PARTE TERZA
IL PROFITTO TEORICO

Capitolo 8
L’apparato psichico e il mondo esterno

Le cognizioni e le ipotesi generali da noi illustrate nel nostro primo capitolo sono state acquisite anch’esse, com’è naturale, con un paziente e faticoso lavoro di dettaglio, analogo a quello di cui nell’ultimo capitolo abbiamo dato un esempio. Può essere allettante per noi tentare adesso di riconoscere in generale quale arricchimento delle nostre conoscenze siamo riusciti a conseguire grazie a questo lavoro e quali prospettive di progressi ulteriori siamo riusciti ad aprire. In relazione a ciò ci sia consentito rimarcare che più e più volte siamo stati costretti ad arrischiare i nostri passi oltre le frontiere della scienza psicologica. I fenomeni di cui ci occupiamo non appartengono soltanto alla psicologia, hanno anche un aspetto organico-biologico; pertanto, nel corso delle nostre fatiche per edificare la psicoanalisi, abbiamo fatto anche alcune importanti scoperte biologiche e non abbiamo potuto evitare la formulazione di nuove ipotesi biologiche.

Ma fermiamoci prima di tutto alla psicologia: abbiamo riconosciuto che la linea di demarcazione tra normalità e anormalità psichica non può essere tracciata in base a criteri scientifici, cosicché a questa distinzione, nonostante la sua importanza pratica, spetta soltanto un valore convenzionale. Su questo ci siamo fondati per rivendicare il nostro buon diritto di intendere la vita psichica normale partendo dai suoi disturbi, conclusione alla quale non saremmo autorizzati se questi stati morbosi – le nevrosi e le psicosi – avessero delle cause specifiche agenti alla stregua di corpi estranei.

Lo studio di un disturbo psichico che occorre durante il sonno, un disturbo temporaneo, innocuo, che addirittura svolge una funzione non priva di utilità, ci ha consegnato la chiave per comprendere le malattie psichiche permanenti e nocive alla vita. E a questo punto osiamo affermare che la psicologia della coscienza non era dotata di capacità migliori per comprendere la funzione psichica normale di quanto lo fosse per comprendere il sogno. I dati dell’autopercezione cosciente, che erano i soli di cui disponesse, rivelarono per ogni dove la loro inadeguatezza a penetrare la dovizia e la complicazione dei processi psichici, a scoprire le connessioni tra essi esistenti, nonché le condizioni per l’insorgenza dei loro disturbi.

La nostra ipotesi di un apparato psichico spazialmente esteso, composto di più parti rispondenti a un fine, sviluppatosi dalle esigenze della vita, un apparato il quale solo in certi punti e a certe condizioni dà origine al fenomeno della coscienza, tale ipotesi ci ha messo nelle condizioni di poter edificare la psicologia su un fondamento analogo a quello di qualsiasi altra scienza della natura, come per esempio la fisica. Qui come là il compito consiste nello scoprire dietro le proprietà (o qualità) dell’oggetto dell’indagine che immediatamente si offrono alla nostra percezione, qualche altra cosa, qualcosa che sia più indipendente dalla particolare capacità ricettiva dei nostri organi di senso e più si avvicini a quella che riteniamo essere la vera realtà delle cose. La realtà stessa non speriamo neppure di poterla attingere, giacché vediamo che ogni nuova acquisizione dobbiamo comunque ritradurla nel linguaggio delle nostre percezioni, di cui invero non riusciamo mai a liberarci. Ma sta appunto in ciò la natura e la limitatezza della nostra scienza. È come se in fisica dicessimo: qualora ci vedessimo meglio di quanto ci vediamo, scopriremmo che il corpo – solido in apparenza – è fatto di tante particelle di una certa forma, grandezza e posizione reciproca. Possiamo provare nel frattempo ad accrescere al massimo le possibilità di prestazione dei nostri organi di senso con mezzi artificiali; comunque ci si può aspettare che tutti questi sforzi non cambieranno il risultato finale. Il reale rimarrà per sempre “inconoscibile”. Il profitto che si può sperare di ottenere lavorando scientificamente sulle nostre percezioni sensoriali primarie consisterà nella penetrazione di nessi e interdipendenze che, essendo presenti nel mondo esterno, possono essere riprodotti o riflessi nel mondo interno del nostro pensiero in modo più o meno attendibile; inoltre, la conoscenza di questi nessi ci metterà in condizione di “capire” qualcosa del mondo esterno, di prevederlo e magari di modificarlo. In maniera del tutto analoga procediamo in psicoanalisi. Abbiamo trovato i mezzi tecnici per colmare le lacune dei fenomeni della nostra coscienza, e di essi ci serviamo quindi come il fisico si serve dell’esperimento. Deduciamo per questa via un buon numero di processi che di per sé sono inconoscibili, li interpoliamo a quelli per noi consci e quando per esempio diciamo: “Qui è intervenuto un ricordo inconscio”, ciò significa appunto: “A questo punto è capitato qualcosa che per noi è assolutamente inconcepibile, e che però, se fosse penetrato nella nostra coscienza, avrebbe potuto esser descritto soltanto così e così.”

