3. EPÌCRISI

Esaminerò sotto tre aspetti l’osservazione qui condotta dello sviluppo e della soluzione di una fobia in un bambino di non ancora cinque anni: in primo luogo, fino a che punto essa suffraghi le affermazioni contenute nei miei Tre saggi sulla teoria sessuale (1905); in secondo luogo, in qual modo essa ci aiuti a capire questa forma così frequente di malattia; in terzo luogo, che cosa se ne possa dedurre a chiarimento della vita psichica dei bambini e per un esame critico degli obiettivi perseguiti dai nostri sistemi d’educazione.

1.

Ho l’impressione che il quadro della vita sessuale dei bambini che scaturisce dall’osservazione del piccolo Hans, concordi ottimamente con la descrizione da me fornita nei Tre saggi, e che procede dall’esame psicoanalitico di adulti. Ma prima di addentrarmi nell’esposizione dei particolari di questa concordanza, debbo rispondere a due possibili obiezioni contro l’uso, da parte mia, di quest’analisi. Secondo la prima, il piccolo Hans non sarebbe un bambino normale ma, come dimostra il seguito degli eventi (per l’appunto la stessa malattia), un soggetto predisposto alla nevrosi, un piccolo “tarato”, talché sarebbe inammissibile applicare a bambini normali certe conclusioni magari valide nel suo caso. Mi occuperò più avanti di questa obiezione, perché essa limita, ma non annulla completamente, il valore dell’osservazione eseguita. Secondo l’altra e più grave obiezione, il fatto che l’analisi del bambino sia stata condotta da suo padre, e che questo padre fosse infarcito delle mie teorie e infetto dai miei pregiudizi, escluderebbe ogni valore d’obiettività. Naturalmente – si aggiungerà – un bambino è quanto mai suggestionabile, e da nessuno forse più che da suo padre; egli si lascerà imbeccare dal babbo tutto ciò che questi vuole, per gratitudine che egli si occupi tanto di lui; le sue dichiarazioni non avranno alcuna forza probante, le sue produzioni sotto forma di associazioni, fantasie, sogni seguiranno naturalmente la direzione in cui sono state spinte in tutti i modi. Insomma, si tratterebbe ancora una volta di “suggestione”, con la sola differenza che in un bambino è assai più facile mascherarla che non in un adulto.

Strano; ricordo con quanto sarcasmo ventidue anni fa, quando cominciai a intromettermi nei dibattiti scientifici, la vecchia generazione dei neurologi e degli psichiatri accogliesse le affermazioni concernenti la suggestione e i suoi effetti.475 Da allora la situazione è mutata radicalmente; l’opposizione si è trasformata in un’accettazione anche troppo compiacente, e ciò non solo come conseguenza dell’azione che nel corso di questi decenni dovevano esercitare i lavori di Liébeault, di Bernheim e della loro scuola, ma anche perché in questo frattempo fu fatta la scoperta del risparmio di pensiero che si ottiene facendo ricorso alla parola ad effetto “suggestione”. Ma nessuno sa e nessuno si preoccupa di sapere che cosa sia questa suggestione, donde provenga e quando si verifichi; basta poter battezzare “suggestione” tutto quel che c’è d’incomodo nello psichismo.

Io non condivido l’opinione oggi in voga secondo cui quello che dicono i bambini sarebbe sempre arbitrario e inattendibile. Nulla è arbitrario nel campo della psiche; l’inattendibilità delle affermazioni dei bambini deriva dalla prepotenza della loro fantasia, così come l’inattendibilità delle affermazioni degli adulti proviene dalla prepotenza dei loro pregiudizi. D’altronde i bambini non mentono senza ragione e in generale sono più inclini all’amor del vero che non gli adulti. Respingendo in blocco tutte le affermazioni del nostro piccolo Hans, certamente gli faremmo grave ingiustizia; piuttosto, possiamo distinguere nettamente là ove egli fa affermazioni false e reticenti sotto la coazione d’una resistenza, là ove esse non hanno valore probante perché il bambino, indeciso, non fa che dar ragione al padre, e là ove, libero da ogni pressione, egli lascia scaturire una sua verità interiore, fino ad allora nota a lui solo. Neppure il materiale fornito dagli adulti ci consente una certezza maggiore. Resta purtroppo il fatto che nessuna descrizione d’analisi può riprodurre le impressioni che si provano svolgendo l’analisi stessa, e che una convinzione definitiva non può mai essere ottenuta con la lettura, ma solo mediante un’effettiva esperienza. Ma questo è un difetto inerente in egual misura alle analisi degli adulti.

Il piccolo Hans viene definito dai suoi genitori un bambino sereno e sincero, e tale doveva essere vista l’educazione impartitagli dai genitori, che consisteva soprattutto nell’omissione dei nostri abituali peccati educativi. Fin quando nella sua gioiosa innocenza poté occuparsi delle sue ricerche senza sospettare i conflitti che presto ne sarebbero derivati, egli comunicò tutto senza reticenze, e le osservazioni dell’epoca precedente la fobia non ammettono infatti dubbi né contestazioni. All’epoca della malattia e durante l’analisi cominciano le divergenze tra ciò che dice e ciò che pensa, in parte dovute al fatto che urge in lui un materiale inconscio ch’egli non sa padroneggiare tutto in una volta, in parte conseguenti alle reticenze di contenuto che traggono origine dai suoi rapporti coi genitori. Ritengo che si possa dire senza parzialità che anche queste difficoltà non si sono presentate in misura maggiore che in tante altre analisi di adulti.

Vero è che durante l’analisi si dovettero dire al bambino molte cose ch’egli non avrebbe saputo dire, che gli si dovettero presentare idee ch’egli non aveva ancora mostrato in alcun modo di possedere, che la sua attenzione dovette essere indirizzata verso quelle direzioni da cui il padre attendeva che qualcosa sarebbe spuntato. Ciò attenua la forza probante dell’analisi; ma in tutte le analisi si procede in questo modo. Una psicoanalisi non è un’indagine scientifica imparziale, ma un intervento terapeutico; di per sé non serve a dimostrare, ma a modificare qualche cosa. Nella psicoanalisi il medico fornisce sempre al paziente, in misura ora maggiore ora minore, le rappresentazioni coscienti di anticipazione col cui aiuto egli sarà in grado di riconoscere e di afferrare l’inconscio. Ci sono casi in cui questo aiuto è più necessario, altri in cui lo è meno; ma senza di esso non si arriva mai a nulla. Quelli che si possono sbrigare da soli sono disturbi leggeri, mai una nevrosi, che è qualcosa che si è opposta all’Io come un elemento estraneo; per avere ragione di una nevrosi occorre l’aiuto di un’altra persona, e nella misura in cui quest’altra persona può essere di aiuto il male può essere guarito. Se è nella natura di una certa nevrosi il rifuggire dall’“altro”, come sembra essere la caratteristica degli stati raggruppati sotto il nome di demenza precoce, per ciò stesso questi stati rimangono refrattari ai nostri sforzi. Ora bisogna ammettere che un bambino, a causa dello scarso sviluppo dei suoi sistemi intellettuali, ha bisogno di un aiuto particolarmente grande. Ma d’altronde ciò che il medico comunica al paziente proviene anch’esso da esperienze analitiche, e sarà davvero una riprova sufficiente se, a costo di questa intromissione medica, raggiungeremo il nocciolo e la soluzione del materiale patogeno.

Eppure, il nostro piccolo paziente ha mostrato, anche durante l’analisi, un’indipendenza sufficiente ad assolverlo dall’accusa di “suggestione”. Egli, come tutti i bambini, applica le sue teorie sessuali bambinesche al materiale a sua disposizione, senza essere spinto in alcun modo a far questo. Tali teorie sono del resto assai lontane dalla mentalità dell’adulto; tanto più che, proprio in questo caso, io avevo trascurato di avvertire il padre che la via che avrebbe condotto Hans al tema della nascita sarebbe dovuta passare attraverso il complesso escrementizio. Se questa mia negligenza ha avuto per effetto una temporanea oscurità dell’analisi, essa ha fruttato almeno una buona testimonianza della sincerità e dell’indipendenza del lavoro mentale di Hans. Egli cominciò improvvisamente ad occuparsi della “tattetta” [cap. 2] senza che il padre, nonché suggestionarlo, potesse neppure capire come il bambino vi fosse arrivato e che cosa ne sarebbe venuto fuori. Non si può nemmeno addebitare al padre una partecipazione allo sviluppo delle due fantasie dello stagnaio [ibid.], derivate dal “complesso di evirazione” precocemente acquisito. Debbo anzi confessare che io, pur aspettandomi che sarebbe venuto a stabilirsi tale rapporto, non ne avevo fatto parola al padre, e ciò per un interesse teorico, perché non volevo sminuire la forza probante di un documento che sarebbe stato altrimenti assai difficile ottenere.

Entrando ulteriormente nei dettagli dell’analisi, si otterrebbero molte altre prove dell’indipendenza del nostro Hans dalla “suggestione”, ma non voglio occuparmi oltre di questa obiezione preliminare. So che neppure con la presente analisi persuaderò alcuno di coloro che non vogliono lasciarsi persuadere, e continuo perciò a esaminare questo caso per quei lettori che hanno già acquisito la convinzione della realtà obiettiva del materiale patogeno inconscio, gradevolmente certo, come sono, che il loro numero aumenta costantemente.

La prima particolarità del piccolo Hans da ascrivere alla vita sessuale è un vivissimo interesse per il suo “fapipì”, com’egli chiama quest’organo riferendosi a quella delle sue due funzioni che, appena appena meno importante, occupa tanto posto nella vita dei bambini. Questo interesse fa di lui un indagatore; egli scopre così che sulla base della presenza o dell’assenza del fapipì è possibile distinguere l’animato dall’inanimato [cap. 1]. In tutti gli esseri viventi, ch’egli giudica simili a lui, egli postula quest’importante parte del corpo, la studia nei grandi animali, la suppone in ambedue i genitori e neppure ciò che gli dicono gli occhi lo dissuade dall’assegnarla alla sorella neonata [ibid.]. Si potrebbe dire che sarebbe stata una scossa troppo grave alla sua “visione del mondo” se si fosse trovato costretto a rinunciare alla presenza di quest’organo in un essere simile a lui; sarebbe stato come se l’avessero strappato a lui stesso. Ecco presumibilmente perché una minaccia della madre [ibid.] concernente niente di meno che la perdita del fapipì viene ributtata in tutta fretta e solo più tardi può far sentire i suoi effetti. L’intervento della madre era dovuto al fatto che egli era solito procurarsi un senso di piacere toccandosi il membro; il piccolo aveva iniziato la più abituale e più... normale forma di attività sessuale autoerotica.

