Capitolo 1
L’orrore dell’incesto

Le nostre conoscenze sull’uomo preistorico e sulle fasi di sviluppo che egli ha attraversato derivano dai monumenti inanimati e dagli strumenti pervenuti fino a noi, da ciò che sappiamo della sua arte, della sua religione e della sua concezione della vita – testimonianze conservate direttamente oppure tramandate sotto forma di leggende, miti e fiabe – e dai residui del suo modo di pensare ancor oggi rintracciabili nei nostri costumi e nei nostri usi. A parte questo, tuttavia, l’uomo preistorico è anche in un certo senso nostro contemporaneo; esistono ancor oggi uomini che noi consideriamo molto vicini all’uomo primitivo, molto più vicini, in ogni caso, di quanto lo siamo noi, e nei quali scorgiamo perciò i discendenti diretti e i rappresentanti degli uomini che ci hanno preceduti. È questo il modo in cui consideriamo le popolazioni cosiddette selvagge e semiselvagge, la cui vita psichica riveste un particolare interesse per noi, posto che la si possa intendere come una fase anteriore e ben conservata della nostra stessa evoluzione.

Se questa premessa è esatta, un’analisi comparata della “psicologia dei popoli primitivi” così come l’insegna l’etnologia, e della psicologia del nevrotico come la conosciamo attraverso la psicoanalisi, dovrà indicare numerose concordanze, e ci permetterà di scorgere in una nuova luce fenomeni già noti.

Motivi esterni non meno che interni mi inducono a scegliere, per compiere questo confronto, le tribù descritte dagli etnografi come le più miserabili e arretrate: gli aborigeni dell’Australia, il più giovane dei continenti, che ha conservato anche nella sua fauna tanti elementi arcaici e già scomparsi altrove.

Gli aborigeni dell’Australia sono considerati una razza particolare, che non permette di individuare né sotto l’aspetto fisico né sotto il profilo linguistico alcuna parentela con i vicini più prossimi: i popoli della Melanesia, della Polinesia e della Malesia. Non costruiscono né case né capanne durevoli, non coltivano il suolo, non allevano animali domestici, ad eccezione del cane. Non conoscono neppure la ceramica. Si nutrono esclusivamente della carne di tutti gli animali che riescono a uccidere e di radici che estraggono dal terreno. Non conoscono re né capi: le decisioni sugli affari di interesse comune spettano all’assemblea degli uomini maturi. È dubbio che si possano attribuire loro tracce di religione, intendendo con ciò l’adorazione di esseri superiori. Le tribù che vivono nell’interno del continente, costrette dalla scarsità d’acqua a combattere con condizioni di vita durissime, sono da tutti i punti di vista più primitive delle tribù stanziate lungo le coste.

Non potremo ovviamente attenderci che nella loro vita sessuale questi poveri cannibali nudi si comportino secondo i dettami della nostra moralità e che pongano molte limitazioni alle loro pulsioni sessuali. Eppure essi si propongono di evitare con ogni cura e con assoluta severità rapporti sessuali incestuosi. Anzi, tutta la loro organizzazione sociale sembra obbedire o quanto meno tendere a questo scopo.

Presso gli australiani le inesistenti istituzioni religiose e sociali sono sostituite dal sistema del “totemismo”. Le tribù australiane si compongono di stirpi o clan, che prendono il nome dal rispettivo totem.4 Che cos’è il totem? Di solito un animale, un animale commestibile, innocuo o pericoloso e temuto; oppure, più raramente, una pianta o un elemento naturale (pioggia, acqua) legato al clan da un rapporto particolare. Il totem è in primo luogo il progenitore del clan, ma ne è anche lo spirito tutelare e il soccorritore. Gli trasmette oracoli e, anche se rappresenta una forza ostile o pericolosa, conosce e risparmia i suoi protetti. I membri del clan, per contro, hanno il sacro dovere – pena la punizione automatica – di non uccidere (o distruggere) il loro totem e devono astenersi dalla sua carne (o dall’usufruirne in qualunque modo). Il carattere di totem non è insito in un singolo animale o in un singolo essere, ma in tutti gli individui della stessa specie. Di quando in quando si svolgono feste durante le quali i membri del clan rappresentano o imitano con danze rituali i movimenti e le caratteristiche del loro totem.

