B. PARTE SINTETICA

Capitolo 4
Il meccanismo del piacere e la psicogenesi del motto

[1.]

A questo punto disponiamo di una cognizione sicura: sappiamo cioè da quali fonti fluisce il particolare piacere che il motto ci procura. Sappiamo che possiamo commettere lo sbaglio di scambiare la compiacenza suscitata in noi dal contenuto concettuale della frase col piacere vero e proprio del motto, e che però tale piacere deriva essenzialmente da due fonti: la tecnica e gli intenti del motto. Ciò che vorremmo capire a questo punto è il modo in cui il piacere scaturisce da queste fonti, il meccanismo che genera questo effetto piacevole.

Secondo me, è molto più facile trovare la spiegazione desiderata nei motti tendenziosi che non in quelli innocenti. Cominceremo dunque dai primi.

Nel motto tendenzioso il piacere deriva dal soddisfacimento di una tendenza che, altrimenti, sarebbe rimasta insoddisfatta. Non c’è bisogno di insistere sul fatto che un soddisfacimento di questo tipo è una fonte di piacere. Ma la maniera in cui il motto provoca il soddisfacimento è legata a condizioni particolari, che ci permetteranno forse di ricavare altre nozioni. Bisogna qui distinguere due casi. Il più semplice è quello in cui al soddisfacimento della tendenza si oppone un ostacolo esterno che viene aggirato mediante il motto. È quel che capita per esempio nella risposta che riceve Sua Altezza Serenissima dopo aver domandato all’interlocutore se sua madre non sia mai vissuta a palazzo [cap. 2, par. 9], o nella battuta del critico d’arte ai due ricchi furfanti che gli mostrano i loro ritratti: “And where is the Saviour?” [cap. 2, par. 11]. L’intento è, nel primo caso, di ripagare un insulto con la stessa moneta, nel secondo di rispondere con un’ingiuria anziché col parere richiesto; l’ostacolo è costituito da fattori puramente esterni, cioè dalla potente condizione delle persone colpite dall’insulto. C’è un punto tuttavia che attrae la nostra attenzione: questi e altri analoghi motti di natura tendenziosa, per quanto ci soddisfino, non sono in grado di provocare un forte effetto di ilarità.

Avviene l’incontrario quando si oppongono all’attuazione diretta della tendenza non fattori esterni ma un ostacolo interno, ossia quando la tendenza è ostacolata da un moto interiore. Questa condizione dovrebbe avverarsi per esempio, stante la nostra premessa, nei motti aggressivi del signor N., un personaggio in cui una forte inclinazione all’invettiva è tenuta a freno da una sviluppatissima civiltà estetica. In questo caso particolare, la resistenza interiore viene superata con l’aiuto del motto, l’inibizione è rimossa. In tal modo diventa possibile, come nel caso dell’ostacolo esterno, soddisfare la tendenza ed evitare la repressione e il conseguente “ingorgo psichico”.137 Fin qui, il meccanismo per cui si sviluppa il piacere sarebbe lo stesso in entrambi i casi.

Tuttavia a questo punto avvertiamo l’opportunità di approfondire l’eventuale differenza di condizione psicologica nel caso dell’ostacolo esterno e di quello interno; traspare infatti la possibilità che l’abbattimento dell’ostacolo interno possa dare un apporto incomparabilmente maggiore al piacere. Ma propongo di non addentrarci eccessivamente in questo argomento, accontentandoci per il momento di toccare il punto per noi essenziale. La differenza che corre tra i casi di ostacolo esterno e quelli di ostacolo interno è una sola: qui si tratta di sbarazzarsi di un’inibizione già esistente, là di evitare che se ne formi all’interno di noi una nuova. Non è quindi troppo arzigogolato affermare che, sia per produrre che per conservare un’inibizione psichica, occorre un “dispendio psichico”.138 Poiché è fuor di dubbio che in entrambi i casi in cui si ricorre al motto tendenzioso si ottiene del piacere, vien naturale supporre che il profitto di piacere corrisponde al dispendio psichico risparmiato.

Eccoci quindi ancora una volta di fronte al principio del risparmio, che già abbiamo incontrato parlando della tecnica del motto verbale [cap. 2, par. 4]. Ma mentre in un primo tempo abbiamo creduto di trovare il risparmio nell’uso del minor numero possibile di parole o di parole per quanto possibile uguali, qui subodoriamo un senso assai più vasto, quello di risparmio in genere di dispendio psichico, ed è certamente probabile che, determinando meglio il concetto ancora assai confuso di “dispendio psichico”, ci accostiamo all’essenza del motto.

Una certa mancanza di chiarezza, alla quale non abbiamo potuto ovviare discutendo il meccanismo del piacere nel motto tendenzioso, può essere considerata la meritata punizione del nostro tentativo di districare il nodo più intricato prima di quello più semplice, il motto tendenzioso prima di quello innocente. Teniamo a mente che il segreto dell’effetto piacevole del motto tendenzioso ci è sembrato essere il risparmio sul dispendio richiesto dall’inibizione o dalla repressione, e volgiamoci ora al meccanismo del piacere nel caso del motto innocente.

