Introduzione allo studio
psicologico
su Thomas Woodrow Wilson
Quando un autore decide di presentare al pubblico il proprio giudizio su un personaggio storico, raramente dimentica di assicurare preliminarmente i lettori di aver fatto ogni sforzo per tenersi libero da parzialità e prevenzioni affettive e, per dirla con la bella formula cara ai classici, di aver lavorato sine ira et studio. Io, invece, sono costretto a iniziare il mio contributo a questo studio psicologico su Thomas Woodrow Wilson8 con l’ammissione che la figura del Presidente americano, non appena apparve all’orizzonte di noi Europei, mi fu subito antipatica, e che questa avversione andò aumentando nel corso degli anni, quante più cose venivamo a sapere di lui e quanto più intensamente soffrivamo a causa degli eventi che la sua intrusione nel nostro destino aveva fatto maturare.
Via via che le conoscenze su di lui andavano precisandosi, non mi fu difficile confortare questo atteggiamento emotivo con il supporto di ottime ragioni. Si racconta che Wilson, appena eletto Presidente, si sia sbarazzato con queste parole di un uomo politico che gli rammentava i servizi che gli aveva reso proprio durante la campagna elettorale: “Dio ha disposto che io diventassi il nuovo Presidente degli Stati Uniti. Né voi né alcun altro mortale avrebbe potuto ostacolarmi.”9 Non riesco a fare a meno di pensare che un uomo così disposto a prendere alla lettera le false promesse della religione e così convinto di avere con la divinità uno speciale e personale rapporto, sia assolutamente inadatto ai normali rapporti con i comuni figli dell’uomo. Come tutti sanno, durante la guerra, in uno dei due schieramenti in lotta c’era un uomo prediletto dalla Provvidenza.10 Ed è davvero deplorevole che in seguito ne sia sopraggiunto un altro sul fronte avversario. Non c’è chi ne abbia tratto vantaggio, e la potestà divina non ha certo acquistato in dignità.
Un’altra peculiarità del Presidente Wilson, da tutti osservata e da lui stesso proclamata, ci imbarazza più di ogni altra nell’accostarci alla sua personalità e ce la fa sentire estranea al nostro mondo. Attraverso una lunga e faticosa evoluzione abbiamo appreso a tracciare i confini che separano il nostro mondo psichico interiore da quello esterno della realtà. Possiamo accostarci al mondo esterno solo attraverso l’osservazione, lo studio e la collazione di dati dell’esperienza. In quest’opera non è stato facile rinunciare a tutto ciò che corrispondeva a un appagamento dei nostri desideri, a una conferma delle nostre illusioni; ma questo sacrificio non è stato vano, giacché ha avviato gli uomini sulla via di un insospettato dominio della Natura. In tempi recenti abbiamo cominciato ad applicare questo stesso modo di procedere ai contenuti del nostro mondo psichico interiore, pretendendo peraltro che la nostra autocritica e il nostro rispetto dei fatti fossero ancora più rigorosi. Possiamo attenderci perciò, anche in questo campo, analoghi successi: quanto più la nostra conoscenza della vita psichica avrà acquistato in ampiezza e precisione, tanto più diventeremo capaci di tenere a freno e di orientare i nostri primordiali moti pulsionali.
Wilson, in contrasto con quanto siamo venuti esponendo, ha dichiarato ripetutamente che per lui i fatti in quanto tali non hanno alcun significato, che egli attribuisce valore soltanto agli intendimenti e ai propositi degli uomini. Come risultato di questo atteggiamento, gli riusciva naturale scacciare dalla mente gli eventi reali del mondo esterno, o rinnegarli addirittura quando contraddicevano le sue aspettative e i suoi desideri. E gli mancava per conseguenza ogni stimolo a porre un freno alla propria ignoranza e ad assumere informazioni precise su quanto accadeva nel mondo. Per lui non contavano che i nobili propositi: quando attraversò l’oceano per portare all’Europa dilaniata dalla guerra la pace giusta e perenne, si cacciò nella pietosa situazione di chi intende restituire la vista a un cieco, ma ignora come sia fatto un occhio né si preoccupa di apprendere i metodi opportuni per eseguire l’intervento operatorio.