Il fondamento e il grado di certezza con cui traiamo le nostre conclusioni ed eseguiamo le interpolazioni succitate è naturalmente soggetto volta a volta alla critica, né si può contestare che la decisione presenti sovente notevolissime difficoltà, le quali si esprimono nel mancato accordo tra psicoanalisti. Tutto ciò è dovuto alla novità del compito (dunque alla mancanza di preparazione), ma anche a un elemento particolare insito nell’oggetto, giacché in psicologia non ci si occupa sempre, come in fisica, di cose che possono destare soltanto un freddo interesse scientifico. Così non ci meraviglieremo troppo se una donna analista, che non è stata sufficientemente persuasa dell’intensità del suo desiderio del pene, non terrà conto di questo fattore nella maniera dovuta neppure con le sue pazienti. Ma queste fonti di errore, derivanti dall’equazione personale, non hanno in definitiva una grande importanza. Leggendo dei vecchi manuali di microscopia, costatiamo con stupore quante straordinarie pretese fossero poste allora, quando la tecnica era ancora recente, alla personalità di colui che si accingeva a osservare con quello strumento; oggi di tutto questo non si parla più.

Non possiamo porci l’obiettivo di dare qui un’immagine completa dell’apparato psichico e delle sue attività; ce lo impedirebbe fra l’altro il fatto che la psicoanalisi non ha ancora avuto il tempo di studiare tutte le funzioni con lo stesso grado di approfondimento. Ci accontenteremo perciò di ricapitolare esaurientemente ciò che abbiamo detto nel capitolo introduttivo. Il nocciolo del nostro essere è dunque formato dall’Es oscuro, il quale non tratta direttamente con il mondo esterno e anche alla nostra conoscenza diventa accessibile soltanto grazie alla mediazione di un’altra istanza. In questo Es sono all’opera le pulsioni organiche, le quali sono composte a loro volta da miscele variamente proporzionate di due forze originarie (Eros e distruzione) e si differenziano le une dalle altre per il loro rapporto con gli organi o i sistemi organici. Queste pulsioni mirano a una cosa sola: al soddisfacimento che ci si attende da determinate alterazioni organiche con l’aiuto di oggetti del mondo esterno. Ma il soddisfacimento pulsionale immediato e senza riguardi per nulla e per nessuno, così come l’Es lo pretende, porterebbe con una certa frequenza alla rovina, nonché a pericolosi conflitti con il mondo esterno. L’Es non conosce preoccupazioni intese ad assicurare la sopravvivenza, non conosce l’angoscia, o meglio può sviluppare gli elementi sensitivi dell’angoscia, ma non sa utilizzarla. I processi che sono possibili nei e tra i supposti elementi psichici dell’Es (il processo primario) si differenziano moltissimo da quelli che conosciamo nella nostra vita intellettuale ed emotiva grazie alla percezione cosciente, né valgono per essi le restrizioni critiche della logica, la quale ne ripudia e ne vuole annullare un certo numero che ritiene inammissibili.