Esaminando esempi appropriati di motti innocenti, ove non c’era da temere che contenuto o intento turbassero il nostro giudizio, abbiamo dovuto concludere che le tecniche del motto sono di per sé stesse fonti di piacere. Ora vogliamo verificare se questo piacere possa essere ricondotto, in via d’ipotesi, al risparmio di dispendio psichico. In un gruppo di questi motti (i giuochi di parole) la tecnica consisteva nell’indirizzare il nostro atteggiamento psichico verso il suono anziché verso il senso della parola, nel fare emergere la rappresentazione (acustica) della parola anziché il significato fornito dai nessi con le rappresentazioni delle cose.139 Possiamo davvero supporre che in tal modo si facilita grandemente il lavoro psichico e che, quando impieghiamo in tutta serietà le parole, dobbiamo esercitare un certo sforzo per trattenerci dall’usare questo comodo procedimento. Possiamo osservare che stati morbosi dell’attività mentale, nei quali la possibilità di concentrare in un punto un certo dispendio psichico è probabilmente limitata, spingono effettivamente alla ribalta questo genere di rappresentazione acustica della parola a svantaggio del suo significato, e che questi malati procedono nei loro discorsi verso le associazioni “esterne” anziché quelle “interne” della rappresentazione verbale, per dirla secondo la formula. Anche nel bambino, avvezzo a maneggiare ancora le parole come cose,140 notiamo l’inclinazione a cercare dietro termini uguali o simili il medesimo senso, il che è fonte di parecchi errori che causano l’ilarità degli adulti. Se quindi, nel motto, traiamo un innegabile diletto dall’uso della stessa parola o di una simile, che ci fa passare da un ordine d’idee a un altro, lontano dal primo (come nel “Home-Roulard” [cap. 3, par. 2] passiamo dalla cucina alla politica), questo diletto va legittimamente ricondotto al risparmio di dispendio psichico. Il piacere che dà il motto e che deriva da questo “corto circuito” sembra inoltre tanto maggiore quanto più i due ordini d’idee posti in relazione dallo stesso termine sono estranei l’uno all’altro, quanto maggiore è la distanza che li separa, dunque quanto maggiore è il risparmio che il mezzo tecnico del motto consente al corso del pensiero. Notiamo inoltre che qui l’arguzia si serve di un mezzo di collegamento che viene respinto e accuratamente evitato dal pensiero serio.141

In un secondo gruppo di mezzi tecnici del motto – unificazione, omofonia, impiego molteplice, modificazione di locuzioni ben note, allusione a citazioni – rileviamo come carattere comune la possibilità offertaci di ritrovare ogni volta un che di noto là dove, invece, ci saremmo magari aspettati qualcosa di nuovo. Questo ritrovamento del già noto è causa di piacere, e anche qui non ci sarà difficile riconoscere in un tal piacere il piacere del risparmio, metterlo in relazione col risparmio di dispendio psichico.

Sembra un fatto generalmente ammesso che il ritrovare ciò che è già noto, che il “riconoscere” sia una cosa piacevole. Groos dice:142 “ll riconoscere si collega con sentimenti piacevoli dovunque esso non sia troppo meccanizzato (come per esempio nell’abbigliamento...). Già la semplice qualità della dimestichezza s’accompagna facilmente con quel dolce senso di acquetamento che riempie Faust quando, dopo aver fatto un incontro perturbante, rimette piede nel suo studio...”143 “Se quindi l’atto del riconoscere è causa di piacere, è logico aspettarsi che l’uomo ceda alla tentazione di esercitare questa capacità per il gusto di esercitarla, di sperimentare giocando con essa. In effetto Aristotele considerò la gioia derivante dal riconoscimento la base del godimento estetico, e non c’è dubbio che non si può trascurare questo principio, anche se non ha importanza così grande come suppone Aristotele.”

Groos descrive poi i giuochi il cui carattere consiste nell’aumentare la gioia del riconoscimento ostacolandolo in vario modo, ossia provocando un “ingorgo psichico” che termina all’atto del riconoscimento. Il suo tentativo di spiegazione trascura però l’ipotesi che il riconoscimento sia piacevole per sé stesso, poiché egli, richiamandosi a questi giuochi, fa risalire il gusto del riconoscere alla gioia per la potenza, alla gioia di aver superato una difficoltà. A mio parere questo secondo fattore è secondario, e non vedo motivo per scostarmi dalla concezione più semplice, secondo la quale il riconoscere è piacevole di per sé, ossia è piacevole perché allevia il dispendio psichico, e che i giuochi basati su questo piacere si valgono del meccanismo di ingorgo solo per accrescere l’ammontare di piacere.

È parimenti un fatto accettato da tutti che rima, allitterazione, ritornello e altre forme di ripetizione di suoni verbali simili in poesia sfruttino la stessa fonte di piacere, il ritrovamento del già noto. In queste tecniche, che mostrano un’analogia così notevole con l’“impiego molteplice” nel motto, non c’è traccia visibile di un qualche “sentimento di potenza”.

Date le strette relazioni tra riconoscere e ricordare, non è arrischiata la supposizione che vi sia anche un piacere del ricordo, ossia che l’atto del ricordare di per sé stesso sia accompagnato da un sentimento di piacere di origine analoga. Groos non sembra alieno da questa ipotesi, ma deduce anche qui il piacere del ricordo dal “sentimento di potenza”, nel quale egli cerca la radice del godimento in quasi tutti i giuochi: a torto, penso io.