A questo stesso modo di pensare sono forse dovute la spiccatissima insincerità, ambiguità e inclinazione a rinnegare la verità che si manifestano nelle relazioni di Wilson con il suo prossimo, e che in un idealista fanno davvero uno strano effetto. L’imperioso bisogno di dire la verità deve sì esser fissato dall’etica, ma è certamente fondato altresì sul rispetto dei dati di fatto.
Sono costretto a ricordare che fra la devota fede religiosa di Wilson e il suo volgere le spalle al mondo esiste un’intima relazione. Alcuni aspetti della sua attività pubblica suscitano quasi l’impressione che egli intendesse trasferire alla politica i metodi della “Christian Science”: Dio è bene, la malattia viene dal male, la malattia contraddice la natura di Dio. Dunque: poiché Dio esiste, la malattia e lo star male non esistono.11 Chi mai vorrà pretendere da un terapeuta così orientato interesse per la sintomatologia e la diagnostica?
Permettetemi di tornare ora all’inizio di queste osservazioni e di aggiungere qualche parola a giustificazione dell’antipatia che ho ammesso di nutrire per Wilson. Noi tutti sappiamo di non essere pienamente responsabili di ciò che consegue dalle nostre azioni. Abbiamo compiuto un atto in vista di un certo scopo; risulta poi che esso ha dato luogo a esiti diversi da quelli che ci eravamo prospettati, esiti che forse non potevamo prevedere. Ci capita quindi di raccogliere sovente più biasimi e sgradevoli maldicenze (e solo in rari casi più lodi e onori) di quanti ce ne spetterebbero. Ma se gli atti di qualcuno – com’è il caso di Wilson – danno luogo poco meno che puntualmente al contrario di quello ch’egli intendeva ottenere, se costui ha dimostrato di essere esattamente l’opposto di quella forza che “vuole sempre il male e opera sempre il bene”,12 se la pretesa di liberare il mondo dal male si risolve soltanto in un’ennesima prova del pericolo che i fanatici rappresentano per la comunità; allora non c’è da stupirsi se nell’osservatore nasce una diffidenza che blocca la simpatia.
Tuttavia questo atteggiamento emotivo non rimase inalterato quando, sotto l’influsso di Bullitt, presi a occuparmi più dettagliatamente della vita passata del Presidente. Si sviluppò in me una certa simpatia, ma una simpatia di tipo particolare mista a compassione, come quella che avvertiamo leggendo le avventure dell’eroe di Cervantes, l’“ingenuo” Cavaliere della Mancia. E alla fine, poiché mi rendevo conto della pochezza dell’uomo e delle sue forze a petto del compito immane che pur si era assunto, questa compassione prese a tal segno il sopravvento da far recedere ogni altro moto dell’animo. Mi sia consentito dunque pregare i lettori di non respingere a priori l’esposizione che segue a causa della sua dichiarata faziosità; essa non è certo priva, in origine, di una forte componente affettiva, ma questi affetti sono stati frenati a dovere. Posso assicurare che la stessa cosa vale per Bullitt, col quale dichiaro qui di aver collaborato.
A Bullitt soltanto, che ha conosciuto personalmente Wilson e ha lavorato al suo servizio all’epoca dei grandi successi con l’entusiasmo senza riserve tipico della giovane età, va attribuita la parte storica di questo libro che riguarda l’infanzia e la giovinezza di Wilson. Siamo entrambi responsabili nella stessa misura della parte analitica, la cui elaborazione e stesura sono il frutto della nostra stretta cooperazione.