Il totem è ereditario o in linea materna o in linea paterna. È possibile che l’eredità per via materna sia dappertutto la forma originaria e sia stata sostituita da quella paterna soltanto in epoca successiva. Per l’australiano l’appartenenza al totem è il fondamento di ogni obbligo sociale: da un lato precede in importanza l’appartenenza alla tribù, e dall’altro sposta in secondo piano i rapporti di consanguineità.5

Il totem non è legato al suolo o all’ubicazione: i membri di un clan vivono separati in diverse località e convivono pacificamente con i membri di un clan diverso.6

Ora, infine, dobbiamo rivolgere la nostra attenzione a quella caratteristica del sistema totemistico che attira anche l’interesse dello psicoanalista. Quasi dovunque vige il totem, vige anche la legge secondo cui persone di uno stesso totem non possono avere rapporti sessuali tra di loro e non possono quindi contrarre matrimonio. È l’“esogamia” connessa col totem.

Questa proibizione, rigidamente applicata, è assai singolare. Niente di ciò che abbiamo appreso finora sul concetto o sulle caratteristiche del totem lascia prevedere un fatto del genere. Non si capisce perciò come esso sia penetrato nel sistema totemistico. Non dobbiamo quindi stupirci se alcuni studiosi suppongono addirittura che in origine – cioè all’inizio dei tempi e in via logica – l’esogamia non abbia niente a che fare con il totemismo, ma vi si sia aggregata in un momento successivo (quando si dimostrò necessario introdurre limitazioni nei matrimoni), senza che esista un nesso più profondo. Comunque sia, l’unificazione tra totemismo ed esogamia esiste e si dimostra assai salda.

Cerchiamo ora con ulteriori considerazioni di chiarire meglio il significato di questo divieto.

a) La trasgressione del divieto sessuale non viene abbandonata a una punizione per così dire automatica dei colpevoli, come accade per altri divieti totemici (per esempio nel caso di uccisione dell’animale totem), ma è punita con estrema energia dall’intera tribù, come se occorresse difendersi da un pericolo che minaccia tutta la comunità o da una colpa che rischia di opprimerla. Alcuni passi del libro di Frazer ci mostrano con quanta serietà considerano le trasgressioni a tale divieto questi selvaggi, che in base al nostro metro andrebbero considerati assai immorali:7

“In Australia la punizione normale per chi intrattiene rapporti sessuali con una persona appartenente a un clan proibito è la morte. Non ha importanza il fatto che la donna appartenga allo stesso gruppo locale o sia stata catturata in guerra a un’altra tribù; se un uomo del clan sbagliato se ne serve come moglie, viene perseguitato fino all’ultimo e ucciso dai suoi compagni di clan; e così la donna. Tuttavia in determinati casi, se i colpevoli riescono a evitare per un certo tempo la cattura, l’offesa può essere condonata. Nella tribù dei Ta-Ta-thi, nel Nuovo Galles del Sud, nei rari casi che si verificano, l’uomo viene ucciso ma la donna è soltanto percossa o trafitta con una lancia, o entrambe le cose, fino a portarla alle soglie della morte: la giustificazione data per la sua mancata uccisione è che la donna può essere stata costretta. Le proibizioni di clan sono osservate rigorosamente perfino in caso di rapporti passeggeri, e ogni violazione di queste proibizioni ‘è considerata con estremo orrore e punita con la morte’.”8

b) Poiché la stessa severa punizione viene applicata anche in caso di amoreggiamenti passeggeri che non hanno dato origine a figli, è improbabile che essa derivi da motivi di ordine pratico.

c) Dal momento che il totem è ereditario e non cambia col matrimonio, è facile misurare le conseguenze del divieto nel caso, ad esempio, di eredità in linea materna. Se un uomo appartiene a un clan che ha per totem il Canguro e sposa una donna che ha per totem l’Emù, i figli (maschi e femmine) sono tutti Emù. La regola del totem rende quindi impossibile a un figlio nato da questo matrimonio il rapporto incestuoso con la madre e le sorelle, che sono Emù al pari di lui.9

d) Basta però riflettere un momento per constatare che l’esogamia connessa col totem ha conseguenze – e quindi finalità – che vanno al di là della difesa dall’incesto con la madre e con le sorelle. Essa rende impossibile all’uomo anche l’unione sessuale con tutte le donne del suo clan – e cioè con un certo numero di femmine che non sono sue parenti di sangue – poiché considera tutte queste donne come consanguinee. A prima vista non è facile comprendere la giustificazione psicologica di questa enorme limitazione, che supera di gran lunga tutto ciò che le può essere paragonato presso i popoli civili. Pare di capire soltanto che il ruolo del totem (l’animale) come progenitore è preso estremamente sul serio. Tutto ciò che deriva dallo stesso totem è legato da un rapporto di consanguineità, è una famiglia, e in questa famiglia anche il più lontano grado di parentela è considerato un impedimento assoluto all’unione sessuale.