Sul “ritrovamento del già noto” si basa anche l’impiego di un altro espediente tecnico del motto, che non abbiamo ancora discusso finora. Alludo al riferirsi a cose del momento, che è una ricca fonte di piacere in numerosissimi motti e spiega alcune particolarità della vita del motto nel tempo. Vi sono motti assolutamente svincolati da questa condizione, e nell’ambito di una trattazione sul motto siamo costretti a ricorrere quasi esclusivamente a esempi di questo tipo. Non possiamo dimenticare però di avere forse riso, più ancora che dei motti perenni, di altri che ora ci riesce difficile mettere a partito, perché richiedono un lungo commento e anche così non otterrebbero l’effetto suscitato un tempo. Motti siffatti contenevano allusioni a persone e avvenimenti che erano “attuali” nel momento in cui avevano suscitato un interesse generale e tenevano ancor desta l’attenzione. Venuto meno questo interesse, sbrigate le faccende a cui si riferivano, anche questi motti perdettero una parte del loro effetto piacevole, una parte d’altronde molto considerevole. Per esempio, il motto pronunciato dal mio cortese anfitrione quando definì il budino servito a tavola un Home-Roulard non mi sembra oggi così indovinato come allora, quando il termine Home Rule compariva costantemente nei titoli dei notiziari politici dei nostri giornali. Se oggi, nel tentativo di descrivere i meriti di questo motto, affermo che un unico termine ci porta dall’ordine d’idee della cucina a quello assai distante della politica risparmiandoci un lungo giro trasverso, un tempo avrei dovuto dare un’altra spiegazione, e dire che “questo termine ci porta dall’ordine d’idee della cucina a quello, così distante, della politica, il quale però può contare sul nostro vivo interesse perché occupa costantemente i nostri pensieri”. Un altro motto: “Questa ragazza mi ricorda Dreyfus: l’esercito non crede nella sua innocenza” [cap. 2, par. 3], risulta del pari sbiadito al giorno d’oggi, benché tutti i suoi mezzi tecnici siano rimasti immutati. Lo stupore provocato dal paragone e l’equivocità del termine “innocenza” non possono compensare il fatto che l’allusione, la quale allora si rivolgeva a un affare investito di tutta la nostra eccitazione, ci rammenta oggi un interesse ormai sopito. Vediamo per esempio un motto ancora attuale: La principessa reale Louise si era rivolta al crematorio di Gotha domandando quanto costasse una cremazione. La direzione del crematorio rispose: “Il prezzo normale è di 5000 marchi, ma nel Suo caso sarà ridotto a 3000, visto che Lei è già stata ‘scottata’ una volta.”144 Ebbene, un motto del genere ci sembra oggi irresistibile, ma fra qualche tempo sarà calato assai nella nostra estimazione, e più tardi ancora, quando sarà impossibile raccontarlo senza aggiungere un commento per spiegare chi fosse la principessa Louise e che cosa s’intende quando si parla della sua “scottatura”, nonostante l’eccellente giuoco di parole non otterrà più nessun effetto.

Moltissimi dei motti in circolazione vivono così per un certo periodo, percorrono propriamente una loro carriera ove, a una fase di fioritura, segue una fase di decadenza, e finiscono nell’oblio completo. Il bisogno dell’uomo di ricavare piacere dai suoi processi mentali ricrea sempre nuovi motti che poggiano sui nuovi interessi del giorno. La forza vitale dei motti ispirati a cose del momento non è affatto connaturale ad essi, è frutto dell’allusione a quegli altri interessi che, declinando, determinano anche la sorte del motto. L’ispirazione a cose del momento, che si aggiunge come fonte di piacere effimera, ma particolarmente ricca, a quelle proprie del motto, non può essere semplicemente equiparata al ritrovamento del già noto. Si tratta piuttosto di una qualificazione particolare del già noto, al quale spetta possedere la proprietà della freschezza, della novità, il non essere ancora sfiorato dall’oblio. Una predilezione particolare per ciò che è recente si incontra anche nella formazione dei sogni,145 e ci par fondato il sospetto che l’associazione con ciò che è recente sia compensata da un premio specifico di piacere, e per ciò stesso resa più facile.

Fechner, sopra tutti, riconosce una fonte di piacere del motto nell’unificazione, la quale non è altro che la ripetizione nell’ambito del contesto mentale anziché nell’ambito del materiale. Egli afferma:146 “A mio parere, nel campo che qui abbiamo sott’occhio, la parte principale è svolta dal principio di connessione unitaria del molteplice, al quale però occorre ancora il sostegno di condizioni accessorie per portare al di là della soglia, col suo carattere peculiare, il diletto che i casi del genere possono procurare.”

In tutti questi casi di ripetizione dello stesso nesso o dello stesso materiale verbale, di ritrovamento di ciò che è già noto e recente, nulla ci può impedire di derivare il piacere in essi avvertito dal risparmio di dispendio psichico, se questo criterio si dimostra fruttuoso al fine di chiarire qualche particolarità e di giungere a nuove generalizzazioni. Sappiamo di non aver ancora reso chiaro il modo in cui si effettua il risparmio né il senso dell’espressione “dispendio psichico”.

Il terzo gruppo di tecniche del motto – principalmente del motto concettuale – il quale abbraccia i ragionamenti erronei, gli spostamenti, il controsenso, la figurazione mediante il contrario eccetera, può dare a prima vista l’impressione di possedere un’impronta particolare e non tradire alcuna affinità con le tecniche del ritrovamento del già noto o della sostituzione delle associazioni oggettuali mediante associazioni verbali; nondimeno proprio in questo caso è facilissimo dimostrare la validità della teoria del risparmio o alleviamento del dispendio psichico.

Che sia più facile e più comodo deviare da un cammino di pensiero già avviato anziché perseverarvi, ammassare insieme cose diverse anziché metterle in contrasto, e che sia addirittura comodissimo prender come buoni metodi deduttivi che la logica respinge, accostare parole o pensieri trascurando la condizione che essi debbono anche avere un senso: tutto ciò non può essere messo in dubbio, ed è proprio quello che fanno le tecniche del motto di cui andiamo discorrendo. Strana, invece, parrà la tesi che questo modo di agire del lavoro arguto dischiude una fonte di piacere, poiché – all’infuori del caso del motto – non possiamo non provare spiacevoli sentimenti di difesa contro tutti questi depauperamenti dell’attività intellettuale.