L’Es, tagliato fuori dal mondo esterno, ha il suo proprio mondo di percezioni. Esso avverte con straordinaria acutezza certe alterazioni del proprio interno, particolarmente le oscillazioni delle tensioni pulsionali dovute al bisogno, che si fanno coscienti sotto forma di sensazioni della serie piacere-dispiacere. Com’è naturale, è difficile indicare per quali vie e con l’aiuto di quali organi terminali sensibili si effettuino tali percezioni. Una cosa però è certa: le autopercezioni (i sentimenti in genere e le sensazioni di piacere e di dispiacere) governano con dispotica violenza i decorsi dell’Es. L’Es ubbidisce all’inesorabile principio di piacere. Ma non l’Es soltanto. Sembra che anche l’attività delle altre istanze psichiche possa sì modificare il principio di piacere, ma non revocarlo; e resta un interrogativo altamente significativo dal punto di vista teorico, e finora rimasto senza risposta, come e quando si riesca in generale a superare il principio di piacere. La considerazione che il principio di piacere esige una riduzione – e forse in definitiva l’estinzione – delle tensioni dovute ai bisogni (il Nirvana), ci rinvia alle relazioni non ancora indagate a dovere tra il principio di piacere e le due forze originarie, l’Eros e la pulsione di morte.

L’altra istanza psichica, quella che reputiamo di conoscere meglio e nella quale più che in ogni altra ci riconosciamo, il cosiddetto Io, si è sviluppata dallo strato corticale dell’Es; tale strato munito com’è dei dispositivi per la ricezione e l’allontanamento degli stimoli, è in diretto contatto con il mondo esterno (la realtà). Partendo dalla percezione cosciente l’Io ha assoggettato al proprio influsso regioni sempre più vaste e strati sempre più profondi dell’Es, e rivela nella sua persistente dipendenza dal mondo esterno il sigillo indelebile della sua provenienza (più o meno come il Made in Germany585). La sua prestazione psicologica consiste nell’elevare a un livello dinamico più alto i processi dell’Es (per esempio trasformando dell’energia liberamente mobile in energia legata, quale corrisponde allo stato preconscio); la sua prestazione costruttiva consiste nell’interpolare, fra la pretesa pulsionale e l’azione di soddisfacimento, l’attività di pensiero; quest’ultima, dopo essersi orientata nel presente e aver utilizzato le esperienze del passato, si sforza, procedendo per prove ed errori, di indovinare le conseguenze delle iniziative progettate. L’Io decide in questo modo se il tentativo di raggiungere il soddisfacimento debba essere compiuto o rinviato, oppure se la pretesa avanzata dalla pulsione debba essere repressa del tutto in quanto pericolosa (è questo il principio di realtà). Così come l’Es è esclusivamente orientato al conseguimento del piacere, l’Io è dominato da problemi di sicurezza. L’Io si è posto il compito dell’autoconservazione, compito che l’Es sembra invece trascurare. L’Io si serve delle sensazioni di angoscia come di segnali che annunziano pericoli minacciosamente incombenti sulla sua integrità. E poiché le tracce mnestiche possono anch’esse diventare coscienti come le percezioni, soprattutto per il loro collegamento con i residui linguistici, è data qui la possibilità di un equivoco che potrebbe dar luogo al disconoscimento della realtà. Da ciò l’Io si difende instaurando quell’esame di realtà che nel sogno – date le condizioni dello stato di sonno – può venir meno. L’Io, che vuole affermarsi in un ambiente di strapotenti forze meccaniche, è minacciato da una serie di pericoli, provenienti innanzitutto dalla realtà esterna, ma non solo da essa. Il proprio Es è una fonte di pericoli analoghi, e ciò per due diversi motivi. Innanzitutto intensità pulsionali eccessive possono danneggiare l’Io in modo simile agli “stimoli” troppo grandi del mondo esterno. Esse, pur non potendo annientare l’Io, possono però distruggerne l’organizzazione dinamica, ritrasformando l’Io in una parte dell’Es. In secondo luogo, l’esperienza può aver insegnato all’Io che il soddisfacimento di una pretesa pulsionale in sé non intollerabile comporterebbe dei pericoli nel mondo esterno, talché quel tipo di richiesta diventa un pericolo per sé stessa. L’Io combatte dunque su due fronti, deve difendere la propria esistenza contro un mondo esterno che lo minaccia di annientamento e contro un mondo interno troppo esigente. Adopera contro entrambi gli stessi metodi di difesa, che si rivelano però particolarmente inadeguati contro il nemico interno. In ragione dell’identità originaria e dell’intima convivenza che ad essa è seguita, raramente l’Io riesce a sfuggire ai pericoli interni. Questi ultimi permangono come minacce incombenti, anche se per un certo periodo si è riusciti a tenerli a bada.