Questi selvaggi, insomma, ci rivelano un orrore o una sensibilità estremamente sviluppata nei confronti dell’incesto, unita alla particolarità – solo imperfettamente comprensibile per noi – di sostituire alla consanguineità reale la parentela col totem. Non dobbiamo tuttavia accentuare troppo questo contrasto, e occorre tenere presente che le proibizioni totemiche includono il vero e proprio incesto come caso particolare.

Come si sia giunti a sostituire la famiglia reale con la parentela totemica resta un enigma, la cui soluzione coincide forse con la spiegazione del totem stesso. Si osservi peraltro che ove esiste una certa libertà di rapporti sessuali al di fuori del matrimonio, la consanguineità e quindi anche la prevenzione dell’incesto divengono così insicure che non si può fare a meno di fondare il divieto su una base diversa. Non è quindi superfluo notare che i costumi degli australiani riconoscono condizioni sociali e occasioni solenni nelle quali il diritto coniugale esclusivo di un uomo su una donna viene infranto.

Il linguaggio di queste tribù australiane (e della maggior parte delle popolazioni totemistiche) presenta una caratteristica che rientra indubbiamente nel quadro che andiamo tracciando. Infatti i nomi di parentela dei quali essi si servono esprimono non il rapporto tra due individui, ma il rapporto tra un individuo e un gruppo. Questi nomi appartengono, secondo la definizione di L. H. Morgan,10 al sistema “classificatorio”. Ciò significa che un uomo chiama “padre” non soltanto il genitore, ma anche ogni altro uomo che in base alle norme tribali avrebbe potuto sposare sua madre e diventare così suo padre. E chiama “madre”, oltre la propria genitrice, ogni altra donna che avrebbe potuto diventarlo senza violare le leggi tribali. Chiama “fratelli” e “sorelle” non soltanto i figli dei suoi genitori effettivi, ma anche i figli di tutte le persone citate che, dato il rapporto di gruppo, potrebbero essergli padre e madre. I nomi di parentela con cui due australiani si interpellano non si riferiscono quindi necessariamente a una consanguineità, come dovrebbero secondo il nostro uso linguistico: contraddistinguono rapporti che sono assai più sociali che fisici. Qualcosa di analogo a questo sistema classificatorio esiste anche da noi, per esempio nei bambini, quando li esortiamo a salutare col nome di “zio” e “zia” ogni amico e amica dei genitori, oppure in senso figurato, quando parliamo di “fratelli in Apollo” (fratelli nell’arte di poetare) e di “sorelle in Cristo”.

La spiegazione di quest’uso linguistico così sorprendente per noi è abbastanza semplice se lo si considera come un residuo e una traccia di quella istituzione matrimoniale che il reverendo L. Fison ha chiamato “matrimonio di gruppo”, il quale consiste nel fatto che un certo numero di uomini esercita diritti coniugali su un certo numero di donne. A ragione quindi i figli nati da questo matrimonio di gruppo si considererebbero fratelli e sorelle, benché non tutti siano stati generati dalla stessa madre, e considererebbero come “padri” tutti gli uomini del gruppo.

Sebbene alcuni autori, come per esempio Westermarck,11 si oppongano alle conclusioni che altri studiosi hanno tratto dall’esistenza dei nomi di parentela di gruppo, tuttavia proprio i migliori conoscitori dei selvaggi australiani concordano nel dire che i nomi di parentela classificatori vanno considerati come residui dei tempi in cui vigeva il matrimonio di gruppo. Anzi, secondo Spencer e Gillen,12 è possibile stabilire che sussiste ancor oggi una certa forma del matrimonio di gruppo presso le tribù degli Urabunna e dei Dieri. Il matrimonio di gruppo avrebbe quindi preceduto presso questi popoli il matrimonio individuale, e non sarebbe scomparso senza lasciare chiare tracce della sua esistenza nella lingua e nei costumi.

Ma se al matrimonio individuale sostituiamo il matrimonio di gruppo, allora diventa comprensibile l’apparente eccesso di prevenzione dell’incesto che abbiamo riscontrato negli stessi popoli. L’esogamia totemica, la proibizione di rapporti sessuali tra membri dello stesso clan, appare il mezzo adatto per evitare l’incesto di gruppo, mezzo che poi è stato fissato ed è sopravvissuto per lungo tempo alla sua motivazione.