Nella vita seria il “piacere dell’assurdo”, come potremmo definirlo sinteticamente, è celato fino a scomparire. Per renderlo palese dobbiamo ricorrere a due casi nei quali o è ancora visibile o torna ad essere visibile: il comportamento del bambino che sta imparando, e quello dell’adulto il cui stato d’animo sia alterato per via tossica. Nell’età in cui il bambino impara a padroneggiare il vocabolario della sua lingua materna, egli prova un gusto evidente a “sperimentare giocando” con questo materiale (l’espressione è di Groos [vedi sopra]); accosta le parole senza badare al senso, pur di ottenere l’effetto piacevole dato dal ritmo o dalla rima. A poco a poco gli vien tolto questo divertimento, e alla fine non gli sono più consentite che le combinazioni verbali dotate di senso. Ancor più tardi, emerge lo sforzo di affrancarsi dalle limitazioni apprese sull’uso delle parole, storpiandole mediante determinati suffissi o deformandole con particolari artifici (raddoppiamenti, Zittersprache)147 o addirittura foggiandosi un linguaggio suo proprio che usa con i compagni di giuochi; è uno sforzo, questo, che riemerge anche in certe categorie di malati di mente.

Io credo che, qualunque sia il motivo che ha spinto il bambino a iniziare questo tipo di giuochi, nel suo sviluppo successivo egli vi si abbandona con la coscienza che sono giuochi assurdi e trova il suo diletto nel fascino inerente a ciò che la ragione proibisce. Ora egli usa il giuoco per sottrarsi alla pressione esercitata dalla ragione critica. Sono molto più gravi, tuttavia, le limitazioni che subentrano quando si tratta di educarlo a pensare correttamente e a distinguere ciò che è vero nella realtà da ciò che è falso, e perciò la ribellione contro la costrizione proveniente dalla logica e dalla realtà è più profonda e durevole; perfino i fenomeni dell’attività fantastica vanno visti in questa luce. Il potere della critica è perlopiù così cresciuto nella fanciullezza e nel periodo di apprendimento che va fin oltre la pubertà, che il piacere dell’“assurdo in libertà” ben di rado osa manifestarsi direttamente. Non si ha il coraggio di pronunziare controsensi; ma la caratteristica inclinazione del ragazzo ad azioni assurde, incoerenti, mi pare una filiazione diretta del piacere dell’assurdo. In casi patologici è facile vedere che questa inclinazione è aumentata al punto da tornare a dominare discorsi e risposte dello scolaro; esaminando alcuni studenti del ginnasio affetti da nevrosi, ho avuto modo di persuadermi che il piacere, attivo nell’inconscio, che provavano per l’assurdità cui davano vita aveva un peso non minore, nelle loro deficienze, della loro ignoranza effettiva.

Lo studente degli anni universitari non rinuncia a contestare la costrizione esercitata su di lui dalla logica e dalla realtà, avvertendone la tirannia come sempre più intollerante e illimitata. Buona parte delle beffe studentesche vanno attribuite a questa reazione. L’uomo è infatti un “ricercatore instancabile di piacere” (non so più dove ho letto quest’azzeccata definizione) e ogni rinuncia a un piacere che ha già goduto una volta gli riesce assai difficile. Con l’allegra assurdità del Bierschwefel,148 lo studente cerca di salvaguardare il piacere che gli deriva dalla libertà di pensiero, che l’educazione accademica gli sottrae in misura sempre maggiore. Anzi, in età molto più avanzata, quand’egli, ormai uomo maturo, s’incontra con altri uomini come lui in un congresso scientifico e torna quindi a sentirsi un discente, in conclusione di seduta tocca al Kneipzeitung,149 riduzione all’assurdo delle conoscenze appena acquisite, compensarlo per il supplemento di inibizione mentale.

Bierschwefel e Kneipzeitung testimoniano fin col loro nome che la critica, la quale ha rimosso il piacere dell’assurdo, è diventata ormai tanto potente da non poter più essere messa in disparte neanche temporaneamente senza qualche ausilio tossico. La cosa più preziosa che l’alcool provoca nell’uomo è il cambiamento del suo stato d’animo ed è per questa ragione che non tutti possono rinunciare allo stesso modo a questo “veleno”. L’umore allegro, sia che sorga per via endogena o che sia prodotto da un tossico, abbassa le forze inibitorie e tra queste la critica, rendendo nuovamente accessibili fonti di piacere sulle quali gravava il peso della repressione. È veramente istruttivo vedere come si richieda un’arguzia sempre più bassa a mano a mano che si alza il buon umore. Infatti il buon umore sostituisce l’arguzia, così come l’arguzia deve sforzarsi di sostituire il buon umore, nel quale si rivelano possibilità di godimento altrimenti soggette a inibizione, e tra queste il piacere dell’assurdo:

Mit wenig Witz und viel Behagen.

[Con un po’ d’arguzia e molta soddisfazione.]150

Sotto l’influsso dell’alcool l’adulto ridiventa bambino, un bambino che prova piacere nel disporre liberamente del corso dei suoi pensieri senza dover tener conto della costrizione logica.

Spero ora di aver dimostrato che anche le tecniche del controsenso proprie del motto corrispondono a una fonte di piacere. Questo piacere – mi basti ripeterlo – scaturisce da un risparmio di dispendio psichico, da un alleviamento della costrizione della critica.

Gettando ancora un’occhiata conclusiva sui tre diversi gruppi di tecniche del motto, notiamo che il primo e terzo gruppo, cioè la sostituzione delle associazioni di cose con associazioni di parole e l’impiego del controsenso, possono essere tutti e due concepiti come restaurazione di antiche libertà e come sgravio dalla costrizione esercitata dall’educazione intellettuale; sono alleviamenti psichici che possono essere posti in una certa antitesi rispetto al risparmio stabilito dalla tecnica del secondo gruppo. Alleviamento del dispendio psichico già in atto e risparmio su quello in procinto di verificarsi: sono i due princìpi ai quali risale ogni tecnica del motto e, quindi, ogni piacere derivante da queste tecniche. I due tipi di tecnica e di profitto di piacere coincidono del resto – se non altro a grandi linee – con la distinzione tra motto verbale e motto concettuale.

