Terzo contributo
Il tabù della verginità
1917
Poche singolarità della vita sessuale dei popoli primitivi sono così sorprendenti per il nostro modo di sentire come la valutazione che essi fanno della verginità, dell’illibatezza femminile.558 A noi sembra così ben riposto e naturale l’alto valore che il corteggiatore ripone nella verginità della donna che quasi ci troviamo imbarazzati se dobbiamo dire il perché del nostro giudizio. La pretesa che la ragazza non porti nel matrimonio con un uomo alcun ricordo di relazioni sessuali con un altro, non è a ben vedere altro che la continuazione logica di quel diritto all’esclusivo possesso di una donna che forma l’essenza della monogamia: l’estensione di questo monopolio al suo passato.
Da quest’ultimo punto di vista, giovandoci di quanto abbiamo scoperto sulla vita amorosa della donna, non è difficile giustificare quello che a tutta prima sembra essere un pregiudizio. L’uomo che per primo soddisfi l’ardente desiderio d’amore della vergine, per lungo tempo e a gran fatica soffocato, e abbia nel far ciò superato le resistenze in lei costruitesi attraverso gli influssi dell’ambiente e dell’educazione, diventerà colui con cui ella riuscirà a stabilire un rapporto duraturo, mentre la possibilità di tale rapporto resterà sbarrata ad ogni altro. Sulla base di questa esperienza si crea nella donna uno stato di soggezione che garantisce la continuazione indisturbata del suo possesso e la rende capace di resistere a nuove impressioni e tentazioni che provengono dall’esterno.
L’espressione “soggezione sessuale” fu scelta nel 1892 da Krafft-Ebing559 per descrivere il fenomeno di una persona con un grado insolitamente alto di dipendenza e di mancanza di autonomia nei confronti di un’altra persona con cui ha rapporti sessuali. In virtù di questa soggezione ci si può spingere talora a rinunciare a qualsiasi volontà indipendente e a tollerare i più pesanti sacrifici dei propri interessi. Il nostro autore tuttavia non ha tralasciato di notare che una certa misura di tale dipendenza “è assolutamente necessaria, se il legame deve avere una certa durata”. Una qualche misura di soggezione sessuale è in effetti indispensabile al mantenimento del matrimonio in una società civile e per tenere a bada le tendenze poligamiche che lo minacciano; nella nostra comunità sociale si tiene regolarmente conto di questo fattore.
Un “grado insolito d’innamoramento e di debolezza di carattere” da un lato, e uno sconfinato egoismo dall’altro, sono secondo Krafft-Ebing le condizioni dal cui concorso deriva la soggezione sessuale. Le esperienze analitiche, tuttavia, non ci permettono di accontentarci di questo semplice tentativo di spiegazione. Si deve piuttosto riconoscere che il fattore determinante è costituito dall’entità della resistenza sessuale che è stata superata; contano inoltre la concentrazione nel tempo del processo di superamento e il fatto che esso si sia prodotto in una volta sola. La soggezione, pertanto, è di gran lunga più frequente e più intensa nelle donne che negli uomini, sebbene in questi ultimi essa ricorra ai nostri giorni più spesso che non in antico. Ove siamo stati in grado di studiare la soggezione sessuale negli uomini, essa si è mostrata la conseguenza del superamento di un’impotenza psichica grazie a una donna particolare, alla quale l’uomo in questione è rimasto da allora legato.560 Molti matrimoni sorprendenti e più di un tragico destino – persino con remote conseguenze – sembrano trovare la loro spiegazione in questa origine.
