Falso riconoscimento (“già
raccontato”)
durante il lavoro psicoanalitico
Durante il lavoro analitico accade non di rado che il paziente accompagni l’esposizione di un fatto da lui ricordato con l’osservazione “Ma questo Gliel’ho già raccontato”, mentre lo stesso analista è sicuro di non aver mai sentito prima il racconto in questione. Se questa obiezione viene esternata al paziente, costui reagirà spesso con energia, sostenendo di essere assolutamente certo di quel che dice, di essere pronto a giurarlo e così via; ma la convinzione dell’analista di avere sentito raccontare quel fatto per la prima volta si rafforzerà in proporzione. Ora, sarebbe un procedimento del tutto antipsicologico se l’analista volesse decidere la disputa facendo la voce più grossa del paziente o lo sovrastasse con la forza delle proprie argomentazioni. Come è noto tale intimo convincimento della fedeltà della propria memoria non ha alcun valore oggettivo, e poiché è certo che uno dei due si sbaglia, sia il medico che il paziente possono essere incorsi in una paramnesia. Se questa possibilità viene ammessa col paziente, la disputa si interrompe, e la sua risoluzione viene rinviata a un’occasione successiva.
In un numero limitato di casi l’analista giungerà a ricordare egli stesso di avere già udito la comunicazione in questione, e troverà nello stesso tempo il motivo soggettivo, spesso molto indiretto e mediato, di questo temporaneo accantonamento. Ma nella grande maggioranza dei casi è il paziente che si è sbagliato; e si può anche portarlo a riconoscere il suo errore. La spiegazione di questo frequente fenomeno sembra essere che egli ha già avuto realmente l’intenzione di fornire questa informazione, che realmente ha tentato una o più volte, con osservazioni preparatorie, di dire quella certa cosa, ma poi la resistenza gli ha impedito di portare a termine il suo proposito, e ora la memoria confonde l’intenzione con la sua realizzazione.
Ora io lascerò da parte tutti i casi in cui può rimanere qualche elemento di dubbio, e ne metterò in primo piano alcuni che hanno un particolare interesse teorico. Accade, e accade ripetutamente, che certe persone affermino con particolare ostinazione di avere già raccontato questo o quello proprio quando la situazione esclude assolutamente che ciò possa esser vero. Ora ciò che costoro pretendono di aver già raccontato in passato e di riconoscere ora come qualcosa di familiare che anche il medico dovrebbe già sapere, sono ricordi di valore inestimabile per l’analisi, conferme attese da molto tempo, soluzioni che pongono termine a una parte del lavoro e di cui lo psicoanalista avrebbe certamente fatto la base per un’approfondita discussione. Di fronte a queste considerazioni anche il paziente è ben presto disposto ad ammettere che la sua memoria deve averlo ingannato, anche se non riesce a spiegarsi come ciò possa essere avvenuto.
Il fenomeno che il paziente presenta in simili casi merita il nome di “falso riconoscimento” (fausse reconnaissance), ed è del tutto analogo agli altri casi in cui si ha spontaneamente la sensazione di essersi già trovati in una certa situazione, di aver già vissuto una certa esperienza (il “già veduto” o déjà vu), senza che si sia in grado di convalidare questa convinzione ritrovando nella propria memoria il ricordo di quella precedente occasione. È noto che questo fenomeno ha suscitato numerosi tentativi di spiegazione, che possono essere classificati grosso modo in due categorie.393 Secondo il primo tipo di spiegazione si ritiene che la sensazione che dà luogo a questo fenomeno sia degna di fede e che si tratti effettivamente di un ricordo; il problema è solo di determinare che cosa viene ricordato. A un gruppo di gran lunga più numeroso appartengono quelle spiegazioni secondo cui si tratta invece di un inganno della memoria, e che si propongono di indagare come possa essersi determinato questo atto mancato paramnestico. Questo gruppo di spiegazioni comprende molte ipotesi diverse, cominciando da quella antichissima attribuita a Pitagora, secondo cui il fenomeno del “già veduto” costituisce una prova di un’esistenza individuale precedente, per proseguire con l’ipotesi basata sull’anatomia che spiega il fenomeno con un’assenza di simultaneità nel funzionamento dei due emisferi cerebrali (Wigan, 1860),394 fino alle teorie puramente psicologiche della maggior parte degli autori contemporanei, che nel “già veduto” scorgono il segno di una debolezza appercettiva, e attribuiscono la responsabilità del fenomeno alla stanchezza, all’esaurimento, alla distrazione.