[2.]

Le considerazioni precedenti ci hanno fatto inopinatamente scorgere una storia evolutiva o psicogenesi del motto, che esamineremo ora più da vicino. Abbiamo individuato gradi preliminari del motto, ed è probabile che la loro evoluzione fino al motto tendenzioso ci scopra nuove relazioni tra i diversi caratteri del motto. Prima che vi sia motto, vi è qualcosa che possiamo definire come giuoco o “scherzo”. Il giuoco – teniamoci a questo termine – compare nel bambino nel periodo in cui egli apprende a usare le parole e a collegare tra loro i pensieri. Questo giuoco risponde probabilmente a una delle pulsioni che obbligano il bambino a esercitare le sue facoltà;151 così facendo egli s’imbatte in effetti piacevoli risultanti dalla ripetizione di ciò che è simile, dal ritrovamento del già noto, dall’omofonia eccetera, che si spiegano come risparmi insospettati di dispendio psichico.152 Non c’è da meravigliarsi che questi effetti piacevoli spingano il bambino a darsi tutto al giuoco, incitandolo a proseguirlo senza curarsi del significato delle parole e della coerenza delle frasi. Il primo grado preliminare del motto sarebbe quindi il giuoco condotto mediante parole e pensieri, motivato da certi effetti piacevoli del risparmio.

Questo giuoco viene a cessare quando si rafforza un fattore che possiamo appropriatamente definire come atteggiamento critico o razionale. Adesso il giuoco viene respinto perché privo di senso o nettamente assurdo; l’atteggiamento critico lo rende impossibile. È anche escluso, adesso, che si possa attingere piacere, se non occasionalmente, dalle fonti del ritrovamento del già noto, eccetera, a meno che durante il periodo della crescita ci colga uno stato d’animo piacevole che, analogamente all’allegria del bambino, ci sbarazzi dell’inibizione critica. Solo in questo caso ridiventa possibile il vecchio giuoco di procacciarsi piacere. Ma nessuno può rinunciare, nell’attesa di una circostanza favorevole, al piacere che gli è familiare. L’individuo cerca quindi i mezzi per non essere vincolato allo stato d’animo piacevole; l’evoluzione successiva verso il motto è guidata da questi due tentativi: evitare la critica e rimpiazzare con qualcos’altro lo stato d’animo.

Qui subentra il secondo grado preliminare del motto, cioè lo scherzo. Si tratta ora di mantenere il profitto di piacere conseguito col giuoco e di riuscire al tempo stesso a mettere a tacere le rimostranze della critica, che non lascerebbero emergere il sentimento di piacere. Non c’è che una strada per raggiungere questo scopo. L’accostamento assurdo di parole o la successione di pensieri dal significato contrastante deve, comunque sia, avere un senso. Tutta l’arte del lavoro arguto è volta senz’altro a scoprire le parole e le costellazioni di pensieri che consentano di rispettare questa condizione. Tutti i mezzi tecnici del motto trovano già qui, nello scherzo, applicazione e anche l’uso linguistico non traccia alcuna distinzione coerente tra scherzo e motto. Ciò che distingue lo scherzo dal motto è il fatto che il senso della frase sottratta alla critica non dev’essere necessariamente né valido né nuovo e neppure solo buono; tutto ciò che occorre è che possa essere detto così com’è detto, per insolito, superfluo, inutile che sia il dirlo. Nello scherzo ciò che più conta è la soddisfazione di aver reso possibile ciò che la critica vieta.

È un semplice scherzo, per esempio, la definizione di Schleiermacher [cap. 2, par. 3] della gelosia (Eifersucht) come passione (Leidenschaft) che con zelo (Eifer) cerca (sucht) ciò che dolore (Leiden) procura (schafft). È uno scherzo la domanda del professor Kästner, che nel diciottesimo secolo insegnava fisica – e motteggiava – a Gottinga: egli al momento dell’iscrizione chiese a uno studente di nome Kriegk quanti anni avesse e, sentendo che aveva trent’anni, commentò: “Caspita! Ho quindi l’onore di vedere la Guerra (Krieg) dei trent’anni!”153 Uno scherzo fu la risposta del celebre Rokitansky154 a chi gli domandava quali professioni avessero scelto i suoi quattro figli: “Due heilen [guariscono] e due heulen [urlano]” (due medici e due cantanti). L’informazione era esatta e quindi ineccepibile; ma non aggiungeva nulla che già non fosse esprimibile con le parole poste tra parentesi. È indiscutibile che la risposta ha assunto l’altra forma solo per il piacere che deriva dall’unificazione e dall’assonanza delle due parole.