Se crediamo così di aver compreso nella loro motivazione le restrizioni matrimoniali dei selvaggi dell’Australia, dobbiamo poi constatare che le condizioni reali mettono in luce una situazione ancora più complicata, a prima vista assai disorientante. Sono poche infatti in Australia le tribù che non presentano altre proibizioni oltre alla barriera totemica. La maggior parte delle tribù sono organizzate in modo da dividersi in due sezioni o classi matrimoniali denominate fratrie (in inglese: phratries). Ognuna di queste classi matrimoniali è esogama e comprende una molteplicità di clan totemici. Di solito ogni fratria si suddivide ancora in due sottofratrie (subphratries), e l’intera tribù è quindi divisa in quattro, ove le sottofratrie si trovano tra le fratrie e i clan totemici.

Il tipico schema di organizzazione di una tribù australiana, quello che troviamo realizzato con grande frequenza, è perciò il seguente:

Schema

I dodici clan totemici sono sistemati in quattro sottofratrie e due fratrie. Tutte le sezioni sono esogame.13 La sottofratria c forma un’unità esogama con e, la sottofratria d un’unità esogama con f. Il risultato, cioè lo scopo cui mirano queste disposizioni, non è dubbio: in tal modo si introduce un’ulteriore restrizione nella scelta matrimoniale e nella libertà sessuale. Se esistessero soltanto i dodici clan totemici, ogni membro di un clan – supponendo che ogni clan abbia un ugual numero di uomini – potrebbe scegliere tra gli undici dodicesimi di tutte le donne della tribù. L’esistenza delle due fratrie limita questa cifra a sei dodicesimi, cioè alla metà: un uomo del totem a può sposare soltanto una donna appartenente ai clan da 1 a 6. Con l’introduzione delle quattro sottofratrie, la scelta si riduce a tre dodicesimi, cioè un quarto: un uomo appartenente al totem a deve limitare la sua scelta alle donne dei totem 4, 5, 6.

Le relazioni storiche delle classi matrimoniali – che in alcune tribù raggiungono il numero di otto – con i clan totemici sono del tutto inspiegate. Ciò che si riesce a intuire è che queste disposizioni mirano a raggiungere lo stesso obiettivo che si prefigge l’esogamia totemica, anzi vanno ancora oltre. Ma mentre l’esogamia totemica dà l’impressione di un canone sacro sorto non si sa come, e quindi di un costume, le complicate istituzioni delle classi matrimoniali, delle loro suddivisioni e delle condizioni che ne derivano sembrano provenire da una legislazione conscia dei propri obiettivi, la quale forse assunse in un secondo tempo il compito di tener lontano l’incesto perché l’influenza del totem andava decadendo. E mentre il sistema totemico, come sappiamo, è il fondamento di tutti gli altri obblighi sociali e di tutte le altre limitazioni morali della tribù, il significato delle fratrie si esaurisce in generale nel regolare la scelta matrimoniale, regolazione che costituisce appunto la loro finalità.

Nel perfezionamento ulteriore del sistema delle classi matrimoniali appare una tendenza ad andare oltre alla prevenzione dell’incesto naturale e dell’incesto di gruppo e a vietare matrimoni tra parenti di gruppi più distanti, analogamente a quanto ha fatto la Chiesa cattolica allargando le proibizioni già esistenti per il matrimonio tra fratello e sorella, in vigore da tempi immemorabili, al matrimonio tra cugini e persino al matrimonio tra gradi di parentela spirituale.14

Sarebbe di poca utilità, ai fini dell’argomento che ci interessa, volerci addentrare più a fondo nelle discussioni, estremamente contorte e oscure, sull’origine e sul significato delle classi matrimoniali e sul loro rapporto con il totem. Basterà al nostro fine accennare alla grande cura che gli australiani, come anche altri popoli selvaggi, pongono nell’evitare l’incesto.15 Dobbiamo dire che, nei riguardi dell’incesto, questi selvaggi sono perfino più sensibili di noi. Probabilmente la tentazione è più forte per loro, cosicché hanno bisogno di una più adeguata protezione per difendersene.

L’orrore dell’incesto proprio di questi popoli non si accontenta di erigere le istituzioni che abbiamo descritto e che ci sembrano principalmente dirette contro l’incesto di gruppo. Dobbiamo aggiungere una serie di “costumi” che proteggono i rapporti individuali di parenti prossimi intesi nel nostro senso, costumi che sono osservati con severità quasi religiosa e il cui scopo non può praticamente apparirci dubbio. Questi costumi o divieti tradizionali consistono nell’“evitare” certe persone (in inglese: avoidances). La loro diffusione si estende ben oltre le popolazioni totemistiche australiane. Dovrò tuttavia pregare anche qui i lettori di contentarsi di una sintesi frammentaria tratta dal ricco materiale esistente.