Per tornare al comportamento dei primitivi: non è giusto dire che essi non ripongono alcun valore nella verginità, e addurre a prova di ciò il fatto che essi fanno compiere la deflorazione delle ragazze fuori dal matrimonio e prima dell’inizio dei rapporti sessuali col marito. Al contrario, sembra che anche per loro la deflorazione sia un atto importantissimo, solo è divenuto oggetto di un tabù, di un divieto che dobbiamo definire religioso. Invece di riservarlo allo sposo e futuro marito, il costume esige che costui eviti di compiere tale atto.561
Non fa parte dei miei scopi raccogliere esaurientemente le prove, nella letteratura sull’argomento, dell’esistenza di questo divieto tradizionale, seguire la sua diffusione geografica ed enumerare tutte le forme in cui si esprime. Mi accontento perciò di affermare che la rottura dell’imene, eseguita al di fuori del susseguente matrimonio, è una pratica molto diffusa fra i popoli primitivi attualmente viventi. Come dice Crawley:562 “Questa cerimonia matrimoniale consiste nella perforazione dell’imene da parte di una persona designata che non sia il marito; è comunissima negli stadi più bassi di civiltà, specialmente in Australia.”
Poiché il marito deve evitare di compiere la deflorazione come primo atto sessuale, la deflorazione deve essere stata effettuata prima, in qualche modo e da qualcuno. Citerò alcuni passi dal libro di Crawley sopra menzionato, che danno informazioni su questi punti, e ci offrono insieme il destro per alcune osservazioni critiche.
Pagina 191: “Così presso i Dieri e le tribù confinanti (in Australia) è uso universale rompere l’imene delle ragazze quando hanno raggiunto la pubertà.563 Nelle tribù delle regioni di Portland e di Glenelg spetta a una vecchia farlo alla sposa; e talvolta si richiede ai bianchi per questa ragione di deflorare le ragazze.”564
Pagina 307: “La lacerazione artificiale dell’imene ha luogo talvolta nell’infanzia, ma generalmente all’avvento della pubertà... È spesso collegata, come in Australia, con un coito cerimoniale.”
Pagina 348: (Di tribù australiane presso cui sono in vigore le ben note restrizioni matrimoniali esogame, da comunicazione di Spencer e Gillen565) “L’imene è perforato artificialmente, e poi gli uomini che assistono hanno accesso (cerimoniale, si osservi) alla ragazza in un ordine stabilito... L’atto avviene in due tempi, perforazione e coito.”
Pagina 349: “Un preliminare importante del matrimonio tra i Masai (nell’Africa equatoriale) è il compimento di questa operazione sulla ragazza.566 Questa deflorazione è compiuta dal padre della sposa fra i Sakai (Malesia), i Batta (Sumatra), e gli Alfoer di Celebes.567 Nelle Filippine c’erano certi uomini la cui professione era di deflorare le spose, nel caso in cui l’imene non fosse già stato lacerato nell’infanzia da una vecchia cui talvolta veniva assegnato questo compito.568 La deflorazione della sposa presso alcune tribù eschimesi era affidata all’angekok, o sacerdote.”569
Le osservazioni critiche cui mi riferivo concernono due punti. In primo luogo c’è da rimpiangere che in questi resoconti non si distingua più accuratamente tra la semplice lacerazione dell’imene senza coito e il coito effettuato allo scopo di operare tale rottura. Soltanto in un passo è detto espressamente che il procedimento si divide in due tempi: la deflorazione (manuale o strumentale) e l’atto sessuale che ad essa consegue. Il materiale raccolto da Ploss e Bartels, sotto altri aspetti così ricco, è quasi inutilizzabile per il nostro scopo, perché nella loro esposizione il significato psicologico dell’atto della deflorazione scompare completamente di fronte alla sua conseguenza anatomica. In secondo luogo, gradiremmo essere informati in che cosa il coito “cerimoniale” (puramente formale, rituale, ufficiale) effettuato in queste occasioni differisca dal rapporto sessuale ordinario. Gli autori a cui ho avuto accesso o erano troppo verecondi per esprimersi