa 5 punti nel corso di ciascuno dei due conflitti, per poi recuperare (cfr. grafico 8.1)19 – osservabili sia nelle griglie salariali della funzione pubblica sia nel settore privato, e ogni volta nel modo seguente: durante le guerre l’attività economica crolla, l’inflazione aumenta, i salari reali e il potere d’acquisto cominciano a diminuire, mentre i salari più bassi tendono in genere a rivalutarsi e a essere maggiormente al riparo dall’inflazione rispetto ai salari più elevati – il che, nel caso di un’inflazione elevata, può produrre cambiamenti significativi nella distribuzione della massa salariale. La migliore indicizzazione dei bassi e medi salari si spiega anche con l’aumentata percezione di una maggiore giustizia sociale e di norme di maggiore equità per la massa dei salariati: si cerca di evitare un calo eccessivo del potere d’acquisto per i ceti più modesti, e si chiede ai ceti più agiati di attendere la fine del conflitto prima di ottenere a loro volta una rivalutazione completa. Tutto questo influisce certo sulla composizione delle griglie salariali sia dei funzionari pubblici sia del settore privato. Si può persino pensare che la chiamata alle armi – o la deportazione nei campi di prigionia – di una quota consistente della manodopera giovanile e poco qualificata contribuisca a migliorare, durante i conflitti, la posizione relativa dei bassi e medi salari sul mercato del lavoro.

In ogni caso, questi processi di compressione delle disuguaglianze salariali sono stati annullati in entrambi i dopoguerra, e potremmo dunque essere tentati di ignorarli del tutto. Tuttavia, per le persone che hanno vissuto i due periodi, è evidente che si è trattato di episodi di grande rilievo. In particolare, la questione del rialzo della gerarchia dei salari, sia per il settore pubblico sia per il settore privato, ha fatto parte in entrambi i casi dei dossier politici, sociali ed economici più scottanti dei rispettivi dopoguerra.

Se ora andiamo a esaminare la storia delle disuguaglianze nella Francia del periodo 1945-2010, possiamo nettamente distinguere tre fasi: le disuguaglianze di reddito crescono con forza dal 1945 al 1966-67 (la quota del decile superiore passa da meno del 30% del reddito nazionale a circa il 36-37%); poi diminuiscono con uguale forza dal 1968 al 1982-83 (la quota del decile superiore ridiscende al 30%); e infine riprendono ad aumentare costantemente dopo il 1983, fino a che la quota del decile superiore arriva a toccare circa il 33% nel primo decennio del XXI secolo (cfr. grafico 8.1). Le stesse inflessioni si ritrovano più o meno al livello del centile superiore e delle disuguaglianze salariali (cfr. grafici 8.2 e 8.3). Anche in questo caso, le differenti fasi tendono relativamente a compensarsi, e torna la tentazione di ignorarle e di concentrarsi sulla relativa stabilità a lungo termine propria del periodo 1945-2010. In effetti, se ci occupiamo solo delle traiettorie di lungo periodo, il fenomeno più rilevante nella Francia del XX secolo risulta essere la forte compressione delle disuguaglianze di reddito tra il 1914 e il 1945, e, con essa, la relativa stabilità successiva. In realtà, ciascun punto di vista ha la sua legittimità e la sua importanza, e ci sembra essenziale arrivare a considerare congiuntamente le differenti fasce temporali: il lungo termine da una parte, il breve e medio termine dall’altra. Abbiamo già affrontato questo punto quando abbiamo studiato lo sviluppo del rapporto capitale/reddito e della divisione capitale-lavoro nella Parte seconda (cfr. in particolare cap. 6).

È ora interessante notare come i processi di divisione capitale-lavoro e della disuguaglianza all’interno dei redditi da lavoro tendano a svilupparsi nello stesso senso e a rafforzarsi l’un l’altro nel breve e medio termine, ma non necessariamente sul lungo periodo. Per esempio, ciascuna guerra mondiale si caratterizza sia per un forte calo della quota del capitale nella composizione del reddito nazionale (e del rapporto capitale/reddito) sia per una compressione delle disuguaglianze salariali. In genere, la disuguaglianza tende cioè a seguire una traiettoria “prociclica” (cioè a procedere nello stesso senso del ciclo economico, al contrario delle traiettorie “controcicliche”): nelle fasi di boom economico, la quota dei profitti nella composizione del reddito nazionale tende ad aumentare, e i salari alti – indennità e bonus compresi – aumentano spesso più in fretta dei salari bassi e medi; mentre succede il contrario nelle fasi di rallentamento o di recessione (di cui le guerre possono essere viste come la versione estrema). Esiste insomma tutto un insieme di fattori, soprattutto politici, che fanno sì che le traiettorie non dipendano soltanto dal ciclo economico.