Credo che ora finalmente cominciamo a vederci chiaro. Nell’esaminare le tecniche del motto, ci accorgevamo sempre con fastidio che esse non erano esclusive del motto; eppure pareva che l’essenza del motto non potesse prescinderne, giacché, quando così facevamo per via di riduzione, andavano perduti carattere arguto e piacere del motto. Ora notiamo che quelle che abbiamo descritto come tecniche del motto – e che in certo senso siamo costretti a continuare a chiamare così – sono piuttosto le fonti dalle quali l’arguzia ricava il piacere, e non troviamo strano che altre facoltà attingano alle stesse fonti per conseguire lo stesso scopo. La tecnica peculiare del motto, invece, la sola che gli sia pertinente, consiste nel modo con cui l’arguzia procede per proteggere l’applicazione di questi mezzi procacciatori di piacere dalle rimostranze della critica, che distruggerebbero il piacere. Non possiamo asserire un gran che a proposito di questo procedimento. Il lavoro arguto si manifesta, come abbiamo detto, nella scelta di un materiale verbale e di situazioni concettuali tali da permettere al vecchio giuoco di parole e pensieri di superare l’esame della critica; e a questo scopo tutte le peculiarità del lessico e tutte le costellazioni del contesto mentale devono essere sfruttate con la massima abilità. Più tardi saremo forse in grado di caratterizzare il lavoro arguto mediante una sua proprietà peculiare; per adesso resta inspiegato come si effettui la scelta che torna vantaggiosa ai fini del motto. L’intento e la funzione del motto (proteggere dalla critica i collegamenti verbali e concettuali che recano piacere) sono però già evidenti, in maniera essenziale, nello scherzo. Tale funzione consiste fin dal principio nello sbarazzare da inibizioni interiori che avevano reso inaccessibili fonti di piacere le quali in tal modo ridivengono fertili, e vedremo poi che il motto si mantiene fedele a questa caratteristica per tutta la sua evoluzione.

Siamo ora anche in grado di assegnare il posto che gli compete al fattore del “senso nell’assurdo” (vedi l’introduzione), al quale gli studiosi attribuiscono grande importanza come segno distintivo del motto e per la spiegazione dell’effetto piacevole. I due punti fermi che abbiamo acquisito circa ciò che determina l’arguzia (la sua tendenza a mantener vivo il giuoco piacevole, e il suo sforzo per proteggerlo dalla critica della ragione) spiegano senz’altro perché lo stesso motto che sembra assurdo per un aspetto, per un altro debba riuscire significativo o perlomeno accettabile. Come si giunga a questo, è cosa che riguarda il lavoro arguto; quando il motto non riesce, è appunto respinto come un “assurdo”. Non è necessario tuttavia che deduciamo l’effetto piacevole del motto dal conflitto dei sentimenti che sorgono, sia direttamente, sia per il tramite dello “stupore e illuminazione” [ibid.], dal senso e dall’assurdità simultanea del motto. Del pari non v’è obbligo per noi di addentrarci nel problema circa la possibilità che la sorgente del piacere consista nell’alternativa di “considerare assurdo” o “riconoscere pertinente” il motto. La psicogenesi del motto ci ha insegnato che il piacere provato in esso scaturisce dal giocare con parole o dallo scatenare l’assurdità e che il senso del motto serve soltanto a proteggere questo piacere contro la demolizione della critica.

In tal modo il problema del carattere essenziale del motto sarebbe già spiegato nel caso dello scherzo. Possiamo ora rivolgere la nostra attenzione allo sviluppo ulteriore dello scherzo fino al suo culmine nel moto tendenzioso. Lo scherzo ha ancora soprattutto l’intento di procurarci diletto, e si accontenta di far sì che ciò che afferma non appaia assurdo o completamente irrilevante. Quando l’affermazione contenuta nello scherzo è rilevante ed efficace, lo scherzo si trasforma in motto. Un pensiero, che sarebbe stato degno del nostro interesse anche espresso nella sua forma più piatta, viene rivestito di una forma che deve suscitare in noi il compiacimento come tale.155 Certo, non possiamo fare a meno di pensare che un’associazione del genere sia nata di proposito, e tenteremo di individuare l’intenzione che ha condotto alla formazione del motto. Un’osservazione fatta prima quasi incidentalmente ci metterà sulla buona strada. Abbiamo detto sopra (cap. 3, par. 2) che un buon motto determina in noi per così dire un’impressione complessiva di compiacimento, senza che allora fossimo in grado di distinguere immediatamente quale parte di piacere derivi dalla forma spiritosa e quale parte derivi dalla finezza del contenuto concettuale. Su questa suddivisione ci inganniamo continuamente: ora esageriamo la bontà del motto presi da ammirazione per i pensieri che contiene, ora viceversa esageriamo il valore del pensiero a causa del diletto procuratoci dalla sua veste spiritosa. Non sappiamo che cosa ci dia diletto e di che cosa ridiamo. Questa incertezza del nostro giudizio, da accettare come un fatto, può aver costituito il motivo per la formazione del motto in senso proprio. Il pensiero cerca il travestimento dell’arguzia perché in tal modo si raccomanda alla nostra attenzione, può sembrarci più significativo, più valido, ma soprattutto perché questa veste corrompe e disorienta la critica. Noi siamo propensi ad attribuire al pensiero il merito di ciò che ci è piaciuto nella forma spiritosa; non propendiamo più a considerare errato qualcosa che ci abbia procurato diletto, col rischio di sciuparci una fonte di piacere. Se il motto ci ha fatti ridere, inoltre, si produce in noi la disposizione più sfavorevole alla critica, perché allora si è determinato in noi, facendo leva su un certo punto, lo stato d’animo a suscitare il quale bastava già il giuoco e che il motto voleva in tutti i modi rimpiazzare. Benché abbiamo affermato in precedenza che questo tipo di motto vada definito innocente, non ancora tendenzioso, non possiamo disconoscere però che, a rigor di termini, soltanto lo scherzo è imparziale, cioè serve unicamente al fine di generare piacere. Propriamente parlando il motto – anche se il pensiero ch’esso racchiude non è tendenzioso, ossia anche se soddisfa soltanto un interesse intellettuale puramente teorico – non è mai imparziale, ma persegue il secondo intento: favorire, amplificandolo, il pensiero e proteggerlo dalla critica. Qui esso torna a manifestare la sua natura originaria contrapponendosi a una potenza inibitrice e limitatrice, che ora è il giudizio critico.