sulla questione, oppure hanno ancora una volta sottovalutato il significato psicologico di tali dettagli sessuali. C’è da sperare che le testimonianze originali di viaggiatori e missionari siano più esaurienti e meno ambigue, ma a causa dell’odierna inaccessibilità di questa letteratura in massima parte straniera,570 non posso dire niente di certo sull’argomento. In ogni modo possiamo aggirare il dubbio che sorge su questo secondo punto considerando che un finto coito cerimoniale dopo tutto rappresenterebbe soltanto il sostituto, e forse il riscatto, per un atto che in tempi precedenti era compiuto fino in fondo.571
Per la spiegazione di questo tabù della verginità si possono addurre svariati fattori, che mi accingo a vagliare in una rapida esposizione. Durante la deflorazione della ragazza, di regola si versa del sangue; il primo tentativo di spiegazione ricorre quindi all’orrore del sangue tra i primitivi, che considerano il sangue la sede della vita. Questo tabù del sangue si riscontra in molteplici prescrizioni che non hanno niente a che fare con la sessualità; è ovviamente connesso con la proibizione contro l’assassinio e costituisce una misura protettiva contro la primordiale sete di sangue, il piacere d’uccidere che prova l’uomo primitivo. Secondo questa concezione il tabù della verginità è rapportato al tabù della mestruazione, che è osservato quasi senza eccezione. L’uomo primitivo non può dissociare il misterioso fenomeno del flusso mensile di sangue da rappresentazioni sadiche. La mestruazione, specialmente il suo primo apparire, è da lui interpretata come il morso di uno spirito animale, forse come segno del rapporto sessuale con questo spirito. Talvolta qualche notizia permette di riconoscere questo primo spirito come quello di un antenato e allora, col supporto di altre scoperte,572 comprendiamo che la ragazza con le mestruazioni è tabù in quanto proprietà di questo spirito ancestrale.
Altre considerazioni tuttavia ci ammoniscono a non sopravvalutare l’influsso di un fattore come l’orrore del sangue. Dopotutto esso non è stato in grado di reprimere pratiche, che sono in qualche misura nel costume dei medesimi popoli, come la circoncisione dei ragazzi e il suo ancor più crudele equivalente per le ragazze (recisione della clitoride e delle piccole labbra), né di abolire la validità di altre cerimonie in cui viene sparso del sangue. Non sarebbe perciò sorprendente se l’orrore del sangue venisse superato a beneficio del marito nell’occasione della prima coabitazione.
C’è una seconda spiegazione, anche questa non pertinente alla sessualità, che ha però una portata molto più generale della prima. Essa suggerisce che l’uomo primitivo sia preda di una perpetua disposizione all’angoscia, sempre in agguato: proprio ciò che nella teoria psicoanalitica delle nevrosi noi riteniamo per coloro che soffrono di nevrosi d’angoscia. Questa disponibilità all’angoscia apparirà più fortemente in tutte le occasioni che differiscono in qualche modo dall’usuale, che implicano qualcosa di nuovo, inaspettato, inesplicato, perturbante. Questa è anche l’origine del cerimoniale, largamente adottato nelle religioni più tarde, che accompagna l’inizio di ogni nuova impresa, l’esordio di ogni periodo di tempo, i primordi della vita umana, animale e vegetale. I pericoli da cui l’ansioso si crede minacciato, mai appaiono più grandi nella sua aspettativa che quando egli sta per affrontare una situazione densa di pericoli, ed è altresì solo allora che ha senso proteggersi contro di essi. Il primo atto sessuale nel matrimonio può certamente pretendere, per l’importanza che ha, di essere preceduto da tali misure precauzionali. Questi due tentativi di spiegazione, basati sull’orrore del sangue e sull’angoscia della “prima volta”, non si contraddicono ma piuttosto si rinforzano l’un l’altro. Il primo rapporto sessuale è certamente un atto grave, a maggior ragione se implica spargimento di sangue.