In Melanesia questi divieti limitativi sono diretti contro i rapporti del fanciullo con la madre e con le sorelle. Sull’isola Lepers per esempio, una delle Nuove Ebridi, il giovinetto, raggiunta una certa età, abbandona la casa materna e si trasferisce nella “casa dell’associazione” (club-house), dove dormirà e prenderà i suoi pasti regolarmente. Naturalmente può ancora far visite in casa sua per chiedere del cibo; ma se una sua sorella è in casa, egli deve andarsene prima di aver mangiato; se le sorelle sono assenti, può sedersi in prossimità della porta per mangiare. Se fratello e sorella s’incontrano per caso all’aperto, la sorella si deve allontanare o nascondere, appartandosi. Se il giovinetto vede orme di passi sulla sabbia e le riconosce come quelle della sorella, non le seguirà, come la sorella non seguirà le sue. Anzi, egli non pronuncerà neppure il nome di lei, e si guarderà dall’usare una parola comune se questa fa parte di tale nome. Questo evitare la sorella, che ha inizio con la cerimonia della pubertà, viene mantenuto per tutta la vita. La riservatezza tra madre e figlio cresce con l’andar degli anni, e del resto procede prevalentemente dalla madre. Se essa porta al figlio qualcosa da mangiare, non glielo porge personalmente ma lo depone davanti a lui; non gli rivolge la parola in tono confidenziale e non gli dice – secondo il nostro uso linguistico – “tu”, bensì “Lei”.16

Costumi analoghi regnano nella Nuova Caledonia. Quando fratello e sorella s’incontrano, la donna fugge nella boscaglia e il maschio tira dritto senza volgere il capo.17

Nella Penisola Gazzella, nella Nuova Britannia, una sorella non può più, a partire dal momento del suo matrimonio, parlare col fratello, non ne pronuncia più neppure il nome, ma lo designa con una circonlocuzione.18

Nella Nuova Meclemburgo [poi Nuova Irlanda] cugino e cugina (anche se non di ogni grado) sono soggetti a restrizioni simili, che valgono anche tra fratello e sorella. È vietato loro di accostarsi, non possono darsi la mano, né farsi regali, ma possono rivolgersi la parola a qualche passo di distanza. La punizione per l’incesto con la sorella è la morte mediante impiccagione.19

Nelle isole Figi le regole che impongono di evitare certe persone sono particolarmente severe: esse riguardano non soltanto i consanguinei ma anche fratelli e sorelle di gruppo. Tanto maggiore è la nostra sorpresa nell’apprendere che questi selvaggi conoscono orge sacre nelle quali proprio coloro che sono legati da questi gradi di parentela ricercano l’unione sessuale; a meno che noi preferiamo servirci di questo contrasto per spiegare il divieto, anziché stupirci della sua esistenza.20

Tra i Batta di Sumatra il precetto di evitare certe persone coinvolge i rapporti tra parenti prossimi. Sarebbe estremamente scandaloso, per esempio, che un Batta accompagnasse la sorella a una riunione serale. Un Batta si sente a disagio in compagnia della sorella anche se sono presenti altre persone. Se uno dei due entra in casa, l’altro preferisce uscire. Neanche il padre resta solo in casa con sua figlia, così come la madre non resta in casa con il figlio. Il missionario olandese che riferisce questi costumi aggiunge di essere purtroppo costretto a considerarli assai giustificati. Presso questo popolo viene dato per scontato che quando un uomo e una donna si trovano soli si abbandonano a un’intimità sconveniente, e, poiché dal rapporto tra parenti prossimi si aspettano ogni possibile punizione e triste conseguenza, fanno bene a evitare, mediante tali divieti, tutte le tentazioni.21

Tra i Barongo della baia di Delagoa in Africa [Mozambico], le precauzioni più severe riguardano, stranamente, la cognata, ossia la moglie del fratello della propria moglie. Se un uomo incontra in qualche luogo questa persona per lui pericolosa, la evita con cura. Egli non osa mangiare nella stessa ciotola di lei, le rivolge la parola solo dopo molte esitazioni, non si azzarda a entrare nella sua capanna e la saluta soltanto con voce tremante.22