Il piacere che si trae dal proprio membro genitale si allaccia, in una maniera che Alfred Adler ha molto appropriatamente definito “intreccio pulsionale”,476 al piacere di guardare, nella sua forma attiva e passiva. Il piccolo Hans cerca di procurarsi la vista del fapipì di altre persone, sviluppa curiosità sessuale e ama mostrare il proprio fapipì. Uno dei suoi sogni dei primi tempi della rimozione contiene il desiderio che una delle sue piccole amiche lo aiuti a far pipì, ossia assista allo spettacolo [ibid.]. Il sogno mostra dunque che prima d’allora il desiderio era persistito senza subire rimozione, e informazioni successive confermano che egli aveva avuto l’abitudine di soddisfarlo. L’aspetto attivo del piacere sessuale di guardare si collega presto, in lui, a un motivo determinato. Quando Hans si lamenta ripetutamente col padre e con la madre di non aver mai visto il loro fapipì, egli vi è spinto con ogni probabilità dal bisogno di stabilire un confronto. Il metro con cui l’uomo misura il mondo è l’Io; egli impara a capirlo attraverso il continuo confronto con la propria persona. Hans ha osservato che i grandi animali hanno un fapipì proporzionalmente più grande del suo; suppone perciò lo stesso rapporto anche nei riguardi dei suoi genitori e vorrebbe accertarsene. La mamma – pensa Hans – ha certo un fapipì “come quello di un cavallo”. Egli ha allora pronta la sua consolazione: il fapipì crescerà con lui; è come se il desiderio del bambino di diventar grande si sia concentrato sul suo genitale.

Nella costituzione sessuale del piccolo Hans la zona genitale è dunque sin dall’inizio, tra le zone erogene, quella da cui egli può trarre il più intenso piacere. Il solo che per lui possa avvicinarsi a questo è il piacere escretorio, quello attinente agli orifizi attraverso cui avviene l’evacuazione dell’orina e delle feci. Giacché nella sua ultima fantasia di felicità, coincidente col superamento della malattia, Hans ha dei bambini, li conduce al gabinetto, fa loro far pipì, asciuga loro il popò, insomma “fa con loro tutto quello che si può fare con i bambini” [cap. 2], non si può fare a meno di supporre che queste stesse cose, eseguite sulla sua persona, avessero costituito anche per lui una fonte di sensazioni piacevoli. Questo piacere dalle zone erogene era da lui ottenuto con l’aiuto della persona che lo accudiva, della madre, e dunque indicava già la via alla scelta oggettuale. È tuttavia possibile che in epoca ancora anteriore il bambino usasse procurarsi tale piacere per via autoerotica, che fosse cioè uno di quei bambini che amano trattenere gli escrementi fino a che la loro evacuazione non procuri loro una stimolazione voluttuosa. Parlo solo di una possibilità, giacché la cosa non è stata accertata nel corso dell’analisi; il “far chiasso con le gambe” (dimenio), di cui egli doveva aver più tardi tanta paura, depone in questo senso. Peraltro queste fonti di piacere non hanno in lui quel rilievo spiccato che hanno così sovente in altri bambini. Egli si è presto abituato alla pulizia, l’incontinenza notturna e diurna non ha avuto parte rilevante nei suoi primi anni di vita; non si è mai notata in lui quella tendenza a giocare con gli escrementi, così disgustosa negli adulti e che spesso riappare al termine dei processi psichici d’involuzione.

È necessario sottolineare sin d’ora che nel corso della sua fobia ha luogo, senza alcun dubbio, la rimozione di queste due ben sviluppate componenti dell’attività sessuale. Il bambino ha vergogna di orinare in presenza altrui, si accusa di mettere il dito sul fapipì, si sforza di rinunciare all’onanismo e manifesta ripugnanza per la “tattetta”, per la “pipì” e per tutto ciò che gli ricorda queste cose. Quando fantastica di accudire ai bambini, egli torna ad annullare quest’ultima rimozione.

Una costituzione sessuale come quella del nostro piccolo Hans non sembra comprendere la disposizione allo sviluppo di perversioni e della loro negativa (limitiamoci qui all’isteria).477 A quanto ne so per esperienza (e qui un certo riserbo è ancora necessario), la costituzione congenita degli isterici – nei pervertiti la cosa va da sé, quasi – è caratterizzata dalla diminuita importanza della zona genitale nei confronti delle altre zone erogene. Da questa regola va esplicitamente eccettuata una sola “aberrazione” della vita sessuale. I soggetti che più tardi diverranno omosessuali – e che secondo una mia previsione, confermata dalle osservazioni di Sadger,478 attraversano tutti nell’infanzia una fase anfìgena – presentano rispetto ai normali la stessa preponderanza infantile della zona genitale, e particolarmente del pene. Di fatto questa sopravvalutazione del membro maschile propria degli omosessuali decide il loro destino. Nell’infanzia essi scelgono la donna per oggetto sessuale sin quando presuppongono che anch’essa possieda questa parte del corpo, reputata indispensabile; quando si convincono che la donna li ha ingannati su questo punto, essa diviene inaccettabile come oggetto sessuale. Gli omosessuali non possono fare a meno del pene nella persona che deve stimolarli al rapporto sessuale, e nel caso più favorevole la loro libido si fissa sulla “donna col pene”, ossia sul giovinetto dall’aspetto femmineo. Gli omosessuali sono dunque uomini che, a causa dell’importanza erogena del loro genitale, non possono rinunciare a questa concordanza con la loro stessa persona nell’oggetto sessuale. Nell’evoluzione dall’autoerotismo all’amore oggettuale essi sono rimasti fissati a un punto intermedio, più prossimo al primo che al secondo.479

È assolutamente inammissibile distinguere una speciale pulsione omosessuale; ciò che fa di un individuo un omosessuale non è una particolarità della vita pulsionale, bensì della scelta oggettuale. Rimando il lettore a ciò che ho detto nei miei Tre saggi: noi erroneamente ci siamo rappresentati l’unione di pulsione e oggetto nella vita sessuale come troppo intima.480 L’omosessuale non riesce a separare le sue pulsioni – magari normali – da un oggetto contraddistinto da una determinata condizione; nell’infanzia, poiché questa condizione gli appare universalmente e ovviamente adempiuta, egli può ben comportarsi come il nostro piccolo Hans, ugualmente tenero con bambini e bambine e che, all’occasione, chiama il suo amico Fritzl “la ragazzina che gli piace di più” [cap. 1]. Hans è omosessuale, come possono esserlo tutti i bambini, in pieno accordo con un fatto che non dobbiamo perdere di vista: ch’egli conosce una sola specie di genitale, un genitale come il suo.481

L’ulteriore sviluppo del nostro piccolo amoroso non lo conduce tuttavia all’omosessualità, sebbene a una virilità energica e atteggiata a poligamia, che sa mutare di contegno col mutare del suo oggetto femminile: qui è audace e aggressivo, là languido e trepidante. Allorché vi è penuria di altri oggetti d’amore, questa inclinazione torna a volgersi verso la madre, da cui si era stornata verso altri, per naufragare presso di lei nella nevrosi. Solo allora apprendiamo quale intensità avesse raggiunto l’amore per la madre e quali vicissitudini avesse attraversato. La meta sessuale da lui perseguita nelle sue compagne di giuoco, dormire con loro, si riferiva originariamente alla madre; la meta è espressa in parole che conserveranno un senso anche nella vita matura, sebbene il contenuto di tali parole subirà un arricchimento. Il bambino aveva trovato la via all’amore oggettuale nel solito modo, cioè attraverso le cure prestategli nella prima infanzia, e una nuova esperienza di piacere era prevalsa sulle altre: dormire accanto alla madre. Va posta in rilievo l’importanza che il piacere derivante dal contatto cutaneo (piacere costituzionalmente comune a tutti noi) riveste per questa esperienza, laddove se seguissimo l’artificiosa – secondo noi – terminologia di Moll dovremmo definirlo un soddisfacimento della “pulsione di contrettazione”.482

Nei suoi rapporti col padre e con la madre Hans conferma nel modo più lampante e palpabile tutto quanto ho sostenuto sia nell’Interpretazione dei sogni che nei Tre saggi sulle relazioni sessuali che legano i figli ai genitori.483 Hans è veramente un piccolo Edipo, che vorrebbe togliere di mezzo, sopprimere il padre per essere solo con la bella madre, per dormire con lei. Questo desiderio era nato durante le vacanze estive, quando l’alternarsi di presenza e assenza del padre aveva richiamato l’attenzione del bambino sulla circostanza da cui dipendeva l’ambita intimità con la madre. Tale desiderio si contentava allora di tradursi nella speranza che il padre sarebbe “partito”, speranza cui successivamente la paura di essere morso da un cavallo bianco poté direttamente collegarsi, grazie a un’impressione accidentale provata in occasione della partenza di un’altra persona.484 Più tardi, probabilmente solo a Vienna, dove non c’era più da far conto sulla partenza del padre, il desiderio si era ampliato fino ad assumere il seguente contenuto: il padre avrebbe dovuto partire per sempre, essere “morto”. La paura provata di fronte al padre, che derivava da questo desiderio di morte rivolto contro di lui ed era quindi normalmente spiegabile, costituì il maggior ostacolo dell’analisi finché non venne chiarita durante la consultazione nel mio studio [cap. 2].485

In verità tuttavia il nostro Hans non è uno scellerato, e neppure un bambino in cui le tendenze crudeli e violente della natura umana si dispieghino ancora irrefrenate in questo stadio della vita. Al contrario il suo carattere è insolitamente buono e tenero; il padre riferisce che in lui la trasformazione dell’aggressività in pietà era avvenuta assai di buonora. Parecchio tempo prima della fobia, il bambino si turbava vedendo frustare i cavalli delle giostre, si commuoveva se qualcuno piangeva in sua presenza. In un punto dell’analisi e in un certo contesto, viene alla luce in lui una parte di sadismo represso;486 ma era sadismo represso, e dal contesto in cui è inserito potremo vedere più tardi che cosa significasse e a che cosa si sostituisse. Hans inoltre ama profondamente suo padre, anche se ne desidera la morte; e sebbene la sua intelligenza si opponga a questa contraddizione,487 egli ne dimostra concretamente l’esistenza quando colpisce il padre e subito dopo bacia il punto colpito.488 Non dobbiamo scandalizzarci di una simile contraddizione; la vita emotiva dell’uomo si compone appunto di tali antinomie;489 anzi, se così non fosse, non vi sarebbe forse né rimozione né nevrosi. Nell’adulto, questi contrasti emotivi di solito diventano coscienti, nella loro simultaneità, solo al culmine della passione amorosa; negli altri casi i due opposti perlopiù si reprimono a vicenda, finché l’uno non riesce a tener nascosto l’altro. Nella vita psichica del bambino, invece, gli opposti coesistono per lungo tempo pacificamente.