Questo primo impiego del motto, che va oltre la generazione di piacere, mostra la via alle applicazioni successive. Il motto è ora riconosciuto come un fattore psichico di potenza, il cui peso può essere determinante nel far pendere la bilancia dall’una o dall’altra parte. Le grandi tendenze e pulsioni della vita psichica se ne servono per i loro scopi. Il motto originariamente imparziale, che era cominciato come giuoco, acquista secondariamente una relazione con tendenze alle quali, a lungo andare, niente di quanto si forma nella vita psichica può sottrarsi. Sappiamo già che cosa può fare il motto al servizio della tendenza a denudare, la tendenza ostile, cinica, scettica. Nel motto osceno che deriva dalla scurrilità, esso trasforma l’originario terzo incomodo della situazione sessuale in un alleato, davanti al quale la donna è costretta a vergognarsi, corrompendolo col trasmettergli il suo profitto di piacere. Se asseconda la tendenza aggressiva, esso trasforma l’ascoltatore, dapprima indifferente, in un compagno d’odio e di disprezzo servendosi dello stesso mezzo, e mentre prima il nemico aveva un solo avversario, ora esso gliene crea una schiera. Nel primo caso supera le inibizioni del pudore e del decoro grazie al premio di piacere che offre; nel secondo invece capovolge il giudizio critico, che altrimenti avrebbe sottoposto a verifica l’argomento del contendere. Nel terzo e nel quarto caso, quando è al servizio della tendenza cinica e scettica, scuote il rispetto verso istituzioni e verità nelle quali l’ascoltatore credeva, da un lato rafforzando l’argomentazione, dall’altro però esercitando un nuovo tipo di aggressione. Quando l’argomentazione cerca di tirare dalla sua parte la critica dell’ascoltatore, il motto mira a mettere in disparte questa critica. Non c’è dubbio che il motto ha scelto la strada psicologicamente più efficace.

In questa disamina degli effetti prodotti dal motto tendenzioso è emerso in primo piano ciò che è più facile osservare, cioè l’effetto del motto su colui che lo sente pronunciare. Più significativi, per il nostro intendimento, sono gli effetti che il motto provoca nell’animo di colui che lo conia o, più esattamente, di colui al quale viene in mente. Ci eravamo già proposti [cap. 3, par. 2] – e ci si offre qui l’occasione di rinnovare questo proposito – di studiare i processi psichici del motto prendendo in esame il modo in cui differiscono in due persone. Per il momento vogliamo esprimere l’ipotesi che il processo psichico suscitato dal motto nell’ascoltatore ricalchi nella maggior parte dei casi quello svoltosi nell’autore. All’ostacolo esterno che l’ascoltatore deve superare corrisponde un’inibizione interna dell’uomo di spirito. Almeno è viva in quest’ultimo, come rappresentazione inibitrice, l’attesa dell’ostacolo esterno. In casi singoli l’ostacolo interno che viene superato dal motto tendenzioso è evidente; dei motti del signor N. possiamo dire (cap. 3, par. 3), ad esempio, che non soltanto consentono agli ascoltatori di godere dell’aggressione perpetrata mediante ingiurie, ma soprattutto permettono a lui di proferirle. Tra le varie specie di inibizione o repressione ce n’è una che merita particolare interesse perché è quella che si spinge più lontano; è indicata col nome di “rimozione” e si riconosce dal suo operato, che esclude gli impulsi che ad essa soccombono e i loro derivati dall’accedere alla coscienza. Come vedremo, il motto tendenzioso è in grado di sprigionare piacere perfino da fonti siffatte che soggiacciono alla rimozione. Se è possibile, nel modo cui abbiamo accennato sopra, ricondurre il superamento di ostacoli esterni a quello di ostacoli e rimozioni interne, possiamo dire che il motto tendenzioso è, fra tutti i gradi evolutivi del motto, quello che mostra con maggior chiarezza il carattere principale del lavoro arguto, quello di liberare piacere sbarazzando da inibizioni. Esso rafforza le tendenze al cui servizio si pone, ricavando un aiuto per esse da moti tenuti repressi, oppure si pone semplicemente al servizio di tendenze represse.

Possiamo ammettere senza difficoltà che il motto tendenzioso fa questo, ma dobbiamo tenere a mente che non sappiamo in che modo gli riesca di farlo. Il suo potere consiste nel profitto di piacere che trae dalle fonti dei giuochi di parole e delle assurdità liberate e, a giudicare dalle impressioni che provocano gli scherzi imparziali, è impossibile pensare che l’ammontare di questo piacere sia tanto grande da potergli attribuire la forza di sradicare inibizioni e rimozioni. In realtà abbiamo qui non una semplice azione di forza, ma un viluppo scatenante più intricato. Anziché esporre tutto il lungo giro che mi ha portato alla comprensione di questo viluppo, cercherò di sintetizzarlo in breve.

Nella sua Propedeutica all’estetica (vol. 1, cap. 5), Fechner ha enunciato il “principio dell’ausilio o esaltazione estetici”, che egli espone con le seguenti parole: “L’incontro non contraddittorio di condizioni di piacere che, di per sé, hanno scarso effetto, fa sì che ne risulti un piacere maggiore, spesso molto maggiore di quello corrispondente al valore in termini di piacere delle singole condizioni, maggiore di quello che potrebbe essere spiegato come somma degli effetti singoli; anzi, un incontro di questo genere può perfino conseguire un risultato piacevole positivo, cioè la soglia del piacere può essere valicata, anche se i singoli fattori sono troppo deboli a questo scopo; devono tuttavia lasciar intuire, al paragone con altri, un vantaggio in termini di gratificazione.”156

Penso che il tema del motto non ci offra troppe occasioni di confermare l’esattezza di questo principio, che può essere dimostrata in molte altre opere dell’ingegno artistico. Riguardo al motto abbiamo appreso qualcos’altro, che almeno s’allinea con questo principio: cioè che quando cooperano più fattori che causano piacere non siamo in grado di indicare per ognuno di essi la parte che effettivamente gli spetta nel risultato conseguito (vedi cap. 3, par. 2). È possibile però variare la situazione postulata nel “principio dell’ausilio”, ottenendo di porre, per queste nuove condizioni, una serie di domande che meriterebbero risposta. Che cosa succede in generale quando s’incontrano in una costellazione condizioni di piacere e condizioni di dispiacere? Che cosa determina in tal caso il risultato, e il segno positivo o negativo che lo precede?