Presso gli Akamba (o Wakamba) dell’Africa orientale britannica è in vigore un divieto che ci saremmo aspettati di incontrare più spesso. Nell’età che va dalla pubertà al matrimonio una fanciulla deve evitare con cura suo padre. Quando lo incontra per strada si nasconde, non cerca mai di sedersi accanto a lui, e si comporta così fino al momento del fidanzamento. Dopo il matrimonio i suoi rapporti col padre non incontrano più ostacoli.23

La misura cautelativa di gran lunga più diffusa, più rigorosa e più interessante anche per dei popoli civili è quella che impone a un uomo di evitare la suocera. È una misura assolutamente generalizzata in Australia, ma è in vigore anche tra i popoli della Melanesia, della Polinesia e i popoli negri dell’Africa, dovunque sussistono tracce di totemismo e di parentela di gruppo, e verosimilmente è ancora più estesa. Presso alcuni di questi popoli sussistono proibizioni analoghe nei confronti dei rapporti innocenti di una donna con il suocero, ma sono di gran lunga meno costanti e meno serie. In casi isolati sia suocero che suocera sono tenuti a evitarsi. Poiché ci interessa meno la diffusione etnografica che non il contenuto e lo scopo della proibizione riguardante la suocera, mi limiterò anche qui a riferire pochi esempi.

Nelle isole Banks [Nuove Ebridi] questi precetti sono assai severi e minuti. L’uomo deve evitare la vicinanza della suocera, e questa deve evitare quella del genero. Se s’incontrano per caso su un sentiero, la donna si fa da parte e gli volta la schiena fin quando egli è passato, oppure è l’uomo che si comporta in tal modo.

A Vanua Lava [isola delle Nuove Ebridi], e precisamente a Port Patteson, l’uomo non cammina neppure dietro la suocera sulla spiaggia fin quando l’alta marea non abbia cancellato le orme della donna sulla sabbia. Essi possono tuttavia rivolgersi la parola tenendosi a una certa distanza. È assolutamente escluso che l’uomo pronunci mai il nome della suocera o che la donna nomini il genero.24

Nelle isole Salomone non è concesso all’uomo né di vedere né di parlare con la suocera dal momento del suo matrimonio. Se egli l’incontra finge di non conoscerla e corre a nascondersi più in fretta che può.25

Tra gli Zulù il costume impone che un uomo si vergogni della propria suocera e che faccia il possibile per evitarne la compagnia. Egli non entra nella capanna in cui si trova la donna e, se si incontrano, o l’uno o l’altra si scansa: la donna si nasconde dietro un cespuglio, l’uomo si cela il viso con lo scudo. Se non possono evitarsi e la donna non ha altro modo di celarsi, si lega almeno un ciuffo d’erba intorno al capo, per rispettare nei limiti del possibile il cerimoniale. I rapporti tra suocera e genero avvengono o attraverso una terza persona oppure gridando da una certa distanza, quando esista tra l’uno e l’altro una qualche barriera, per esempio il recinto del kraal. Nessuno dei due può pronunciare il nome dell’altro.26

Presso i Basoga, una tribù negra stanziata alle sorgenti del Nilo, l’uomo può parlare alla suocera soltanto se essa si trova in un altro vano della casa e non è vista da lui. Questo popolo inoltre aborre talmente dall’incesto che non lo lascia impunito nemmeno quando si verifica tra animali domestici.27

Mentre lo scopo e il significato delle altre misure cautelative tra parenti prossimi non lasciano adito a dubbi, cosicché tutti gli osservatori le hanno interpretate come norme protettive contro l’incesto, i divieti che colpiscono i rapporti tra genero e suocera hanno ricevuto da qualcuno una diversa interpretazione. È sembrato incomprensibile, e con ragione, che tutti questi popoli dovessero mostrare una paura così grande di fronte a una tentazione che si presenta all’uomo nelle vesti di una donna ormai vecchia, che potrebbe essere, anche se di fatto non è, sua madre.28

Questa obiezione è stata avanzata anche contro la concezione di Fison, il quale ha richiamato l’attenzione su un punto importante, cioè che determinati sistemi di classi matrimoniali mostrano una lacuna giacché non rendono teoricamente impossibile il matrimonio tra un uomo e la suocera. Per questo motivo sarebbe necessaria una particolare garanzia contro siffatta possibilità.29

Sir John Lubbock, nella sua opera sull’origine della civiltà, fa risalire il comportamento della suocera verso il genero all’antico matrimonio per ratto (marriage by capture). “Finché è esistito realmente il ratto delle donne, anche l’indignazione dei genitori dev’essere stata reale; quando il ratto divenne un puro simbolo, anche l’ira dei genitori dovette venir simboleggiata, sopravvivendo così anche quando la sua origine era già stata dimenticata.”30 Crawley non incontra difficoltà a dimostrare come questo tentativo di spiegazione sia inadeguato a interpretare i singoli elementi che l’osservazione dei fatti mette in luce.31