Abbiamo udito che l’Io debole e incompiuto del periodo infantile viene perennemente danneggiato dagli sforzi cui ha dovuto sottoporsi per difendersi dai peculiari pericoli che caratterizzano quest’epoca dell’esistenza. Contro i pericoli che lo minacciano dal mondo esterno il bambino si sente protetto dalle cure sollecite dei suoi genitori; il prezzo che deve pagare per questa sicurezza è l’angoscia della perdita d’amore, che lo esporrebbe inerme ai pericoli del mondo esterno. Questo elemento imprime il suo decisivo influsso sull’esito del conflitto, quando il bambino entra nella situazione del complesso edipico, nella quale la minaccia inflitta al suo narcisismo, minaccia dell’evirazione rafforzata da fonti antichissime, si impadronisce di lui. Indotto dall’azione congiunta di due fattori (il pericolo attuale e reale e quello ricordato e fondato filogeneticamente), il bambino attua i suoi tentativi di difesa – rimozioni – i quali, utili al momento, si rivelano però psicologicamente inadeguati allorché la successiva reviviscenza della vita sessuale rafforza le pretese pulsionali a suo tempo ripudiate. Il punto di vista biologico dovrà poi spiegare come l’Io fallisca nel compito di padroneggiare gli eccitamenti della prima età sessuale in quanto ancora incompiuto e incapace di farvi fronte. In questo rimanere indietro dell’evoluzione dell’Io rispetto all’evoluzione della libido riconosciamo la condizione essenziale della nevrosi e non possiamo fare a meno di concludere che la nevrosi potrebbe essere evitata se all’Io del bambino fosse risparmiato questo compito e se, dunque, si consentisse alla vita sessuale infantile di sfogarsi liberamente, così com’è in uso in molte popolazioni primitive. Probabilmente l’etiologia delle malattie nevrotiche è più complicata di quanto risulta dalla nostra esposizione; se è così possiamo dire almeno di aver messo in luce un tratto essenziale dell’intrico etiologico. Non dovremmo neppure dimenticare gli influssi filogenetici che in un modo o nell’altro sono rappresentati nell’Es in forme per noi non ancora intelligibili, influssi che certamente incidono più fortemente in quella prima età che non in seguito. D’altra parte, comincia a farsi strada in noi il pensiero che il tentativo di arginare in così giovane età la pulsione sessuale, e una presa di posizione così risoluta del giovane Io in favore del mondo esterno in contrasto col mondo interno (quale quella che risulta dal divieto che colpisce la sessualità infantile) non possono non influenzare la successiva disposizione dell’individuo alla civiltà.586 Le pretese pulsionali alle quali non è stato concesso un soddisfacimento diretto sono costrette a imboccare altre strade che portano a soddisfacimenti sostitutivi, e mentre percorrono queste vie traverse tali pretese possono desessualizzarsi e può allentarsi il loro collegamento con le mete pulsionali originarie. Anticipiamo con ciò l’asserzione che molte cose appartenenti a quello che riteniamo essere il nostro più prezioso patrimonio di civiltà sono state acquisite a spese della sessualità, mediante restrizione di forze motrici di natura sessuale.