Il caso del motto tendenzioso è speciale, tra queste possibilità. È presente un moto o impulso che vorrebbe sprigionare piacere da una fonte determinata e che vi riuscirebbe se non sussistessero ostacoli; inoltre c’è un altro impulso che agisce in senso opposto a questo sviluppo di piacere, e quindi inibisce o reprime. La corrente repressiva dev’essere, come indica il risultato, un po’ più forte della corrente repressa, che non per questo però viene a cessare. Supponiamo ora che sopravvenga un secondo impulso che sprigioni piacere mediante lo stesso procedimento, anche se da fonti diverse, e che operi quindi nello stesso senso dell’impulso represso. Quale può essere il risultato in questo caso?

Un esempio ci orienterà meglio di quanto non possa fare questa schematizzazione. Supponiamo che vi sia l’impulso a ingiuriare una certa persona, ma che esso sia talmente ostacolato dal senso delle convenienze o civiltà estetica, che l’ingiuria non possa manifestarsi; se riuscisse a farsi strada, per esempio in virtù di una mutata situazione affettiva, o stato d’animo, questa irruzione della tendenza ingiuriosa sarebbe avvertita in seguito con un senso di dispiacere. L’ingiuria quindi non viene a galla. Potrebbe offrirsi però la possibilità di trarre, dal materiale di parole e pensieri destinato all’ingiuria, un buon motto, ossia di sprigionare piacere da altre fonti non ostacolate dalla stessa repressione. Peraltro, se l’ingiuria non fosse consentita, non si avrebbe questo secondo sviluppo di piacere; appena è consentita però, si ricollega ad essa anche il piacere sprigionato nel nuovo modo. L’esperienza dei motti tendenziosi dimostra che, in circostanze del genere, la tendenza repressa può ricevere, dall’ausilio del piacere dell’arguzia, la forza di superare l’inibizione che, altrimenti, sarebbe più forte. Si ingiuria perché l’ingiuria rende possibile il motto. Ma il compiacimento non è solo quello generato dal motto; è incomparabilmente più grande, tanto più grande del piacere dell’arguzia da farci supporre che la tendenza prima repressa sia riuscita a spuntarla senza subire praticamente nessuna sottrazione. Stando così le cose, il motto tendenzioso è quello che provoca la maggiore ilarità.157

Ricercando le condizioni che determinano il riso, giungeremo forse a formarci una rappresentazione più intuitiva di come si svolge l’ausilio fornito dal motto contro la repressione [vedi oltre, cap. 5]. Vediamo già fin d’ora però che il caso del motto tendenzioso è un caso speciale del “principio dell’ausilio”. Una possibilità di sviluppare piacere sopravviene in uno stato di cose in cui un’altra possibilità di piacere è ostacolata al punto che di per sé sola non darebbe alcun piacere; il risultato è uno sviluppo di piacere assai maggiore di quello della possibilità sopravveniente. Quest’ultima agisce quasi come un premio di allettamento; con l’ausilio di un piccolo ammontare offerto di piacere se ne ricava uno molto maggiore, altrimenti difficile da conseguire. Ho buone ragioni per supporre che questo principio corrisponda a un meccanismo che trova conferma in molti campi della vita psichica distanti tra loro, e ritengo un nome opportuno per il piacere che serve ad avviare il grande sprigionamento di piacere quello di piacere preliminare, e per il principio quello di principio del piacere preliminare.158

Possiamo ora definire con una formula la maniera d’operare del motto tendenzioso: esso, adoperando il piacere dell’arguzia come piacere preliminare, si pone al servizio di tendenze, per generare nuovo piacere sbarazzando da repressioni e rimozioni. Ripercorriamo ora la sua evoluzione: possiamo affermare che il motto è rimasto fedele alla sua natura dai suoi inizi fino al suo compimento. Esso comincia come giuoco per trarre piacere dal libero impiego di parole e pensieri. Appena la ragione, rafforzandosi, gli interdice questo giocare con le parole perché privo di senso e il giocare con i pensieri perché sciocco, si trasforma in scherzo, per poter conservare queste fonti di piacere e, insieme, ricavare nuovo piacere mettendo in libertà l’assurdo. Poi, come motto vero e proprio, non ancora tendenzioso, presta aiuto a certi pensieri e li rafforza contro la contestazione del giudizio critico, e nel far questo gli torna utile il principio della confusione delle fonti di piacere. E infine, s’affianca a grandi tendenze che lottano contro la repressione, per sbarazzarle dalle inibizioni interne conformemente al principio del piacere preliminare. La ragione – il giudizio critico – la repressione: sono queste le forze che esso combatte una dopo l’altra; tien fermo le fonti originarie del piacere verbale e, dal grado di scherzo in poi, dischiude nuove fonti di piacere abolendo inibizioni. Il piacere che esso genera, sia il piacere di giocare sia il piacere di sbarazzare, può essere sempre attribuito a risparmio di dispendio psichico, qualora questa concezione non contraddica all’essenza del piacere e si dimostri fruttuosa anche in altri campi.159

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