La nascita di una sorellina quando il nostro Hans ha tre anni e mezzo riveste una grandissima importanza per lo sviluppo psicosessuale del bambino. L’avvenimento inasprisce i suoi rapporti con i genitori e pone alla sua mente problemi insolubili; poi, lo spettacolo delle cure prestate alla sorellina fa rivivere in lui le tracce mnestiche delle proprie primissime esperienze di piacere. Anche qui si tratta di un influsso tipico; nella storia di innumerevoli vite, sia patologiche che normali, il punto di partenza va ricercato in questo divampare del piacere sessuale e della curiosità sessuale provocato dalla nascita di un fratello o di una sorella. Il contegno di Hans verso la nuova venuta è quello descritto nell’Interpretazione dei sogni.490 Qualche giorno dopo, in stato febbrile, egli fa capire quanto poco gli aggradi quest’ampliamento della famiglia [cap. 1]. Innanzitutto, dunque, l’ostilità; la tenerezza potrà venire dopo.491 Il timore che possa arrivare ancora un altro bambino prende da quel momento posto tra i pensieri coscienti di Hans. Nella sua nevrosi, all’ostilità che è già repressa si sostituisce una paura particolare, quella della vasca da bagno (cap. 2); nell’analisi Hans esprime il desiderio di morte della sorella nella maniera più esplicita, e non soltanto con allusioni che attendono dal padre il loro completamento. La sua autocritica non gli fa apparire tanto grave questo desiderio quanto quello analogo concernente il padre; ma evidentemente nell’inconscio egli ha riservato alla sorella lo stesso trattamento che al padre, perché tutt’e due lo privano della mamma, tutt’e due gli impediscono di essere solo con lei.

La nascita della sorella e i sentimenti così risvegliati hanno d’altra parte dato ai desideri di Hans un nuovo orientamento. Nella trionfante fantasia finale [ibid.] egli riassume tutti i suoi moti erotici di desiderio, tanto quelli derivanti dalla fase autoerotica quanto quelli connessi con l’amore oggettuale. Egli è sposato con la bella mamma e ha innumerevoli bambini, cui può accudire a suo piacimento.

2.

Un giorno, in istrada, Hans è colto da angoscia. Non sa ancora dire di che cosa abbia paura, ma fin dall’inizio dello stato in cui è piombato lascia trasparire al padre il motivo del suo malessere, il tornaconto che ritrae dalla malattia.492 Egli vuole restare presso la mamma e farsi coccolare da lei; come osserva il padre [ibid.], a questa nostalgia della mamma può contribuire ugualmente il ricordo di esser stato separato da lei quand’era nata la sorellina. Appare ben presto chiaro che quest’angoscia non può più essere riconvertita in nostalgia: il piccolo ha paura anche quando è accompagnato dalla madre. Nel frattempo raccogliamo indizi che ci permettono di conoscere su che cosa si sia issata la libido trasformata in angoscia. Hans manifesta la paura affatto specifica di essere morso da un cavallo bianco.

Chiamiamo “fobia” un siffatto stato morboso, e potremmo classificare il caso del nostro protagonista un’agorafobia se questa affezione non fosse qualificata dal fatto che la locomozione nello spazio aperto, di solito impossibile, diviene agevole quando il soggetto è accompagnato da una determinata persona scelta appositamente, nei casi estremi dal medico. La fobia di Hans non risponde a questa condizione, cessa ben presto di essere in rapporto con lo spazio per prendere sempre più chiaramente a oggetto i cavalli. Nei primi giorni, al culmine dello stato d’angoscia, egli esprime un suo timore – “il cavallo verrà nella camera” [cap. 2] – e così facendo mi rende molto più facile capire la sua angoscia.

Alle “fobie” non è stato assegnato finora un posto preciso nella classificazione delle nevrosi. Appare certo che esse debbono essere considerate solo come sindromi che possono far parte di svariate forme di nevrosi e che non si deve perciò collocarle tra i processi patologici indipendenti. Per le fobie del genere di quella del nostro piccolo paziente, che sono del resto le più frequenti, non mi sembra inadeguato il termine “isteria d’angoscia”; l’ho proposto al dottor Wilhelm Stekel, che si accingeva a descrivere gli stati nervosi d’angoscia,493 e spero che acquisterà diritto di cittadinanza. Esso è giustificato dalla somiglianza esistente tra il meccanismo psichico di queste fobie e quello dell’isteria, somiglianza che è perfetta ad eccezione di un solo punto, il quale è però assai importante e atto a distinguerle. Nell’isteria d’angoscia la libido sprigionata dal materiale patogeno in virtù della rimozione non viene convertita, ossia non viene sottratta alla sfera psichica per riapparire in una innervazione somatica, ma viene liberata sotto forma di angoscia. Nella pratica clinica s’incontrano tutte le possibili combinazioni tra “isteria d’angoscia” e “isteria di conversione”. Vi sono casi di pura isteria di conversione in cui l’angoscia non si presenta affatto, e casi di pura isteria d’angoscia che si manifestano con sensazioni angosciose e in fobie senza aggiunta di conversione; quello del piccolo Hans rientra tra questi ultimi casi.

Le isterie d’angoscia sono le più frequenti tra le malattie psiconevotriche, soprattutto però sono quelle che appaiono più presto nella vita, sì che potrebbero dirsi addirittura le nevrosi dell’età infantile. Quando una madre riferisce che il suo bambino è “nervoso”, in nove casi su dieci si può essere certi ch’egli è affetto da una forma di angoscia o da più forme contemporaneamente. Purtroppo, il delicato meccanismo di queste malattie tanto importanti non è stato ancora abbastanza studiato; non si è ancora accertato se l’isteria d’angoscia, a differenza dell’isteria di conversione e di altre nevrosi, sia unicamente494 condizionata da fattori costituzionali o da avvenimenti accidentali, oppure da una combinazione dei due e da che tipo di combinazione.495 A me sembra che, fra tutte le malattie nevrotiche, questa sia quella che meno dipende da una costituzione particolare e in questo rispetto sia quella che più facilmente può essere acquisita in qualunque periodo della vita.

Un carattere essenziale dell’isteria d’angoscia si può individuare facilmente. L’isteria d’angoscia tende a svilupparsi sempre più in una “fobia”; alla fine il malato può liberarsi completamente dallo stato angoscioso, ma solo a costo di inibizioni e restrizioni molteplici cui è costretto ad assoggettarsi. Sin dall’inizio dell’isteria d’angoscia si effettua un costante lavoro psichico inteso a legare di nuovo psichicamente l’angoscia divenuta libera, ma questo lavoro non può né portare alla ritrasformazione dell’angoscia in libido, né riallacciarsi agli stessi complessi da cui emana la libido. Esso non può far altro, che interdire tutte le occasioni atte a provocare lo sviluppo d’angoscia, erigendo contro di esse una barriera psichica fatta di cautele, di inibizioni, di divieti, e sono queste costruzioni protettive che ci appaiono come fobie e che costituiscono ai nostri occhi l’essenza della malattia.

Si può dire che il trattamento dell’isteria d’angoscia è stato sinora puramente negativo. L’esperienza ha dimostrato che è impossibile, e in certe circostanze pericoloso, tentare di ottenere la guarigione di una fobia con metodi violenti, mettendo il malato in una situazione in cui, dopo essere stato privato della sua copertura, egli sia costretto a sostenere lo sprigionarsi dell’angoscia. Pertanto si lascia che, spinto dalla necessità, egli cerchi protezione dove crede di poterla trovare, dimostrandogli un inutile disprezzo per la sua “inconcepibile codardia”.

Sin dall’inizio della malattia i genitori del nostro piccolo paziente si attennero al principio che non ci si dovesse né prendere giuoco di lui né trattarlo con le cattive, ma fosse invece necessario cercare mediante i metodi analitici un accesso ai suoi desideri rimossi. Il successo compensò gli straordinari sforzi del padre, e le sue comunicazioni ci danno modo di penetrare nella compagine di una fobia siffatta e di seguire il corso dell’analisi che venne intrapresa.

Non è inverosimile che, per la sua ampiezza e per i molti particolari di cui è corredata, quest’analisi sia apparsa piuttosto oscura al lettore. Voglio perciò innanzitutto riassumerne lo svolgimento, tralasciando gli accessori ingombranti e mettendo invece in rilievo i risultati man mano che divengono riconoscibili.

Apprendiamo in primo luogo che l’insorgere dello stato d’angoscia non era stato così improvviso come era sembrato in un primo momento. Alcuni giorni prima il bambino si era svegliato durante un sogno angoscioso, il cui contenuto era che la mamma fosse partita e che non vi fosse più una mamma da cui farsi coccolare [cap. 2]. Già questo sogno indica un processo di rimozione di preoccupante intensità. Non si può spiegarlo, come tanti altri sogni d’angoscia, supponendo che il bambino provi nel sogno un’angoscia avente una qualche origine somatica e si sia servito di questa angoscia per appagare un desiderio inconscio, altrimenti intensamente rimosso;496 qui si tratta di un vero sogno di punizione e di rimozione, in cui la stessa funzione del sogno viene meno, giacché il bambino si sveglia in preda all’angoscia. È facile ricostruire ciò che è veramente accaduto nell’inconscio. Il bambino sogna le tenerezze della madre, sogna di dormire accanto a lei, ma tutto il piacere si trasforma in angoscia e tutto il contenuto rappresentativo nel suo contrario. La rimozione ha riportato la vittoria sul meccanismo del sogno.