Tylor pensa che il trattamento che la suocera riserva al genero non sia altro che una forma di “non riconoscimento” (cutting) da parte della famiglia della moglie: fin quando non è nato il primo figlio, l’uomo è considerato un estraneo.32 Ma anche prescindendo dai casi in cui l’attesa nascita non rimuove il divieto, a tale spiegazione si può obiettare che essa non chiarisce l’orientamento del costume sul rapporto tra suocera e genero, vale a dire trascura il fattore sessuale, e non tiene conto dell’elemento di orrore quasi sacrale che i comandamenti cautelativi esprimono.33

Si deve a una donna zulù, interrogata sul motivo di questa proibizione, una risposta assai delicata: “Non è bene che egli veda le mammelle che hanno allattato sua moglie.”34

Com’è noto, i rapporti tra genero e suocera rientrano, anche presso i popoli civili, tra i lati scabrosi dell’organizzazione familiare. Nella società dei popoli bianchi d’Europa e d’America non esistono più, s’intende, precetti restrittivi per genero e suocera, ma spesso si eviterebbero molti litigi e molte spiacevolezze se queste norme esistessero ancora come costume e non dovessero essere ricostituite dai singoli individui. A molti europei può sembrare un atto di grande saggezza il fatto che i popoli selvaggi abbiano escluso a priori, con le loro misure cautelative, il sorgere di un’intesa tra due persone tra le quali si crea un così stretto rapporto di parentela. È indubbio che la situazione psicologica di suocera e genero contiene qualcosa che stimola la reciproca avversione e rende difficile la loro convivenza. Se i motti di spirito dei popoli civili si appuntano tanto volentieri proprio sul tema della suocera, ciò indica a parer mio che le relazioni emotive tra i due contengono componenti in stridente contrasto tra loro. Io credo che si tratti di un rapporto “ambivalente”, costituito da moti opposti, di tenerezza e di ostilità.

Alcuni di questi impulsi sono manifesti. Da parte della suocera l’avversione a rinunciare al possesso della figlia, la diffidenza verso l’estraneo al quale la figlia è affidata, la tendenza ad affermare una posizione di dominio come quella a cui era avvezza in casa propria. Da parte dell’uomo la decisione di non sottomettersi più a una volontà che non sia la sua, la gelosia verso tutte le persone che hanno goduto prima dell’affetto della moglie e – last but not least – il desiderio che non venga turbata l’illusione che sorge dalla sopravvalutazione sessuale. Intendo con ciò il turbamento che perlopiù procede dalla figura della suocera, la quale gli ricorda la figlia attraverso tanti tratti comuni, eppure è ormai priva dell’attrazione della giovinezza, della bellezza e della freschezza spirituale, che costituiscono ai suoi occhi il fascino della moglie.

Grazie all’esame psicoanalitico di singoli individui abbiamo una conoscenza degli impulsi latenti nella psiche che ci consente di aggiungere altri motivi a questi che abbiamo enunciato. Là dove è indispensabile che i bisogni psicosessuali della donna siano soddisfatti nel matrimonio e nella vita di famiglia, sussiste sempre per lei il pericolo dell’insoddisfacimento per la cessazione prematura del rapporto coniugale e per il vuoto nella sua vita sentimentale. Invecchiando, la madre si difende da queste possibilità immedesimandosi con i sentimenti dei figli, identificandosi con loro, facendo proprie le loro esperienze emotive. Si dice che i genitori restano giovani attraverso i loro figli; e questo è in effetti uno dei più preziosi vantaggi psichici che i genitori traggono dai figli. Se non ci sono figli, viene a mancare uno dei migliori sostegni a sopportare la rassegnazione che il matrimonio richiede. Accade facilmente che la madre proceda tanto oltre in questa immedesimazione sentimentale con la figlia da innamorarsi a sua volta dell’uomo amato dalla figlia e, in casi acuti, la veemente resistenza psichica opposta a questa situazione emotiva provoca gravi forme di malattia nevrotica. La tendenza a tale innamoramento è sempre frequente nella suocera, e o questa tendenza o quella opposta, di resistenza alla prima, sono coinvolte nell’intrico di forze che lottano tra loro nella psiche della suocera. Molto spesso viene rivolta verso il genero proprio la componente aggressiva, sadica, dell’eccitazione amorosa, per reprimere con maggior sicurezza la componente proibita, affettuosa.