Mi sia consentito aggiungere qualche osservazione a chiarimento e giustificazione ulteriore. I lettori potrebbero obiettare che questo lavoro è stato loro presentato come uno “studio psicologico”, quando poi noi applichiamo all’oggetto della nostra indagine i criteri della psicoanalisi, facendo ampio uso a tal fine delle ipotesi e della terminologia psicoanalitiche. In verità la nostra non è una connotazione abusiva, adottata magari in considerazione dell’ostilità preconcetta del grande pubblico verso la psicoanalisi. Al contrario, abbiamo usato la denominazione “studio psicologico” per significare inequivocabilmente il nostro convincimento che la psicoanalisi non è altro che psicologia, anzi precisamente una parte di essa; non c’è bisogno dunque di giustificarsi se in un’indagine psicologica si adottano metodi analitici quando si tratta di accertare fatti ed eventi psichici di una certa profondità. Finché la persona in questione è ancora in vita è certamente illecito rendere pubblici gli esiti di tale indagine della psicologia del profondo, ed esibirli alla curiosità collettiva; è infatti altamente improbabile che l’interessato vi consentirebbe. Poste sotto la garanzia del segreto professionale, le cure analitiche devono svolgersi infatti alla presenza esclusiva del medico e del paziente, e nessun altro può prendervi parte. Ma quando lascia il mondo dei vivi un individuo la cui natura e la cui opera sono state importanti per gli uomini del suo tempo e per i posteri, è inevitabile che per unanime consenso questi diventi oggetto di biografie e vengano meno le precedenti restrizioni. Il problema potrebbe porsi ancora in relazione a una certa “durata dei diritti” dell’individuo dopo la morte; ma raramente tale problema è stato sollevato: del resto non sarebbe facile conseguire l’unanimità su un argomento simile, né garantire il rispetto dei limiti stabiliti. Thomas Woodrow Wilson è morto nel 1924.
Dobbiamo infine contestare l’opinione secondo cui il segreto proposito di questo libro sarebbe di dimostrare che Wilson era una personalità patologica, un malato, e di scalzare indirettamente per questa via le posizioni di chi ne apprezza il retaggio. No, non è questo il nostro intento, ma se pure lo fosse non potrebbe dare i frutti sperati. Infatti la nostra scienza ha da tempo abbandonato l’idea che esista un ambito rigorosamente definibile della normalità e una netta linea di demarcazione fra ciò che è normale e ciò che è morboso nella vita psichica. Un’indagine diagnostica più minuziosa ci ha consentito di rintracciare la nevrosi dovunque, anche là dove meno ci saremmo aspettati di trovarla; siamo pertanto quasi autorizzati a dichiarare che sintomi nevrotici e limitazioni del carattere sono diventati in certa misura patrimonio comune di tutti i membri delle comunità civili; e crediamo di aver individuato le ragioni che hanno inevitabilmente prodotto questo risultato. Ci siamo inoltre resi conto che per valutare i processi psichici l’alternativa posta dalle categorie normale-patologico è altrettanto inadeguata quanto quella buono-cattivo, che un tempo dominava incontrastata. Solo in una minoranza di casi i disturbi psichici sono riconducibili a processi infiammatori o all’immissione nell’organismo di sostanze estranee; comunque anche allora l’effetto di tali fattori non è diretto. Nella maggioranza dei casi solo determinati rapporti quantitativi risultano decisivi per il manifestarsi della funzione patologica: stimoli particolarmente intensi che agiscono su determinate componenti dell’apparato psichico, una maggiore o minore quantità delle secrezioni endocrine indispensabili al funzionamento del sistema nervoso, disturbi temporanei, anticipazioni o ritardi nel decorso evolutivo che la vita psichica sta percorrendo.