Ma gli inizi di questa situazione psicologica risalgono a epoca ancora precedente. Già l’estate prima il bambino aveva presentato analoghi stati d’umore insieme nostalgici e ansiosi, nei quali aveva detto cose simili e che in quel tempo gli avevano procurato il vantaggio di essere ammesso nel letto materno. Dobbiamo presumere che da allora in poi Hans si sia trovato in uno stato di esaltato eccitamento sessuale, avente per oggetto la madre e la cui intensità si manifestò in due tentativi di sedurla (il secondo immediatamente precedente la comparsa dell’angoscia). Questa eccitazione si scaricava inoltre ogni sera nel soddisfacimento masturbatorio. Se poi il cambiamento improvviso dell’eccitamento in angoscia fosse avvenuto spontaneamente o per effetto della ripulsa della madre o per un casuale risveglio di impressioni precedenti determinato dalla “causa immediata” della malattia (di cui parleremo più avanti), non è possibile stabilire; ma ciò è del resto indifferente, poiché le tre diverse possibilità non vanno considerate incompatibili. Quello che è certo è che l’eccitamento sessuale si era trasformato in angoscia.

Abbiamo già detto del comportamento del bambino nei primi tempi dell’angoscia, e che il primo contenuto di essa fu che un cavallo l’avrebbe morso. A questo punto interviene la prima azione terapeutica. I genitori dicono al bambino che l’angoscia è conseguenza della masturbazione e lo inducono a disabituarsi da questa [ibid.]. Da parte mia, raccomando ai genitori di far segnatamente rilevare a Hans la tenerezza che lo lega alla madre, ch’egli cercava di sostituire con la paura dei cavalli [ibid.]. Questo primo intervento procura un leggero miglioramento, che scompare subito dopo nel corso di una malattia organica. Lo stato del bambino rimane invariato. Poco dopo Hans stabilisce un rapporto tra la sua paura di esser morso da un cavallo e il ricordo di un’impressione provata a Gmunden [ibid.]. Un padre aveva detto alla sua bambina che stava partendo:497 “Non mettere il dito sul cavallo, che ti morde.” Le parole stesse con cui Hans riferisce questo avvertimento paterno ricordano quelle con cui egli era stato ammonito ad abbandonare l’onania (metterci il dito). Sembra perciò a tutta prima che i genitori abbiano ragione di ritenere che ciò di cui Hans è spaventato sia il proprio soddisfacimento onanistico. La connessione è tuttavia ancora vaga e il cavallo sembra aver assunto solo casualmente la sua parte di spauracchio.

Avevo avanzato l’ipotesi che il desiderio rimosso di Hans potesse essere adesso quello di vedere a tutti i costi il fapipì della madre. Poiché il suo comportamento verso una nuova domestica concorda con questa ipotesi, il padre gli dà una prima spiegazione: le donne non hanno fapipì [cap. 2]. Hans reagisce a questo primo tentativo di porgergli aiuto riferendo una fantasia, in cui ha veduto la madre che mostrava il fapipì.498 Questa fantasia, e l’osservazione fatta da Hans durante una conversazione, che il suo fapipì “fa parte di lui” [ibid.], ci permettono di dare un primo sguardo ai processi ideativi inconsci del paziente. Egli si trova in realtà sotto l’impressione ritardata della minaccia di evirazione rivoltagli dalla madre quindici mesi prima [cap. 1], giacché la fantasia secondo cui anche la madre avrebbe fatto come lui è l’abituale accusa “di ritorno” dei bambini incolpati di qualche cosa e deve servire da autogiustificazione; si tratta, cioè, di una fantasia di protezione e di difesa. Dobbiamo ciò nondimeno osservare che sono stati i genitori a estrarre dal materiale patogeno attivo in Hans il tema dell’interesse per il fapipì. Qui, egli si è limitato a seguirli, senza ancora intervenire in modo autonomo nell’analisi. Non v’è traccia di un successo terapeutico. L’analisi si è assai allontanata dai cavalli, e la spiegazione che le donne non hanno il fapipì è atta, dato il suo contenuto, ad accrescere piuttosto che a diminuire la preoccupazione di Hans di conservare il suo.

Ma non è un successo terapeutico quello a cui tendono i nostri primi sforzi. Noi vogliamo mettere il paziente in grado di afferrare coscientemente i suoi moti inconsci di desiderio. E vi riusciamo applicando la nostra tecnica interpretativa alle indicazioni ch’egli ci fornisce e presentando così alla sua coscienza, con le nostre parole, il suo complesso inconscio. Quel tanto di rassomiglianza che c’è tra ciò che noi diciamo e ciò che egli stesso cerca, e che nonostante tutte le resistenze tenta di farsi strada verso la coscienza, lo mette in grado di scoprire il materiale inconscio. Il medico lo precede sempre di un tratto nella via della comprensione; il paziente lo segue a una certa distanza su un suo proprio cammino, finché tutti e due s’incontrano alla meta designata. I principianti di psicoanalisi sogliono confondere questi due momenti, e credono che il momento in cui essi riescono a riconoscere un complesso inconscio del malato debba coincidere con quello in cui lo afferra il malato. Essi si aspettano che la comunicazione della loro scoperta al malato sia sufficiente a guarirlo, mentre essa può costituire soltanto un aiuto di cui il malato può servirsi per trovare il complesso nel fondo del proprio inconscio, là ove esso è ancorato.499 Con Hans ora abbiamo ottenuto un primo successo di tale specie. Resosi parzialmente padrone del suo complesso di evirazione, adesso egli è in grado di dichiarare i suoi desideri concernenti la madre, e lo fa in una forma ancora travisata, con la fantasia delle due giraffe, di cui una grida invano perché Hans si è impossessato dell’altra [cap. 2]. Egli raffigura la presa di possesso con l’immagine del “sedercisi sopra”. Il padre si avvede che questa fantasia è la riproduzione di una scena che si svolge la mattina tra i genitori e il bambino nella camera da letto, e non manca di spogliare il desiderio del travisamento che ancora lo distorce. Le due giraffe sono il padre e la madre. Il travestimento nella fantasia di giraffe è ampiamente determinato dalla visita di pochi giorni prima a questi grossi animali avvenuta a Schönbrunn, dal disegno di giraffa fatto in epoca precedente e conservato dal padre, e forse anche da una comparazione inconscia che si rifà al collo lungo e rigido dell’animale.500 Osserviamo che la giraffa, animale di gran mole e interessante per il suo fapipì, avrebbe potuto divenire una concorrente del cavallo quanto a spauracchio, e il fatto che padre e madre venissero ambedue presentati come giraffe costituisce un primo indizio, non ancora sfruttato, per l’interpretazione del significato di angoscia dei cavalli.

Due fantasie più brevi vengono riferite da Hans immediatamente dopo quella delle giraffe: nell’una, egli si introduce a Schönbrunn in uno spazio vietato, nell’altra rompe il finestrino di una carrozza ferroviaria [ibid.]. In ambedue l’aspetto punibile dell’atto è sottolineato e il padre appare come complice. Sfortunatamente le due fantasie sfuggono all’interpretazione del padre, e pertanto Hans non trae alcun beneficio dalla loro esposizione. Ma ciò che è rimasto capito male ritorna sempre; come un’anima in pena, non ha pace finché non ottiene soluzione e liberazione.

Capire le due fantasie delittuose non è per noi affatto difficile. Esse appartengono al complesso del prender possesso della madre. Nel bambino c’è come un presentimento di qualcosa ch’egli potrebbe fare con la madre e con cui la presa di possesso sarebbe consumata, ed egli trova modo di alludere a ciò che non riesce a cogliere, ricorrendo a immagini che hanno in comune la violenza e il divieto e il cui contenuto ci appare accordarsi in modo eccellente con la realtà nascosta. Dobbiamo infatti ritenere che le due fantasie simboleggino il coito, e non è affatto irrilevante che il padre vi appaia come complice: “Vorrei fare qualcosa con la mamma, qualcosa di proibito, non so che cosa sia, ma so che anche tu lo fai.”

La fantasia della giraffa aveva rafforzato in me la convinzione già tratta dalle parole di Hans circa il “cavallo che verrà nella camera” [cap. 2], e ritenni che fosse giunto il momento di comunicargli una cosa che era essenziale postulare riguardo ai suoi moti inconsci, ossia che egli aveva paura del padre a causa dei desideri di gelosia e d’ostilità che nutriva verso il padre stesso. Gli diedi in tal modo una parziale interpretazione della sua paura dei cavalli: il cavallo doveva essere il padre, che egli aveva buone ragioni interiori di temere. Certi particolari di cui Hans esprimeva timore, il nero intorno alla bocca e quello davanti agli occhi (i baffi e gli occhiali, attributi dell’adulto), mi apparivano direttamente trasferiti dal padre al cavallo [ibid.].

Con questa spiegazione avevo sbarazzato il terreno dalla più potente resistenza contro il passaggio alla coscienza dei pensieri inconsci di Hans, considerato che proprio il padre fungeva con lui da medico. Da quel momento il culmine dello stato patologico fu superato, il materiale affluì abbondante e il piccolo malato dimostrò il coraggio di riferire i particolari della sua fobia, per poi intervenire subito dopo in modo autonomo nello svolgimento dell’analisi.501

Solo adesso apprendiamo quali oggetti e quali impressioni intimoriscono Hans. Non solo i cavalli e i morsi dei cavalli (presto non ne parla nemmeno più), ma anche le carrozze, i carri da trasloco e gli omnibus (che hanno la caratteristica comune, come subito si rivela, di essere pesantemente caricati), nonché i cavalli che si mettono in movimento, i cavalli grandi e pesanti e i cavalli che procedono velocemente. Lo stesso Hans ci spiega il perché di queste determinazioni: egli ha paura che i cavalli cadano, e perciò incorpora nella fobia tutto ciò che gli sembra facilitare questa caduta [ibid.].