Il forte aumento delle disuguaglianze in Francia tra il 1945 e il 1967 coniuga da un lato un sensibile aumento della quota di capitale nella composizione del reddito nazionale, e dall’altro sensibili disuguaglianze salariali, il tutto in un contesto di forte crescita economica. Anche il clima politico svolge un ruolo importante: il paese è completamente concentrato sulla ricostruzione, e la priorità non è certo la diminuzione delle disuguaglianze, anche perché ciascun cittadino si rende benissimo conto che le disuguaglianze sono assai diminuite in conseguenza delle guerre. Negli anni cinquanta-sessanta i salari dei dirigenti, degli ingegneri e di altro personale qualificato crescono in termini strutturali molto più in fretta dei salari bassi e medi, e in un primo tempo nessuno sembra farci troppo caso. Nel 1950 viene sì fissato un salario minimo nazionale, ma non viene quasi mai rivalutato nel decennio successivo, per cui il suo divario rispetto all’aumento del salario medio cresce di continuo.

La vera crepa nel sistema si produce solo nel 1968. Il movimento del Maggio 1968, radicato nel mondo studentesco, intellettuale e sociale, ha evidentemente una portata che va molto oltre la questione dei salari (anche se vi svolge un ruolo considerevole il disagio nei confronti del modello di crescita produttivistica e disuguale degli anni cinquanta-sessanta). Eppure il suo sbocco politico più immediato è proprio di ordine salariale: per uscire dalla crisi, il governo del generale de Gaulle firma gli accordi di Grenelle, che prevedono in particolare un rialzo del 20% del salario minimo. Nel 1970 il salario minimo verrà ufficialmente indicizzato, anche se in misura parziale, sul salario medio, e – quel che più conta – tutti i successivi governi, dal 1968 al 1983, si sentiranno in dovere di varare ogni anno “ritocchi” anche molto forti, in un clima politico e sociale in piena ebollizione. Per cui il potere d’acquisto del salario minimo cresce in totale, tra il 1968 e il 1983, di oltre il 130%, mentre negli stessi anni il salario medio cresce solo di circa il 50%: da qui, la forte compressione delle disuguaglianze salariali. Il distacco rispetto al periodo precedente è netto e massiccio: tra il 1950 e il 1968 il potere d’acquisto del salario minimo era cresciuto di appena il 25%, mentre il salario medio era più che raddoppiato.20 Trascinata dal forte rialzo dei salari bassi, negli anni 1968-83 la massa salariale nel suo insieme aumenta molto più in fretta del prodotto: da qui, il notevole calo della quota del capitale nella composizione del reddito nazionale studiata nella Parte seconda e la compressione assai forte delle disuguaglianze di reddito.

Nel 1982-83 il ciclo torna di nuovo a rovesciarsi. Il nuovo governo socialista uscito vittorioso dalle elezioni del maggio 1981 sarebbe sì favorevole alla continuazione del processo in corso, ma non è semplice, obiettivamente, far crescere in modo stabile il salario minimo oltre due volte più in fretta del salario medio (soprattutto quando il salario medio cresce a sua volta più in fretta del prodotto). Per cui il governo decide, nel 1982-83, di varare quella che all’epoca viene chiamata la “svolta del rigore”: i salari vengono bloccati e la politica dei massicci “ritocchi” al salario minimo viene definitivamente abbandonata. E i risultati non si fanno attendere: la quota dei profitti nel prodotto nazionale risale a razzo per tutti gli anni ottanta, le disuguaglianze salariali riprendono ad aumentare e ancor più le disuguaglianze di reddito (cfr. grafici 8.1 e 8.2). Si tratta di un’altra frattura epocale, non meno netta di quella del 1968, ma di segno opposto.

Il capitale nel XXI secolo
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