Una terza spiegazione – quella che Crawley privilegia – pone attenzione al fatto che il tabù della verginità appartiene a un ampio contesto che abbraccia l’intera vita sessuale. Non soltanto il primo coito con una donna è tabù, bensì il rapporto sessuale in genere; si potrebbe quasi dire che la donna nel complesso sia tabù. Non soltanto la donna è tabù nelle particolari situazioni che discendono dalla sua vita sessuale: la mestruazione, la gravidanza, il parto e il puerperio; oltreché in queste situazioni, il rapporto sessuale con la donna è soggetto a tanto solenni e numerose restrizioni che abbiamo ogni motivo di dubitare della presunta libertà sessuale dei selvaggi. È vero che in particolari occasioni la sessualità dei primitivi scavalca tutte le inibizioni; ma di solito sembra soggiacere più fortemente a divieti di quella dei gradi superiori di civiltà. Ogni volta che l’uomo intraprende qualcosa di particolare, una spedizione, una caccia, una campagna di guerra, deve tenersi lontano dalla moglie e specialmente non deve congiungersi con lei; altrimenti ella paralizzerebbe la sua forza e gli porterebbe sfortuna. Anche nelle usanze della vita quotidiana c’è un’innegabile tendenza a tener separati i sessi: le donne vivono con le donne e gli uomini con gli uomini; la vita familiare, come la intendiamo noi, non sembra quasi esistere presso molte tribù primitive. L’obbligo della separazione può spingersi fino al divieto alle persone di un sesso di pronunciare i nomi di quelle dell’altro sesso; così le donne sviluppano un linguaggio con un vocabolario speciale. Il bisogno sessuale può infrangere di volta in volta queste barriere di separazione, ma in parecchie tribù persino gli incontri fra marito e moglie devono aver luogo fuori della casa e in segreto.
Ove l’uomo primitivo ha posto un tabù, là egli teme un pericolo, ed è indiscutibile che in tutti questi obblighi di evitarsi si esprima un timore aprioristico di fronte alle donne. Forse questo timore è basato sul fatto che la donna è diversa dall’uomo, eternamente incomprensibile e misteriosa, strana e perciò apparentemente ostile. L’uomo teme di essere indebolito dalla donna, di essere contaminato dalla sua femminilità e di mostrarsi poi incapace. La spossatezza che deriva dal coito e il suo effetto di rilassamento delle tensioni costituiscono il modello di ciò che l’uomo teme, e la percezione dell’influenza che la donna acquista su di lui attraverso il rapporto sessuale, nonché la considerazione che essa con ciò si conquista rendono ragione dell’estensione di questa paura. In tutto ciò non c’è niente di arcaico, niente che non sia ancora vivo oggi fra noi.
Molti osservatori hanno espresso il giudizio che gli impulsi della vita amorosa dei primitivi oggi viventi sono relativamente deboli e non raggiungono mai le intensità che siamo abituati a incontrare presso gli uomini civilizzati. Altri osservatori hanno contraddetto questa opinione, ma in ogni caso l’uso dei tabù descritti testimonia l’esistenza di una potenza che si oppone all’amore, in quanto rifiuta la donna come estranea e ostile.
Con espressioni che differiscono solo di poco dalla terminologia corrente della psicoanalisi, Crawley dichiara che ogni individuo è separato dagli altri da un “taboo of personal isolation” [tabù di isolamento personale], e che sono proprio le piccole differenze nella somiglianza abituale a provocare i sentimenti di estraneità e di ostilità fra gli individui. Sarebbe allettante dar seguito a quest’idea e far risalire a questo “narcisismo delle piccole differenze”573 l’ostilità che, in ogni relazione umana, vediamo combattere con successo contro il senso di solidarietà e sopraffare il comandamento dell’amore universale. La psicoanalisi, richiamando l’attenzione sul complesso di evirazione e sul suo significato per l’opinione in cui è tenuta la donna, crede di aver colto gran parte di ciò che sta a fondamento del rifiuto narcisistico della donna da parte dell’uomo, rifiuto abbondantemente commisto a disprezzo.
Notiamo peraltro che queste ultime considerazioni ci hanno portato a spaziare molto oltre il nostro tema. Il tabù generale riguardo alla donna non getta nessuna luce sulle prescrizioni particolari concernenti il primo atto sessuale con una vergine. Quanto a questo siamo sempre fermi alle prime due spiegazioni, quelle dell’orrore del sangue e della prima volta, e anche queste, va detto, non toccano il nocciolo del tabù imperativo in questione. Ad esso sottostà chiarissimamente l’intenzione di rifiutare o risparmiare proprio al futuro marito qualcosa che non si può dissociare dal primo atto sessuale, sebbene, secondo l’osservazione da noi fatta all’inizio, proprio da questo rapporto dovrebbe derivare un particolare vincolo della donna a quell’unico uomo.