Nel 1904 Grasset ha dato una spiegazione del “già veduto” che deve essere catalogata fra quelle che “credono” nel fenomeno in quanto tale.395 Egli ha pensato che il fenomeno costituisca un indizio del fatto che in un periodo precedente si è verificata una percezione inconscia, che raggiunge la coscienza solo ora, sotto l’influsso di un’impressione nuova e similare. Parecchi altri autori hanno aderito a questa tesi, e hanno sostenuto che alla base del fenomeno sta il ricordo di qualcosa che è stato sognato e poi dimenticato. In entrambi i casi si tratterebbe dell’attivazione di un’impressione inconscia.
Nel 1907, nella seconda edizione della mia Psicopatologia della vita quotidiana (1901) [cap. 12], ho proposto una spiegazione di questa presunta paramnesia del tutto analoga a quella di Grasset, senza conoscere o citare il suo lavoro. A titolo di giustificazione posso forse dire che la mia teoria era il risultato di una ricerca psicoanalitica che avevo potuto condurre su una malata; si trattava di un caso di “già veduto” molto chiaro, che però risaliva a circa ventotto anni prima.396 Non intendo ripetere ora la piccola analisi. Il suo risultato era stato che la situazione in cui era comparso il “già veduto” era veramente adatta a destare il ricordo di una precedente esperienza dell’analizzata. La paziente, che aveva allora dodici anni, si era recata in visita presso una famiglia dove c’era un fratello gravemente ammalato, in punto di morte, e alcuni mesi prima il proprio fratello si era trovato, analogamente, in pericolo di vita. Ma alla prima di queste due esperienze simili era stata associata una fantasia incapace di diventare cosciente – il desiderio che il fratello morisse, – e quindi la fanciulla non poteva prendere coscienza dell’analogia dei due casi. La percezione di tale analogia era sostituita dal fenomeno dell’“avere già vissuto prima questa esperienza”, giacché l’identità fu spostata dal vero elemento comune alla località.
Sappiamo che l’espressione “già veduto” (déjà vu) sta per tutta una serie di fenomeni analoghi, per un “già udito” (déjà entendu), un “già vissuto” (déjà éprouvé), un “già sentito” (déjà senti). L’esempio seguente, che riferisco al posto di molti altri casi che gli somigliano, contiene un “già raccontato”, che sarebbe dunque da ricondursi a una risoluzione inconscia che non fu mai portata a termine.
Un paziente397 racconta nel corso delle sue associazioni: “Quando giocavo nel giardino con un coltello (avevo cinque anni) e mi sono tagliato il mignolo – oh, ho soltanto creduto che si fosse tagliato! –, ma Le ho già raccontato questa storia.”
Io gli assicuro che non riesco a ricordare nulla di simile. Egli insiste sempre più convinto che non può sbagliarsi. Alla fine tronco la discussione nel modo indicato all’inizio, e lo prego di ripetere in ogni caso la storia. Poi si vedrà.
“Quando avevo cinque anni giocavo in giardino vicino alla mia bambinaia, e col mio temperino incidevo la corteccia di uno di quei noci che compaiono anche nel mio sogno.398 Improvvisamente, con indicibile terrore mi accorsi che mi ero tagliato il mignolo della mano (destra o sinistra?) in modo che stava appeso solo per la pelle. Non provavo dolore, ma una grande angoscia. Non osai dire nulla alla bambinaia che si trovava solo pochi passi più in là, mi lasciai cadere sulla panchina più vicina e rimasi seduto, incapace di dare una sola occhiata al dito. Alla fine mi calmai, guardai il dito e vidi che non era minimamente ferito.”399
Fummo presto d’accordo che egli non poteva avermi raccontato prima questa visione o allucinazione. Egli capì benissimo che io non avrei rinunciato a utilizzare una simile prova dell’esistenza della sua paura dell’evirazione all’età di cinque anni. La sua resistenza contro l’ammissione del complesso di evirazione era così spezzata; ma egli pose la domanda: “Perché sono stato tanto convinto di avere già raccontato questo ricordo?”