Giacché fino ad ora abbiamo dovuto continuamente sottolineare che l’Io deve la sua origine, nonché i suoi più importanti caratteri acquisiti alla relazione con il mondo esterno reale, saremo preparati all’ipotesi che gli stati morbosi dell’Io, nei quali più che mai esso si riavvicina all’Es, sono dovuti al venir meno o all’allentarsi di questa relazione con il mondo esterno. Con ciò si accorda perfettamente l’esperienza clinica, dalla quale apprendiamo che due possono essere i motivi scatenanti per lo scoppio di una psicosi: o che la realtà è diventata insopportabilmente dolorosa o che le pulsioni si sono rafforzate in misura straordinaria; nonostante le esigenze tra loro in lotta dell’Es e del mondo esterno nei riguardi dell’Io, queste due motivazioni sortiranno il medesimo risultato. Il problema della psicosi sarebbe semplice e facilmente penetrabile se il distacco dell’Io dalla realtà potesse essere davvero attuato completamente. Ma sembra che ciò accada assai di rado, se non forse mai. Perfino in stati che si allontanano molto dalla realtà del mondo esterno, come lo stato confusionale allucinatorio (amentia),587 si apprende da quel che dicono gli ammalati dopo la guarigione che allora, in un angolino dell’animo loro (così sogliono esprimersi), si teneva gelosamente celata una persona normale che osservava come spettatore imparziale il trascorrere della malattia e del suo tumulto. Non so se si possa supporre che le cose stiano così sempre e in ogni caso; posso però riferire qualcosa di simile su altre psicosi con un decorso meno tempestoso. Ho in mente un caso di paranoia cronica, nel quale dopo ogni attacco di gelosia un sogno portava a conoscenza dell’analista la raffigurazione corretta, assolutamente priva di elementi deliranti, della causa immediata del male.588 Venne in luce in questo modo un’interessante contrapposizione: di solito dai sogni del nevrotico riusciamo a intuire la gelosia che è estranea alla sua vita vigile, in questo caso, invece, trattandosi di uno psicotico, il delirio che dominava la vita diurna fu rettificato attraverso il sogno. Possiamo supporre – e probabilmente si tratta di un’ipotesi valida universalmente – che in tutti i casi simili a questo si attua una scissione psichica. Si sono formate due impostazioni psichiche anziché una sola, una, quella normale, che tiene conto della realtà e l’altra, che sotto l’influsso pulsionale, stacca l’Io dalla realtà. Sussistono ambedue, una accanto all’altra. L’esito dipende dalla loro forza relativa. Se l’ultima è o diventa più forte della prima, la condizione della psicosi è data. Se il rapporto si capovolge, la malattia delirante in apparenza guarisce. In realtà essa è soltanto retrocessa nell’inconscio; infatti, come si può inferire da numerose osservazioni, il delirio era già bell’e pronto da tempo, molto prima che esplodesse in forma manifesta.