Non è nostro compito discutere l’origine e il significato ultimo delle prescrizioni dei tabù in questa sede. L’ho fatto nel mio libro Totem e tabù [1912-13], dove ho preso in dovuta considerazione l’ambivalenza originaria che determina il sorgere del tabù e ho rintracciato la genesi di quest’ultimo negli eventi preistorici che hanno condotto alla fondazione della famiglia umana. Non è più possibile, a partire dai tabù che oggi riscontriamo fra le tribù primitive, risalire a un significato del genere. Una tale pretesa da parte nostra significherebbe che abbiamo dimenticato troppo facilmente che la civiltà in cui anche i popoli più primitivi vivono è molto lontana da quella dei tempi primordiali, che è antica quanto la nostra dal punto di vista temporale e come la nostra corrispondente a un più tardo, seppur diverso, stadio di sviluppo.
Oggi troviamo il tabù presso i primitivi già articolato in un ingegnoso sistema, del tutto simile a quello che i nostri nevrotici sviluppano nelle loro fobie, e vecchi motivi rimpiazzati da nuovi armonizzati insieme. Tralasciando ogni problema genetico, torniamo a ribadire il concetto che il primitivo istituisce un tabù dove egli teme un pericolo. Visto in generale, questo pericolo è psichico, poiché il primitivo non è spinto in proposito a fare la duplice distinzione che a noi sembra inevitabile: non separa cioè il pericolo materiale da quello psichico, né quello reale da quello immaginario. Nella concezione animistica dell’universo, cui egli s’attiene in modo conseguente, ogni pericolo sorge dall’intenzione ostile di un essere, come lui provvisto di un’anima; ciò vale tanto per il pericolo che lo minaccia da qualche forza naturale, quanto per quello proveniente da altri uomini o animali. D’altra parte però è abituato a proiettare i propri moti interni di ostilità sul mondo esterno, ad attribuirli dunque agli oggetti che sente come sgradevoli o anche soltanto estranei. Anche la donna è in questo modo riconosciuta come fonte di tali pericoli, e il primo atto sessuale con una donna si contraddistingue come pericolo particolarmente intenso.
Credo ora che otterremo qualche informazione su quale sia questo gravissimo pericolo e sul perché esso minacci proprio il futuro marito, se esaminiamo più da vicino il comportamento, nelle stesse circostanze, di donne che vivono oggi e appartengono al nostro livello di civiltà. Dirò subito, anticipando il risultato di questa ricerca, che tale pericolo esiste effettivamente, cosicché con il tabù della verginità il primitivo si difende contro un pericolo presentito a ragione, anche se è solo psichico.
Noi riteniamo reazione normale che la donna dopo il coito, al culmine del soddisfacimento, abbracci l’uomo stringendolo fortemente a sé, e vediamo in ciò un’espressione della sua gratitudine e un pegno di durevole soggezione. Ma sappiamo che non è affatto la regola che fin dal primo amplesso si verifichi questo comportamento; molto spesso esso significa solo delusione per la donna, che rimane fredda e insoddisfatta, e normalmente ci vuole molto tempo e la frequente ripetizione dell’atto sessuale prima che esso sia in grado di soddisfare anche la donna. Da questi casi di frigidità meramente iniziale che presto si dilegua, si snoda una serie continua fino all’increscioso fenomeno di permanente e ostinata frigidità che nessun tenero sforzo da parte del marito può superare. Credo che questa frigidità della donna non sia ancora sufficientemente compresa e, tranne che per quei casi in cui la colpa è da ascrivere all’insufficiente potenza dell’uomo, esiga chiarimenti, ove possibile attraverso fenomeni similari.