Non è affatto raro che si riesca a capire soltanto dopo un lavoro psicoanalitico di una certa durata il contenuto autentico di una fobia, il testo letterale esatto di un impulso coatto e simili. La rimozione non colpisce soltanto i complessi inconsci, essa si esercita costantemente anche contro i loro derivati, impedendo al malato la percezione dei prodotti stessi della malattia. Il medico si trova qui nella situazione apparentemente paradossale di dover venire in aiuto alla malattia, per richiamare su di essa l’attenzione del malato,502 ma solo chi travisa interamente l’essenza della psicoanalisi può metter l’accento su questa fase del lavoro e temere per questo un danno da parte dell’analisi. La verità è che per impiccare un malfattore bisogna prima prenderlo, e che per distruggere le formazioni patologiche occorre prima un certo lavoro per impossessarsene.

Nei commenti che accompagnano la storia del caso [cap. 2], ho già rilevato che è molto istruttivo addentrarsi così a fondo nei dettagli di una fobia, perché se ne trae la sicura impressione che la relazione tra la paura e i suoi oggetti si è stabilita in maniera secondaria. Di qui l’essenza, insieme così singolarmente diffusa e così rigidamente condizionata, di una fobia.503 Il nostro piccolo paziente ha evidentemente ricavato il materiale per risolvere specificamente il suo problema dalle impressioni che riceve continuamente osservando quanto avviene al Dazio centrale, sito proprio di fronte alla sua casa. In questo contesto egli rivela anche un impulso – per ora inibito dall’angoscia – a giocare come i monelli di strada con il carico delle vetture, con i sacchi, i barili e le casse.

In questo stadio dell’analisi Hans ricorda l’avvenimento che aveva immediatamente preceduto l’esplosione della malattia, episodio di nessuna importanza ma che può a buon diritto esser considerato la causa immediata di quella esplosione. Andando a passeggio con la mamma, aveva veduto un cavallo dell’omnibus cadere e scalciare [ibid.]. La cosa l’aveva profondamente impressionato. Si era spaventato moltissimo, aveva creduto che il cavallo fosse morto; e da allora in poi gli era venuta l’idea che tutti i cavalli sarebbero caduti. Il padre gli fa osservare che vedendo cadere il cavallo egli deve aver pensato a lui e desiderato che anche lui cadesse e morisse. Hans non si oppone a questa interpretazione; e poco tempo dopo, col suo giuoco di mordere il padre, dimostra di accettare l’identificazione tra il padre e il cavallo temuto [ibid.]. Da quel momento il bambino si comporta col padre liberamente e senza paura, anzi in un modo un poco impertinente. Ma la paura dei cavalli persiste, e non ci è ancora chiaro per quale concatenazione il cavallo che cade abbia risvegliato i suoi desideri inconsci.

Riassumiamo i risultati finora ottenuti: sotto la paura del cavallo che morde, espressa in un primo tempo, abbiamo scoperto la paura più profonda del cavallo che cade; e tutt’e due, il cavallo che morde e quello che cade, sono il padre, che punirà Hans per aver nutrito verso di lui desideri tanto cattivi. Nell’analisi ci siamo nel frattempo allontanati dalla madre.

Del tutto inaspettatamente e certo senza che il padre vi abbia nulla a che fare Hans comincia adesso a occuparsi del “complesso della tattetta” e a provar disgusto per tutte le cose che gli ricordano l’evacuazione [ibid.]. Il padre, che lo segue qui malvolentieri, persevera a spingere l’analisi nella direzione da lui voluta e induce Hans a ricordarsi di un incidente accaduto a Gmunden, la cui impressione era coperta da quella del cavallo dell’omnibus caduto. Fritzl, suo compagno prediletto e forse anche suo rivale nei confronti delle numerose compagne, giocando a fare il cavallo aveva battuto il piede contro un sasso, era caduto e il piede aveva sanguinato [cap. 2]. La caduta del cavallo dell’omnibus aveva ricordato a Hans questo accidente. Si osservi che Hans, in quel momento occupato da altre questioni, nega dapprima che Fritzl fosse caduto (cioè l’elemento che stabilisce la connessione), e l’ammette solo in una fase ulteriore dell’analisi [ibid.]. Per noi però è degno di nota il modo in cui la trasformazione della libido in angoscia si proietta sull’oggetto principale della fobia, il cavallo. Tra i grossi animali, il più interessante per Hans era il cavallo; tra i giuochi fatti coi suoi coetanei, il più gradito era quello del cavallo. La supposizione che il padre per primo si fosse prestato a fare da cavallo a Hans in questo giuoco trova conferma presso il padre da me interrogato, ed ecco perché nell’accidente di Gmunden Hans poté sostituire la persona del padre a quella di Fritzl. Dopo il rivolgimento provocato dall’affermarsi della rimozione, Hans provò necessariamente grande timore dei cavalli, coi quali prima aveva associato tanto piacere.

Tuttavia abbiamo già detto che quest’ultima importante scoperta riguardante il modo in cui agì il motivo occasionale della malattia è dovuta all’intervento del padre. Hans continua a occuparsi della tattetta e alla fine dobbiamo seguirlo su questa via. Apprendiamo così che in passato Hans era solito insistere per accompagnare la madre al gabinetto [ibid.] e che, all’epoca in cui la sua amichetta Berta era giunta a prendere il posto della madre, egli aveva ripreso con Berta questa abitudine, sinché la cosa non era stata scoperta e proibita [ibid.]. Anche il piacere di guardare mentre una persona amata soddisfa i propri bisogni corrisponde a quell’“intreccio pulsionale” di cui abbiamo già osservato un esempio in Hans [qui, par. 1]. Alla fine anche il padre perviene a cogliere la simbologia della tattetta e rileva un’analogia tra il carro pesantemente caricato e l’intestino carico di feci, tra il modo in cui un carro esce da un cancello e l’evacuazione delle feci, eccetera [cap. 2].

La posizione di Hans nell’analisi si è peraltro sostanzialmente modificata rispetto agli stadi precedenti. Prima il padre era in grado di predirgli ciò che stava per emergere, mentre Hans, seguendo la sua traccia, gli trottava dietro; ora è lui che corre avanti con passo sicuro, e il padre fa fatica a tenergli appresso. Hans crea, senza l’aiuto di alcuno, una nuova fantasia: lo stagnaio svita la vasca da bagno in cui si trova Hans, e poi lo colpisce al ventre col suo grande trivello [ibid.]. Da questo momento la nostra intelligenza non riesce a tenere il passo con il materiale. Solo più tardi potremo capire che questo è il lavorio deformato dall’angoscia attorno a una fantasia di procreazione. La grande vasca in cui Hans è seduto nell’acqua è l’alvo materno; il trivello (Bohrer) che il padre ha già riconosciuto come un grande pene, deve la sua comparsa alla connessione con l’“essere nato” (geboren). L’interpretazione che dobbiamo dare di questa fantasia appare ovviamente molto singolare: col tuo grande pene mi hai perforato (gebohrt), ossia fatto nascere, e mi hai messo nel ventre materno. Ma per il momento la fantasia sfugge all’interpretazione e serve a Hans solo da anello nella catena di ciò che va raccontando.

Hans ha paura di fare il bagno nella vasca grande [cap. 2], e anche qui si tratta di una paura composita. Una parte di essa ci sfugge ancora, l’altra si spiega ben presto in relazione al bagno della sorellina. Hans confessa di aver desiderato che la mamma, lavando la piccina, la lasciasse cadere nell’acqua e morire [ibid.], e la paura che lui stesso prova durante il bagno è quella di subire, per punizione di questo nefando desiderio, la stessa sorte. Egli abbandona ora il tema della tattetta e passa immediatamente a quello della sorellina. Ma possiamo ben immaginare che cosa significa questa contiguità dei due temi. Nient’altro che questo: la piccola Hanna è una tattetta, tutti i bambini sono tattette e vengono messi al mondo come tattette. Comprendiamo ora che tutti i carri da trasloco o da carico e gli omnibus non sono che casse della cicogna in forma di carrozzoni, che essi presentano interesse per il bambino solo in quanto riferimenti simbolici alla gravidanza, e che nella caduta dei cavalli grossi o che trainano un gran carico egli non ha potuto vedere altro che... un parto, un venir giù.504 Dunque il cavallo che cade non era soltanto il padre che muore, ma anche la madre che partorisce.

E qui Hans ci fa una sorpresa a cui non eravamo certo preparati. Egli aveva notato la gravidanza della madre, terminata con la nascita della sorellina quando egli aveva tre anni e mezzo, e, almeno a parto avvenuto, aveva ricostruito dentro di sé il reale stato delle cose. Non ne aveva fatto parola, è vero, e forse non era neppure in grado di parlarne; si era notato soltanto che, subito dopo il parto, egli aveva assunto un atteggiamento assai scettico su tutto quanto potesse accennare alla presenza della cicogna [cap. 1], Ma è provato al di là di ogni dubbio dalla presente analisi che nell’inconscio, in completo contrasto con le sue dichiarazioni ufficiali, Hans aveva saputo donde venisse il bambino e dove si trovasse prima della nascita; questo aspetto dell’analisi è forse il più indiscutibilmente esatto.

La prova più tangibile è la fantasia sostenuta con tanta ostinazione e arricchita con tanti particolari da Hans sulla presunta presenza di Hanna a Gmunden già nell’estate prima della sua nascita, sul modo in cui avrebbe compiuto il viaggio e sulla capacità da essa dimostrata allora di far più cose di quante non ne sapesse fare l’anno successivo, dopo la sua nascita [cap. 2]. La sfacciataggine con cui Hans riferisce questa fantasia, le innumerevoli smaccate bugie che v’intercala hanno anch’esse un senso: il bambino si vendica del padre, al quale porta rancore per averlo imbrogliato con la storia della cicogna. È proprio come se volesse dire: “Tu hai ritenuto che io fossi tanto stupido da credere che Hanna l’avesse portata la cicogna; anch’io posso pretendere, allora, che tu prenda per buone le mie invenzioni.” In chiara connessione con quest’atto di vendetta del piccolo investigatore verso il padre, segue ora la fantasia dei cavalli stuzzicati e picchiati [cap. 2]. Anch’essa ha due componenti: da una parte ha per base la beffa a cui ha testé sottoposto il padre; dall’altra, riappaiono in essa le oscure voglie sadiche nei confronti della madre, già espresse nelle fantasie di compiere atti proibiti, che in un primo tempo non avevamo capite. Hans riconosce d’altronde coscientemente il desiderio di picchiare la madre [ibid.].