Il punto di vista che postula in tutte le psicosi una scissione dell’Io non meriterebbe tanta attenzione se non si rivelasse pertinente anche per altri stati che assomigliano piuttosto alle nevrosi, e in definitiva per le nevrosi stesse. Di ciò mi sono persuaso innanzitutto nei casi di feticismo. Questa anomalia, che può essere annoverata tra le perversioni, si fonda com’è noto sul fatto che il paziente, il quale è quasi sempre un maschio, non riconosce l’assenza del pene nella donna, non riconosce cioè qualcosa di altamente indesiderabile per lui in quanto prova della possibilità della sua stessa evirazione. Egli rinnega perciò la propria percezione sensoriale che gli ha mostrato come il genitale femminile manchi del pene e si attiene fermamente alla convinzione opposta. La percezione rinnegata non è rimasta però totalmente priva di conseguenze, giacché dopo tutto egli non ha il coraggio di affermare di aver davvero visto un pene. In compenso si aggrappa a qualcos’altro, parte del corpo o oggetto, ad esso ascrivendo il ruolo del pene di cui non vuole ammettere la mancanza. Perlopiù si tratta di qualcosa che egli ha visto davvero allora, quando gli comparve dinanzi il genitale femminile, o magari è qualcosa che si adatta a fungere da sostituto simbolico del pene. Ebbene, sarebbe ingiusto che questo processo attinente alla formazione del feticcio venisse chiamato scissione dell’Io, essendo invece una formazione di compromesso mediante spostamento, simile a quella che conosciamo attraverso il sogno. Le nostre osservazioni ci rivelano però altre cose. La creazione del feticcio derivava dall’intento di distruggere le prove della possibilità dell’evirazione, in modo da potersi sottrarre all’angoscia di evirazione. Se la donna ha un pene come le altre creature viventi, non c’è più da tremare per il possesso del proprio pene. Eppure incontriamo dei feticisti che hanno sviluppato la stessa angoscia di evirazione che è propria dei non feticisti e ad essa reagiscono nello stesso modo. Nel loro comportamento si esprimono dunque simultaneamente due premesse tra loro contrastanti: da un lato essi rinnegano il dato della loro percezione di non aver visto il pene nel genitale della donna, dall’altro riconoscono la mancanza del pene nella donna e da questo fatto traggono le dovute conclusioni. Queste due impostazioni coesistono per tutta la vita l’una accanto all’altra, senza mai influenzarsi a vicenda. È ciò che si può chiamare una scissione dell’Io. Questa situazione ci permette inoltre di comprendere come mai il feticismo si sviluppi con tanta frequenza solo parzialmente. Esso non domina la scelta oggettuale in modo esclusivo, e anzi consente l’esplicarsi di un comportamento sessuale normale in misura più o meno grande, qualche volta addirittura limitandosi a un ruolo modestissimo o trasformandosi in mera allusione. I feticisti non sono dunque mai riusciti a operare per intero il distacco dell’Io dalla realtà del mondo esterno.

Non si deve pensare che il feticismo rappresenti un caso eccezionale riguardo alla scissione dell’Io; semplicemente ne è un oggetto di studio particolarmente propizio. Riallacciamoci alla nostra tesi dell’Io infantile che, sotto il dominio del mondo esterno reale, liquida le pretese pulsionali sgradite mediante le cosiddette rimozioni. La completiamo ora con l’ulteriore costatazione che l’Io, in questo stesso periodo della vita, si trova abbastanza spesso nella condizione di doversi difendere da una richiesta penosa che il mondo esterno gli pone, ciò che gli riesce con il rinnegamento delle percezioni che gli rendono nota questa pretesa della realtà. Tali rinnegamenti si verificano molto spesso, non solo nei feticisti, e ogniqualvolta riusciamo a studiarli si rivelano mezze misure, tentativi incompiuti di operare il distacco dalla realtà. Al ripudio si accompagna tutte le volte un riconoscimento, sempre si instaurano due impostazioni contrastanti e tra loro indipendenti, le quali producono il dato di fatto di una scissione dell’Io. Il risultato è diverso a seconda che sia l’una o l’altra ad accaparrarsi l’intensità maggiore.589

I dati della scissione dell’Io da noi descritti qui non sono così nuovi e peregrini come a tutta prima possono sembrare. Che in relazione a un determinato comportamento esistano due impostazioni nella vita psichica della persona, tra loro contrastanti e indipendenti, è anzi un carattere generale delle nevrosi, solo che in questo caso una di esse appartiene all’Io, e l’altra, essendo rimossa, all’Es. La differenza tra i due casi è essenzialmente topica o strutturale, e non sempre è facile decidere con quale delle due possibilità abbiamo a che fare nella fattispecie. Esse hanno però un importante elemento comune, che è questo: qualunque cosa faccia l’Io nel suo sforzo di difendersi, sia che rinneghi una parte del mondo esterno reale, sia che cerchi di ripudiare una pretesa pulsionale del mondo interno, mai il risultato è perfetto e senza residui, sempre ne emergono due impostazioni opposte; ma anche la più debole di esse, quella che soccombe, è destinata ad avere degli esiti psichici. Per concludere è opportuno sottolineare una cosa: come siano pochi i processi di cui veniamo a conoscenza mediante la percezione conscia.590

Opere complete
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