Il rapporto dell’uomo con la suocera è complicato da impulsi analoghi, che derivano però da altre fonti. Sempre avviene che l’oggetto del suo amore è da lui trovato solo dopo essere passato attraverso una scelta provvisoria legata all’immagine della madre e forse anche della sorella. Data la barriera costituita dall’incesto, la sua predilezione scivola dalle due persone care della sua infanzia, per approdare su un oggetto estraneo modellato sulla loro immagine. In luogo della propria madre, madre anche di sua sorella, egli vede ora avanzare la suocera; sente in sé una tendenza a riaffondare nella scelta originaria, ma tutto in lui si oppone. Il suo orrore dell’incesto esige che non gli si ricordi la genealogia della sua scelta amorosa. L’attualità della suocera, che egli non conosce da sempre come invece conosce la madre, cosicché non vi è un’immagine che ha potuto essere conservata immutata nell’inconscio, gli rende facile il rifiuto. Una vena di eccitabilità e di astio in questo viluppo emotivo ci fa supporre che la suocera rappresenti effettivamente una tentazione di incesto per il genero, e d’altra parte accade non di rado che un uomo s’innamori palesemente della sua futura suocera prima che la sua inclinazione si trasferisca sulla figlia.

Non vedo alcun ostacolo all’ipotesi che sia proprio il fattore incestuoso del rapporto a motivare presso i selvaggi la fuga dai contatti tra suocera e genero. Preferiremmo quindi spiegare le misure cautelative di questi popoli primitivi – misure applicate con tanta severità – con l’opinione espressa molti anni fa da Fison [p. 39], il quale in queste prescrizioni non scorge altro che una difesa aggiuntiva contro il possibile incesto. Lo stesso varrebbe per tutte le altre misure cautelative tra consanguinei e parenti acquisiti. Resterebbe quest’unica differenza: che nel primo caso l’incesto è diretto, e l’intenzione di evitarlo potrebbe essere cosciente; nell’altro caso, che include il rapporto con la suocera, l’incesto sarebbe una tentazione della fantasia, un incesto mediato da inframmettenze inconsce.

Nell’esposizione precedente abbiamo avuto ben poca occasione di mostrare che il ricorso all’osservazione psicoanalitica può permetterci di guardare con nuova comprensione ai fatti della psicologia dei popoli: l’orrore dell’incesto nei selvaggi, infatti, è stato identificato da tempo e non ha bisogno di ulteriori spiegazioni. Ciò che possiamo aggiungere per intenderlo meglio è l’affermazione che questo orrore è un tratto squisitamente infantile, e costituisce una analogia evidentissima con la vita psichica del nevrotico. La psicoanalisi ci ha insegnato che la prima scelta dell’oggetto sessuale da parte del bambino è incestuosa, s’indirizza su oggetti rigorosamente proibiti, la madre e la sorella;35 e ci ha permesso anche di conoscere per quali strade l’adulto si libera dall’attrazione dell’incesto. Il nevrotico invece ci rappresenta regolarmente un tratto d’infantilismo psichico: o non è stato in grado di liberarsi dalle situazioni psicosessuali infantili, oppure è ritornato a questa fase (inibizione dello sviluppo, nel primo caso, e regressione, nel secondo). Nella sua vita psichica inconscia perciò le fissazioni incestuose della libido svolgono sempre – o tornano a svolgere – un ruolo determinante. Siamo giunti a considerare il rapporto con i genitori, dominato dal desiderio dell’incesto, come il complesso nucleare della nevrosi. La scoperta di questo significato dell’incesto per la nevrosi urta naturalmente contro la generale incredulità degli individui adulti e normali. Lo stesso rifiuto è opposto, per esempio, anche ai lavori di Otto Rank,36 che provano in misura sempre più imponente con quanta frequenza il tema dell’incesto sta al centro dell’interesse dei poeti e, attraverso innumerevoli variazioni e deformazioni, fornisce il materiale alla poesia. Siamo costretti a credere che tale rifiuto è soprattutto un prodotto della profonda ripugnanza che l’uomo prova verso i propri desideri incestuosi di un tempo, sommersi nel frattempo dalla rimozione. Non è quindi privo d’importanza per noi poter provare che i popoli selvaggi sentono ancora come attuale la minaccia dei desideri incestuosi dell’uomo, destinati a cadere in seguito nella sfera dell’inconscio, e ritengono necessario difendersene con regole severissime.

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