Ormai non ci dobbiamo più aspettare molti enigmi. L’oscura fantasia del perdere il treno [ibid.] sembra precorrere un’idea che Hans formulerà più tardi: collocare il padre presso la nonna di Lainz. La fantasia riguarda infatti un viaggio a Lainz e vi appare la nonna. L’altra fantasia in cui un bambino dà al conduttore 50 000 fiorini per poter partire col vagoncino [ibid.], sembra quasi un proposito di comperare la madre dal padre, che in parte è così potente proprio per la sua ricchezza. In questo periodo Hans, con una franchezza di cui fino ad ora non era mai stato capace, confessa sia il desiderio di sbarazzarsi del padre, sia la ragione di questo desiderio: l’ostacolo costituito dal padre alla sua intimità con la madre [ibid.]. Non ci dobbiamo meravigliare se gli stessi moti di desiderio si presentano ripetutamente nel corso dell’analisi; la monotonia proviene infatti soltanto dalle interpretazioni di cui sono suscettibili; per Hans non si tratta di mere ripetizioni, si tratta di progressi continui dall’accenno esitante alla visione chiara, pienamente cosciente e libera da ogni deformazione.

Quel che viene dopo sono conferme siffatte da parte di Hans delle conclusioni analitiche cui eravamo già pervenuti con la nostra interpretazione. Con un’azione sintomatica inequivocabile, ch’egli maschera un poco di fronte alla domestica ma nient’affatto di fronte al padre, il bambino ci mostra com’egli s’immagina una nascita [ibid.]; ma, a guardar meglio, egli indica anche qualcos’altro, allude a qualcosa di cui non si parlerà più nel corso dell’analisi. In un forellino circolare nel corpo di una bambola di gomma egli infila un temperino che appartiene alla madre e poi lo fa cader fuori squarciandole le gambe. La spiegazione datagli poco dopo dai genitori [ibid.], che i bambini realmente si formano nel corpo della madre e poi vengono spinti fuori come una tattetta, arriva in ritardo; essa non può più insegnargli nulla di nuovo. Attraverso un’altra azione sintomatica consecutiva e apparentemente accidentale, egli ammette di aver desiderato la morte del padre: giocando con un cavalluccio di legno, lo lascia cadere, ossia lo getta a terra, proprio nel momento in cui il padre gli parla di questo desiderio di morte. Con quanto poi dice, egli conferma che i carri sovraccarichi rappresentano per lui la gravidanza della madre e che il cavallo che cade è proprio come avere un bambino. La più bella conferma di tutto ciò, la dimostrazione che i bambini sono tattette, è fornita dal nome immaginario “Lata” con cui egli ha battezzato la sua bambina prediletta; conferma che peraltro ci arriva in ritardo, perché veniamo a sapere che egli giocava già da parecchio tempo con questa bambina-salciccia [cap. 2].505

Abbiamo già esaminato le due fantasie finali di Hans, con cui si compie la sua guarigione. La prima, quella dello stagnaio che gli applica un fapipì nuovo e, come indovina il padre, più grande [ibid.], non costituisce una ripetizione pura e semplice della fantasia precedente riguardante lo stagnaio, e la vasca da bagno. Si tratta di una trionfante fantasia di desiderio, che contiene la vittoria di Hans sulla paura dell’evirazione. La seconda fantasia, la quale confessa il desiderio di essere sposato con la madre e di avere da lei molti bambini [ibid.], non soltanto esaurisce il contenuto di quei complessi inconsci ch’erano stati ridestati dalla visione del cavallo caduto e avevano generato angoscia, ma corregge anche quanto vi era di assolutamente inaccettabile in quei pensieri: invece di uccidere il padre, infatti, essa lo rende innocuo promuovendolo sposo della nonna. Con questa fantasia hanno giustamente termine sia la malattia che l’analisi.

Durante l’analisi di un caso non è possibile ottenere un’impressione chiara della struttura e dello sviluppo della nevrosi. Per questo occorre un lavoro di sintesi da compiere in un secondo tempo. Accingendoci a questa sintesi della fobia del piccolo Hans, prendiamo come base la descrizione, da noi data fin dalle prime pagine di questo scritto, della sua costituzione, dei suoi desideri sessuali predominanti e degli avvenimenti della sua vita fino alla nascita della sorellina.

L’arrivo di questa sorellina significò per Hans tutta una serie di cose nuove, che da quel momento in poi dovevano togliergli la tranquillità. Innanzitutto, privazioni: dapprima una separazione temporanea dalla madre, e poco dopo una diminuzione permanente delle cure e attenzioni prodigategli da questa e che egli ora dovette abituarsi a dividere con la sorella. In secondo luogo, una reviviscenza del piacere che aveva provato al tempo delle cure infantili, provocata dal vedere la mamma che accudiva alla sorellina. Da ambedue queste cause derivò un’esaltazione dei bisogni erotici di Hans, che cominciarono a non poter essere soddisfatti appieno. Egli si risarcì della perdita subita con l’arrivo della sorella immaginando di avere egli stesso dei bambini, e fino a quando restò a Gmunden (nel secondo soggiorno)506 e poté effettivamente giocare con questi bambini, la sua tenerezza trovò sufficiente sfogo. Ma dopo il ritorno a Vienna, nuovamente solo, Hans diresse sulla madre tutte le sue pretese d’amore; subì invece una nuova privazione giacché, all’età di quattro anni e mezzo,507 venne bandito dalla camera dei genitori. La sua accresciuta eccitabilità erotica si manifestò ora in fantasie che nella solitudine evocavano i compagni di giuoco dell’estate, e in un regolare soddisfacimento autoerotico ottenuto mediante stimolazione masturbatoria del genitale.

In terzo luogo però, la nascita della sorella incita Hans a un’attività di pensiero che da una parte non era in grado di portare a conclusione, dall’altra lo irretiva in conflitti emotivi. Gli si presentava infatti il grande enigma: donde vengono i bambini? forse il primo problema che metta a prova le forze intellettuali del bambino,508 e di cui l’indovinello della Sfinge tebana probabilmente non è che una versione deformata. La spiegazione che gli viene offerta – Hanna portata dalla cicogna – è respinta da Hans. Egli aveva notato che nei mesi precedenti la nascita della sorellina il corpo della madre si era ingrossato; poi la mamma si era messa a letto, al momento della nascita si era lamentata e infine, quando aveva lasciato il letto, era ridiventata snella. Ne aveva dunque concluso che Hanna era stata nel corpo della madre e poi ne era uscita come una “tattetta”. Stabilendo un rapporto con le sue primissime sensazioni di piacere durante l’evacuazione, Hans poteva rappresentarsi il parto come piacevole, e pertanto desiderare di avere bambini anche lui per un doppio motivo: per avere il piacere di partorirli e poi quello (per così dire in contraccambio) di prestar loro le sue cure. In tutto ciò non v’era nulla che gli causasse dubbi o conflitti.

Ma v’era qualche altra cosa che lo turbava. Il padre doveva aver avuto a che fare con la nascita della piccola Hanna, poiché dichiarava che tanto Hanna che Hans erano suoi bambini. Ma, certo, non era stato lui a metterli al mondo, bensì la mamma. Questo padre faceva sempre da terzo incomodo tra Hans e la madre. Quando c’era lui, Hans non poteva dormire con la mamma e quando la mamma voleva prendere Hans a letto con sé, gridava. Hans aveva visto come tutto andasse bene quando il padre non c’era e il desiderio di sbarazzarsene aveva dunque la sua giustificazione. Ora, poi, quest’ostilità veniva a rafforzarsi. Raccontandogli la frottola della cicogna il padre l’aveva messo nell’impossibilità di chiedere spiegazioni su queste cose. Non soltanto gli impediva di stare a letto con la mamma, ma gli negava anche le conoscenze da lui tanto ambite. Insomma lo danneggiava in tutt’e due i sensi e ciò, evidentemente, per suo vantaggio.

Ora questo padre, ch’egli doveva odiare come rivale, Hans l’aveva sempre amato e doveva continuare ad amarlo, era il suo modello, il suo primo compagno di giuochi, colui che aveva avuto cura di lui nei suoi primi anni di vita: di qui il primo conflitto emotivo, dapprima insolubile. La natura di Hans si era sviluppata in modo tale che sin dal principio l’amore prevalse sull’odio e lo represse, senza però poterlo eliminare giacché esso riceveva sempre nuovo alimento dall’amore per la madre.

Il padre, tuttavia, non soltanto sapeva donde venissero i bambini, faceva anche qualche cosa per farli venire, quella cosa che Hans poteva solo oscuramente intuire. Il fapipì doveva averci a che vedere, perché quello di Hans si eccitava ogni volta che gli venivano di questi pensieri; doveva essere anzi un grande fapipì, più grande del suo. Seguendo le tracce delle sensazioni ch’egli provava, c’era da ritenere che si trattasse di un qualche atto di violenza da eseguire sulla madre, un rompere, un aprire, un penetrare in uno spazio chiuso, tutti impulsi che Hans sentiva in sé. Ma benché, sulla base delle sensazioni provenienti dal pene, egli fosse sulla via di postulare la vagina, ciononostante l’enigma non poteva essere risolto, giacché, per quanto gli constava, non esisteva nulla di ciò che il suo fapipì abbisognava; anzi, la convinzione che la mamma possedesse un fapipì come il suo gli sbarrava la via a ogni soluzione. Il tentativo di risolvere la questione, di capire quel che abbisognasse fare con la mamma per farle avere dei bambini, sprofondò nell’inconscio, e i due impulsi attivi – quello ostile verso il padre e quello sadico-tenero verso la madre – rimasero senza sfogo, l’uno a causa dell’amore coesistente accanto all’odio, l’altro a causa della perplessità derivante dalle teorie sessuali infantili.