Ritroviamo la stessa etiologia di tipo quantitativo allorché, con l’ausilio della psicoanalisi, ci mettiamo a esaminare quelli che attualmente riteniamo essere gli elementi costitutivi dell’accadere psichico. Il rafforzamento relativo di un moto pulsionale singolo fra i molti che dispensano energia alla vita psichica, il particolare approfondirsi di una delle identificazioni che immancabilmente stanno alla base della struttura del carattere, una formazione reattiva eccezionalmente forte contro un impulso che dev’esser tenuto a bada: tali rapporti quantitativi sono decisivi per la configurazione definitiva della personalità, le conferiscono un’impronta peculiare e orientano in una determinata direzione gli atti dell’individuo.
La caratterizzazione che Shakespeare dà di Bruto dopo la morte suona così nelle parole di Antonio:
...the
elements
So mixed in him that Nature might stand up
And say to all the world: “This was a man.”
[...gli elementi
Erano in lui così commisti che la Natura poteva ergersi
A esclamare dinanzi a tutto il mondo: “Questo fu un
uomo.”]13
Rifacendoci alle parole del poeta, siamo tentati di dire che gli elementi costitutivi della psiche sono sempre gli stessi. Ciò che muta nella combinazione sono le loro proporzioni reciproche e, aggiungiamo, il modo in cui essi si distribuiscono nelle diverse province della vita psichica e in relazione ai diversi oggetti. Noi dichiariamo poi, in base a certi criteri, che le particolarità di un individuo sono normali o patologiche, ovvero indichiamo in esse alcuni tratti patologici. Ma questi criteri non sono assolutamente né univoci, né sicuri, né stabili. Difficili da adottare a livello scientifico, la loro utilità è in fondo meramente pratica, spesso di natura convenzionale. “Normale” significa perlopiù ciò che nell’esperienza è considerato medio o vicino alla media; si giudica spesso determinante, per valutare se un aspetto del carattere o un comportamento è da ritenere morboso, il fatto che esso provochi dei danni, danni alla persona singola o alla comunità di cui la persona fa parte. Nonostante l’indeterminatezza concettuale che la caratterizza, e la mancanza di un fondamento sicuro per accertarla, alla distinzione fra ciò che è normale e ciò che è morboso non possiamo rinunciare per motivi pratici; non sorprendiamoci però se ad essa non corrispondono altre contrapposizioni di notevole importanza.
In ogni epoca della storia dell’umanità sono esistiti matti, visionari, folli, nevrotici gravi e individui che la psichiatria definirebbe malati di mente, i quali hanno svolto funzioni importantissime, e non solo quando, a causa della loro origine, erano per avventura investiti dei pieni poteri. Perlopiù, ma non sempre, costoro sono stati forieri di sventure. È accaduto pure che persone di questo tipo abbiano lasciato un’impronta profonda sugli uomini del loro tempo e sui posteri, abbiano dato impulso a movimenti culturali importanti, siano stati protagonisti di grandi invenzioni e scoperte. Da una parte, queste sono state realizzazioni della componente integra della loro personalità; essi le hanno cioè portate a termine malgrado la loro malattia. D’altra parte, non si può negare che spesso proprio gli attributi patologici della loro natura, gli orientamenti unilaterali del loro sviluppo, l’abnorme intensificarsi di alcuni moti di desiderio, la dedizione acritica e sfrenata a un’unica causa, hanno dato a questi individui la forza di trascinare con sé altri uomini e di superare le resistenze del mondo esterno. Accade talmente spesso che un’opera grande corrisponda a una personalità psichicamente anomala, che si è tentati di credere che la prima sia inseparabile dalla seconda; contro tale ipotesi sta l’eloquenza del fatto che in ogni campo dell’attività umana esistono grandi uomini che rispondono perfettamente ai requisiti della normalità.
Con queste osservazioni speriamo di aver dissolto il sospetto che questo libro voglia essere qualcosa di diverso da uno studio psicologico su Thomas Woodrow Wilson. Non possiamo tuttavia contestare che in generale, e dunque anche in questo caso, una conoscenza più intima dell’uomo potrebbe portare a una valutazione migliore di ciò che egli ha fatto.