A questo punto ci venne in mente, a tutti e due, che egli aveva raccontato ripetutamente, in occasioni diverse, il piccolo ricordo che segue, ma senza che ne traessimo alcun profitto:
“Una volta che lo zio partì per un viaggio chiese a me e a mia sorella che cosa volevamo che ci portasse. Mia sorella desiderava un libro, io un temperino.” Ora capimmo che questa idea improvvisa affiorata mesi prima era in realtà un ricordo di copertura per il ricordo rimosso, e un tentativo (soffocato dalla resistenza) di raccontare l’episodio di questa supposta perdita del mignolo (un inequivocabile equivalente del pene). Il coltello, che lo zio gli aveva effettivamente portato, era lo stesso, secondo quanto egli rammentava chiaramente, di quello che aveva fatto la sua comparsa nell’episodio represso così a lungo.
Credo sia superfluo aggiungere altro su questa piccola esperienza, nella misura in cui getta luce sul fenomeno del “falso riconoscimento”. Quanto al contenuto della visione del paziente, vorrei osservare che tali falsificazioni allucinatorie proprio nel quadro del complesso di evirazione non sono infrequenti, e possono servire anche a correggere percezioni indesiderate.
Nel 1911 una persona di cultura universitaria che non conosco e di cui ignoro l’età, residente in una piccola città universitaria tedesca, mi mette a disposizione i seguenti ricordi della sua infanzia.
“Quando ho letto il Suo studio su un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci [1910], le osservazioni che sono esposte circa all’inizio del capitolo 3 mi hanno trovato in disaccordo. La Sua affermazione400 che i bambini maschi sono dominati dall’interesse per il proprio genitale ha suscitato in me una reazione che si può esprimere così: ‘Se questa è la legge generale, in ogni caso io sono un’eccezione.’ Ho letto il brano successivo401 con il massimo stupore, con quello stupore che si prova quando si apprende un fatto completamente nuovo. Ora nel bel mezzo del mio stupore mi sovviene un episodio che mi insegna – con mia sorpresa – che forse quel fatto non mi è così nuovo come sembra. Poiché quando mi trovavo nell’età dell’‘esplorazione sessuale infantile’ per un caso fortunato ebbi occasione di esaminare un genitale femminile, in una piccola coetanea, e vidi con perfetta chiarezza un pene della specie del mio. Ma poco dopo la visione di statue e nudi femminili mi gettò in un nuovo stato di confusione, e per sfuggire a questa discrepanza ‘scientifica’ escogitai questo esperimento: premevo le cosce in modo tale che il mio genitale vi scomparisse dentro, e costatavo con soddisfazione che in questo modo ogni differenza fra me e un nudo femminile era venuta meno. Evidentemente – pensavo – anche nei nudi femminili il genitale era fatto scomparire nello stesso modo.
“A questo punto mi viene in mente un altro ricordo, che è sempre stato della massima importanza per me, perché è uno dei tre ricordi che costituiscono tutto quel che riesco a rammentare di mia madre, morta precocemente. Mia madre è davanti al lavandino e pulisce i bicchieri e il catino, mentre io gioco nella stessa stanza e combino qualche guaio. Per punizione mi si batte sulla mano: e con enorme sgomento vedo che il mio mignolo cade, e cade proprio nel catino. Sapendo che mia madre è in collera non oso dire nulla, e il mio sgomento aumenta ancora di più quando vedo che subito dopo la domestica porta via il catino. Sono rimasto convinto per molto tempo di aver perso un dito – probabilmente fino a quando non imparai a contare.
“Ho spesso cercato di interpretare questo ricordo, che – come ho già detto – è sempre stato della massima importanza per me, a causa della sua relazione con mia madre; ma nessuna di queste interpretazioni mi aveva soddisfatto. Solo ora – dopo la lettura del Suo scritto – comincio a intuire una soluzione semplice e soddisfacente dell’enigma.”
C’è un altro tipo di “falso riconoscimento” che non di rado si presenta alla conclusione di un trattamento, con soddisfazione del medico. Dopo che costui è riuscito a rendere accetto al paziente l’evento rimosso (reale o psicologico che sia) contro tutte le resistenze, in certo qual modo riabilitando l’evento stesso, accade che il paziente dica: “Ora ho la sensazione di averlo sempre saputo.” A questo punto il compito dell’analisi è finito.402