Solo così mi è possibile ricostruire, sulla base dei risultati dell’analisi, i complessi inconsci e i moti di desiderio che, rimossi e poi ridestati, provocarono la fobia del piccolo Hans. So bene che in tal modo vengo ad attribuire grandi capacità mentali a un bambino fra i 4 e i 5 anni, ma mi lascio guidare da quanto abbiamo appreso e non mi ritengo legato ai pregiudizi della nostra ignoranza. Sarebbe stato forse possibile fondarsi sulla paura del “far chiasso con le gambe” per colmare altre lacune nella nostra documentazione. Hans, a dire il vero, afferma che la cosa gli ricorda il suo sgambettare quando lo si voleva costringere a interrompere il giuoco per fare tattetta, e in tal modo questo elemento della nevrosi verrebbe a collegarsi col problema se la mamma potesse avere bambini a suo piacimento, oppure solo quando vi era costretta. Non ho tuttavia l’impressione che ciò basti a spiegare completamente il “far chiasso con le gambe”. Avevo supposto che si fosse risvegliata nella mente del bambino la reminiscenza di un rapporto sessuale tra i genitori da lui osservato nella loro camera da letto, ma il padre non ha potuto darmene conferma. Contentiamoci dunque di quanto ci risulta con certezza.

Che cosa, nella situazione che abbiamo descritta, abbia determinato in Hans il cambiamento improvviso, la trasformazione dell’anelito libidico in angoscia, donde abbia preso le mosse il processo di rimozione, è difficile dire e richiederebbe un confronto con parecchie altre analisi analoghe. Forse che il tratto alla bilancia fu dato dalla incapacità intellettuale del bambino a risolvere il difficile problema della procreazione e a fronteggiare gli impulsi aggressivi provocati dall’avvicinarsi alla soluzione? oppure fu dato da un’incapacità somatica, da un’intolleranza della sua costituzione per il soddisfacimento onanistico regolarmente praticato, vale a dire: il solo perdurare dell’eccitamento sessuale così intenso fu di per sé atto a produrre il rivolgimento? Sono interrogativi cui potremo dar risposta solo con l’aiuto di ulteriori esperienze.

Considerazioni cronologiche c’impediscono di annettere troppa importanza alla causa occasionale dell’insorgere della malattia, giacché Hans aveva dato segni d’ansietà già parecchio tempo prima di veder cadere per la strada il cavallo dell’omnibus.

Tuttavia la nevrosi rimase direttamente collegata a questo avvenimento fortuito e ne conservò l’impronta nell’erezione del cavallo a oggetto d’angoscia. L’impressione provata da Hans non ha, di per sé, una “forza traumatica”; l’accidente a cui assiste per caso acquista la sua grande efficacia solo in virtù dell’importanza già in passato rivestita per Hans dal cavallo come oggetto di predilezione e di interesse, dal collegamento con un’esperienza più propriamente traumatica avuta a Gmunden (la caduta di Fritzl mentre giocava a fare il cavallo), e dal facile passaggio, per via associativa, da Fritzl al padre. Anzi, tutte queste connessioni non sarebbero state probabilmente neppure sufficienti, se la stessa impressione, grazie alla plasticità e all’ambiguità dei nessi associativi, non si fosse mostrata parimenti atta a ridestare l’altro complesso sopito nell’inconscio di Hans, quello relativo al parto della madre gravida. Da quel momento fu aperta la via al ritorno del rimosso, e questo ritorno avvenne nel modo seguente: il materiale patogeno venne rimodellato (trasferito) sul complesso dei cavalli e gli affetti concomitanti furono uniformemente trasformati in angoscia.

Fatto notevole, il contenuto rappresentativo attuale della fobia di Hans dovette subire un ulteriore processo di deformazione e di sostituzione prima che la coscienza ne prendesse cognizione. La prima forma in cui Hans espresse a parole la sua angoscia fu: “il cavallo mi morderà”; essa deriva da un’altra scena avvenuta a Gmunden, che da una parte è in relazione coi desideri ostili riguardanti il padre, e dall’altra reca con sé il ricordo dell’ammonimento contro l’onanismo. Si è qui fatta sentire un’interferenza, forse dovuta ai genitori; non sono convinto che i rapporti su Hans siano stati redatti in questo periodo con precisione sufficiente a consentirci di decidere se Hans abbia dato questa espressione alla sua angoscia prima o soltanto dopo che la madre l’aveva rimproverato per la masturbazione. In contrasto con la descrizione data nella storia del caso [cap. 2] io propendo per la seconda ipotesi. Inoltre, è innegabile che in Hans il complesso ostile verso il padre ricopre dappertutto quello impudico verso la madre, talché nel corso dell’analisi esso viene scoperto e risolto per primo.

In altri casi clinici vi sarebbe molto più da dire sulla struttura, l’evoluzione e l’estensione della nevrosi; ma la storia della malattia del nostro piccolo Hans è molto breve, e subito dopo l’inizio viene sostituita da quella del trattamento. E anche se nel corso del trattamento la fobia sembrò continuare a svilupparsi, estendendosi a nuovi oggetti e a nuove condizioni, il padre-terapeuta ebbe naturalmente abbastanza acume per scorgervi soltanto materiale preesistente che veniva man mano alla luce e non produzioni nuove da addebitare al trattamento. Non si può sempre far conto su altrettanto acume in altri interventi terapeutici.

Questa sintesi non potrà dirsi compiuta se non avrò esaminato il caso sotto un ulteriore aspetto, e questo esame ci porterà al centro delle difficoltà inerenti alla comprensione degli stati nevrotici. Abbiamo visto che a un certo momento il nostro piccolo paziente subisce un poderoso assalto della rimozione, che colpisce precisamente le sue componenti sessuali dominanti.509 Il piccolo rinuncia all’onanismo, respinge con disgusto tutto ciò che si riferisce agli escrementi e al guardare l’evacuazione altrui. Non sono tuttavia queste le componenti che vengono eccitate dalla causa particolare della malattia (lo spettacolo del cavallo che cade), né quelle che forniscono il materiale dei sintomi, vale a dire il contenuto della fobia.

Questa costatazione ci fornisce lo spunto per fare una distinzione che assume il valore di principio. Nulla di più probabile che per capire più a fondo il caso morboso occorra volgersi a quelle altre componenti che soddisfano le due condizioni testé citate. Queste componenti, in Hans, sono moti repressi già in epoca anteriore e che, a quanto ci è dato di vedere, non poterono mai esprimersi senza inibizioni: sentimenti di ostilità e gelosia verso il padre e impulsi sadici verso la madre corrispondenti a una vaga intuizione del coito. Queste precoci repressioni predisposero forse Hans alla malattia successiva. Le sue tendenze aggressive non avevano trovato sfogo e, sopravvenuto un periodo di privazione e di accresciuto eccitamento sessuale, non appena esse, rafforzate, tentarono di prorompere, scoppiò in Hans la lotta che chiamiamo “fobia”. Nel corso di essa, una parte delle rappresentazioni rimosse riesce a raggiungere la coscienza, ove costituisce il contenuto della fobia dopo aver subito una deformazione e la trasposizione su un altro complesso. Ma non v’è dubbio che si tratta di un misero successo. La vittoria resta alla rimozione, che in questa occasione si estende ad altre componenti, diverse da quelle che erano riuscite a farsi avanti. Ciò non cambia nulla al fatto che la sostanza della malattia rimane integralmente definita dalla natura delle componenti pulsionali che sono da respingere. Intento e contenuto della fobia è una grande restrizione della libertà di movimento; dunque, essa è una potente reazione a oscuri impulsi di moto indirizzati specialmente verso la madre. Il cavallo era sempre stato per il bambino l’incarnazione del piacere del movimento (“Io sono un cavallino”, dice Hans saltando da tutte le parti [cap. 2]); ma poiché questo piacere del movimento include l’impulso al coito, la nevrosi lo limita ed erige il cavallo a emblema del terrore. Parrebbe così che nella nevrosi alle pulsioni rimosse toccasse solamente l’onore di fornire i pretesti per l’irruzione dell’angoscia nella coscienza. Ma per quanto chiara sia nella fobia la vittoria del rifiuto della sessualità, tuttavia la natura di compromesso della malattia fa sì che il rimosso ottiene ben altro. Alla fin fine la fobia dei cavalli è un impedimento a recarsi in istrada, e può servire come scusa per restare a casa, presso la madre amata. Con ciò anche la tenerezza verso la madre finisce per prevalere; il piccolo innamorato resta aggrappato al suo amato oggetto in virtù della sua stessa fobia, benché, naturalmente, siano state prese tutte le misure per rendere l’amante inoffensivo. In questo duplice effetto si palesa la vera natura della malattia nevrotica.

Alfred Adler, nell’interessante opera da cui abbiamo già tratto il termine “intreccio pulsionale”,510 ha recentemente esposto l’ipotesi che l’angoscia derivi dalla repressione di ciò ch’egli chiama “pulsione aggressiva”, alla quale assegna, con amplissima sintesi, la responsabilità principale di quanto avviene “nella vita e nella nevrosi”. La conclusione cui siamo giunti in questo caso di fobia, secondo cui l’angoscia sarebbe da spiegarsi con la rimozione delle tendenze aggressive (ostili verso il padre e sadiche verso la madre), parrebbe costituire una lampante conferma della tesi di Adler. Eppure io non posso condividerla, e la ritengo una generalizzazione atta a trarre in inganno. Non posso risolvermi ad ammettere una speciale pulsione aggressiva accanto alle pulsioni di autoconservazione e sessuali che ci sono familiari, e sullo stesso piano di queste.511 Mi sembra che Adler abbia a torto eretto a pulsione speciale quello che è un carattere generale e indispensabile di tutte le pulsioni, ossia proprio ciò che vi è in loro di “impulsivo”, urgente, quella che potremmo definire la loro capacità di dar avvio alla motilità. Delle altre pulsioni resterebbe allora soltanto la loro relazione con una meta, giacché la relazione con i mezzi per raggiungere quella meta viene loro sottratta dalla “pulsione aggressiva”. Nonostante tutta l’incertezza e la mancanza di chiarezza della nostra teoria delle pulsioni, preferisco attenermi ancora alla vecchia concezione, che lascia a ogni pulsione la propria facoltà di divenire aggressiva,512 e nelle due pulsioni che in Hans sono colpite dalla rimozione sono propenso a vedere componenti da tempo note della libido sessuale.513

3.

Prima di accingermi all’esame, che prevedo succinto, degli insegnamenti d’ordine generale che possiamo trarre dalla fobia del piccolo Hans per quanto riguarda la vita e l’educazione dei bambini, debbo ritornare sull’obiezione, a lungo accantonata, secondo cui Hans sarebbe un nevrotico, un tarato, un degenerato, un bambino anormale da cui non sarebbe lecito trarre conclusioni valevoli per gli altri bambini. Da tempo rabbrividisco al pensiero di come gli zelatori dell’“uomo normale” maltratteranno il nostro povero piccolo Hans, quando sapranno che è effettivamente possibile trovare in lui una tara ereditaria. La sua bella mamma prima di sposarsi era ricorsa alle mie cure per una malattia nevrotica generata da un conflitto, e di qui ebbe per l’appunto origine la mia relazione con lei e con il marito. Oserò tuttavia avanzare timidamente qualche considerazione in favore di suo figlio.

Innanzitutto, Hans non è a rigor di termini quello che diciamo un bambino tarato, ereditariamente predestinato alla malattia nervosa, bensì al contrario è un ragazzino di robusta costituzione, sereno, amabile, mentalmente sveglio, la cui compagnia è una gioia non soltanto per suo padre. La sua precocità sessuale non è certo da porre in dubbio, ma per ben giudicarla manchiamo di sufficienti termini di paragone. Da un’inchiesta collettiva condotta in America,514 per esempio, risulta che non è affatto raro riscontrare la scelta oggettuale e la sensibilità amorosa nei maschi della sua età, e lo stesso risulta dalla storia infantile di molti “grandi uomini”, sicché in definitiva credo di poter affermare che la precocità sessuale è quasi sempre correlativa a quella intellettuale e che perciò è molto più facile di quanto non si pensi costatarla nei bambini dotati.515

Nella mia confessa parzialità farò anche osservare, a favore del piccolo Hans, ch’egli non è l’unico bambino colpito da una fobia in questo o quel momento della sua infanzia. È noto che tali malattie si manifestano con straordinaria frequenza, anche in bambini la cui educazione non lascia nulla a desiderare in fatto di severità. Più tardi nella vita, questi bambini possono divenire nevrotici o rimanere sani. Poiché le loro fobie sono ribelli a ogni cura e sono certo assai scomode, vengono ridotte al silenzio sgridando i piccoli malati. Nel giro di mesi o di anni, esse recedono e in apparenza scompaiono; quali alterazioni psichiche richieda questa guarigione, quali modificazioni del carattere ne derivino, nessuno può dirlo. Quando poi prendiamo in trattamento psicoanalitico un nevrotico adulto il cui male supponiamo essersi manifestato solo in età matura, apprendiamo regolarmente che la nevrosi si riallaccia a quell’angoscia di bimbo e ne rappresenta la continuazione, e che dunque un lavorio psichico ininterrotto e indisturbato, prese le mosse da quei conflitti dell’infanzia, ha intessuto tutta la vita del soggetto, indipendentemente dalla persistenza del primo sintomo di tali conflitti o dalla sua scomparsa sotto la pressione delle circostanze. Ritengo dunque che probabilmente il nostro Hans non fosse più malato di tanti altri bambini che non bolliamo di “degenerazione”; solo che la sua angoscia si mostrò più audacemente che in altri, e ciò grazie al modo in cui era stato allevato senza intimidazione e con più riguardi e meno costrizioni possibili. Non gli rimordeva la coscienza e non aveva timore delle punizioni, motivi che presso altri certamente contribuiscono a diminuire l’angoscia. Mi sembra che noi diamo troppa importanza ai sintomi e ci preoccupiamo troppo poco della loro provenienza. Nell’educazione dei bambini noi badiamo soprattutto a essere lasciati in pace, a non avere difficoltà, insomma a fare di ognuno di essi un “bimbo bene educato”, curandoci assai poco di sapere se la disciplina a cui l’assoggettiamo giovi anche a lui oppure no. Perciò trovo plausibile l’idea che per Hans l’aver prodotto questa fobia fu una cosa salutare, poiché essa da una parte richiamò l’attenzione dei genitori sulle difficoltà che ogni bambino alle prese con la sua educazione civile inevitabilmente incontra nello sforzo di superare le sue componenti pulsionali innate, dall’altra fece accorrere il padre in suo aiuto. Forse Hans ha ora il vantaggio rispetto agli altri bambini di non recare più in sé quel germe di complessi rimossi che ha sempre importanza per la vita futura, causando una più o meno grande deformazione del carattere, se non addirittura la disposizione a una successiva nevrosi. Questo è il parere cui sono incline, ma non so quanti altri condivideranno tale giudizio e non so neppure se l’esperienza mi darà ragione.

Domandiamoci ora: qual danno ha procurato a Hans il portare alla luce in lui complessi solitamente rimossi dai figli e temuti dai genitori? Forse che perciò egli ha seriamente tentato di tradurre in atto le sue pretese verso la madre, o forse che alle cattive intenzioni contro il padre sono subentrati i fatti? Certo, è quello che avranno temuto i molti che, misconoscendo la natura della psicoanalisi, credono che render coscienti le cattive pulsioni significhi renderle più forti. Queste sagge persone agiscono con coerenza quando ci supplicano per l’amor del cielo di non occuparci delle brutture che si nascondono dietro le nevrosi. Ma, così facendo, essi dimenticano di esser medici e vengono fatalmente a rassomigliare al Sanguinello shakespeariano in Molto rumore per nulla, che consiglia alla ronda di tenersi lontana da ogni contatto con i ladri che incontrasse per via. “Con gente di quella specie, meno che vi ci immischiate o avete a che fare, meglio è per la vostra onestà.”516

Al contrario, le uniche conseguenze dell’analisi sono che Hans guarisce, che non ha più paura dei cavalli e che assume una specie di tono cameratesco con il padre, come questi ci riferisce divertito. Ma quel che il padre perde in rispetto lo riacquista in fiducia: “Credevo che tu sapessi tutto, perché hai saputo la cosa del cavallo.” L’analisi non annulla l’effetto della rimozione; le pulsioni precedentemente represse restano represse; ma essa ottiene lo stesso effetto per altra via, sostituendo al processo della rimozione, che è automatico ed eccessivo, il graduale dominio temperato e adeguato conseguito con l’aiuto delle massime istanze psichiche, in una parola: sostituendo alla rimozione la condanna. Ciò sembra darci la prova, da tempo cercata, del fatto che la coscienza – l’essere coscienti – ha una funzione biologica, e che il suo avvento implica un importante vantaggio.517

Se la cosa fosse dipesa soltanto da me avrei osato dare al bambino anche una spiegazione che i genitori ritennero di ricusargli. Avrei confermato i suoi presentimenti istintivi rivelandogli l’esistenza della vagina e del coito, e in tal modo avrei ulteriormente ridotto i suoi residui insoluti e messo fine al suo torrente di domande. Sono convinto che non ne avrebbero sofferto né il suo amore per la mamma né la sua natura di bimbo e che avrebbe compreso egli stesso che, per occuparsi di queste importanti, anzi imponenti questioni, avrebbe dovuto attendere in pace che si fosse adempiuto il suo desiderio di diventare grande. Ma l’esperimento pedagogico non fu condotto così a fondo.

Che non sia possibile tracciare un netto confine tra “nervosi” e “normali”, sia bambini che adulti; che la “malattia” sia soltanto un concetto meramente pratico di sommazione; che la predisposizione e i casi della vita debbano combinarsi per varcar la soglia di questa sommazione; che pertanto numerosi individui passino continuamente dalla categoria dei sani a quella dei malati di nervi, mentre un numero assai minore compie il tragitto inverso, sono tutte cose che sono state dette tante volte e hanno trovato tanta eco, che non son io certo il solo a sostenerle. Ora, è perlomeno molto verosimile che l’educazione del bambino possa esercitare un profondo influsso a favore o a sfavore di quella predisposizione alla malattia che abbiamo menzionato come fattore della sommazione. Ma a che deve mirare l’educazione? dove deve intervenire? È ancora difficile rispondere con sicurezza. Finora, essa si è posta per compito soltanto il dominio, o meglio la repressione delle pulsioni. I risultati sono stati tutt’altro che soddisfacenti e dove si è avuto qualche successo, questo ha riguardato soltanto un esiguo numero di privilegiati sfuggiti alla pretesa della repressione pulsionale. D’altra parte nessuno si è domandato per quali vie e in virtù di quali sacrifici si raggiunga la repressione delle pulsioni imbarazzanti. Se per contro noi sostituiamo a questo compito un altro, quello di rendere l’individuo atto alla civiltà e utile membro del consorzio umano, senza chiedergli di sacrificare la propria attività più di quanto non sia strettamente necessario, ecco che allora i chiarimenti datici dalla psicoanalisi sull’origine dei complessi patogeni e sul nucleo di ciascheduna nevrosi meriteranno giustamente di essere considerati dall’educatore una guida di inestimabile valore per la condotta da tenere nei confronti del bambino. Quali conclusioni pratiche se ne possano trarre, fino a che punto l’esperienza possa giustificare l’applicazione di tali conclusioni nel nostro sistema sociale, lascio ad altri di decidere e di giudicare.518

Non posso prender congedo dalla fobia del nostro piccolo paziente senza esprimere un’idea che conferisce per me un valore particolare all’analisi che permise la guarigione. Quest’analisi non m’ha rivelato, in senso stretto, nulla di nuovo, nulla che non avessi già appreso (spesso in modo meno chiaro e meno immediato) durante la cura di altri pazienti in età matura. Ma, poiché le nevrosi di questi altri malati potevano sempre esser ricondotte a quegli stessi complessi infantili che abbiamo scoperto dietro la fobia di Hans, sono tentato di annettere a questa nevrosi infantile l’importanza di un modello e di un tipo, opinando che la molteplicità dei fenomeni nevrotici di rimozione e l’abbondanza del materiale patogeno non impediscano la loro derivazione da pochissimi processi riguardanti gli stessi complessi rappresentativi.

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