Non desidero menzionare a questo punto i tentativi, così frequenti, di sfuggire al primo amplesso sessuale, perché sono suscettibili di più di un’interpretazione e sono soprattutto, anche se non interamente, da intendere come espressione della generale tensione difensiva della donna. Per contro, credo che gettino luce sull’enigma della frigidità femminile certi casi patologici in cui dopo il primo atto sessuale – e invero dopo ogni nuovo atto – la donna porta a scoperta espressione la sua ostilità verso l’uomo, insultandolo, alzando le mani contro di lui o anche colpendolo di fatto. In un caso molto notevole di questo genere, che potei sottoporre ad analisi approfondita, ciò accadeva sebbene la donna amasse molto l’uomo, fosse solita richiedere ella stessa il coito e in esso trovasse un inequivocabile, alto soddisfacimento. Penso che questa strana, contraddittoria reazione sia il risultato degli stessi impulsi che di solito riescono a esprimersi solo come frigidità: vale a dire che quegli impulsi sono in grado di sbarrare il passo alla reazione affettuosa, senza in questo caso farsi valere per sé stessi. Nel caso patologico è, per così dire, scisso nelle sue due componenti ciò che nella frigidità, la quale è molto più frequente, è unito a produrre un effetto inibitorio, proprio come da lungo tempo abbiamo riconosciuto nei cosiddetti sintomi “bifasici” della nevrosi ossessiva.574 Il pericolo in cui si incorrerebbe deflorando una donna consisterebbe dunque nell’attirare la sua ostilità su di sé, e proprio il futuro marito avrebbe ogni motivo per sottrarsi a tale ostilità.
Ora l’analisi ci consente di arguire senza difficoltà quali impulsi della donna partecipino a determinare questo comportamento paradossale, nel quale è secondo me racchiusa la spiegazione della frigidità. Il primo coito mobilita una serie di tali impulsi, tutti inutilizzabili ai fini dell’atteggiamento femminile desiderato e di cui alcuni non ricorrono necessariamente negli amplessi successivi. In primo luogo viene qui da pensare al dolore che è causato alla vergine dalla deflorazione, e forse anzi si tenderà a considerare decisivo questo fattore e a rinunciare a cercarne altri. Ma non si può davvero attribuire tanta importanza al dolore; dobbiamo piuttosto sostituirlo con l’umiliazione narcisistica, che scaturisce dalla distruzione di un organo, e che riesce persino a esprimersi razionalmente nella consapevolezza del diminuito valore sessuale di una donna deflorata. Gli usi matrimoniali dei primitivi contengono peraltro un avvertimento a non sopravvalutare tutto ciò. Abbiamo sentito che in parecchi casi il cerimoniale avviene in due tempi: dopo che l’imene è stato lacerato (con la mano o con uno strumento) segue un coito ufficiale o falso congiungimento con i rappresentanti del marito, e ciò ci dimostra che il senso di quanto prescrive il tabù non è realizzato con l’evitare la deflorazione anatomica, che al marito deve essere risparmiato anche qualcos’altro oltre la reazione della donna alla violenza subìta.
Troviamo una ragione ulteriore della delusione dovuta al primo coito nel fatto che, almeno nella donna civilizzata, aspettativa e appagamento non possono andar d’accordo. Il rapporto sessuale era stato idealmente posto fino a quel momento in strettissima associazione col suo divieto; legalità e liceità non sono perciò sentiti come coincidenti in relazione al rapporto sessuale. Quanto intimo possa essere questo nesso, lo dimostrano in modo quasi comico gli sforzi che tante spose promesse fanno per tenere segreti i propri legami sentimentali a tutti gli estranei e perfino ai genitori, benché non ci sia nulla da nascondere e nessuno possa avere qualcosa da ridire. Le ragazze dicono apertamente che per quel che le riguarda il loro amore perde valore se altri ne sono al corrente. Talvolta questo motivo può diventare dominante e impedire completamente lo sviluppo della capacità amorosa nel matrimonio. La donna ritrova la sua tenera sensibilità solo in una relazione illecita da tenere segreta, in cui si sente sicura della propria autonomia.
Eppure anche questo motivo non va abbastanza a fondo; inoltre, legato com’è alle condizioni del mondo civile, lascia in parte irrisolto il problema della medesima situazione presso i popoli primitivi. Ben più importante è quindi il fattore seguente, che ha le sue radici nella storia evolutiva della libido. Grazie agli sforzi dell’analisi, ci è divenuto noto quanto siano universali e importanti le primissime collocazioni della libido. Sono qui di scena desideri sessuali conservati dall’infanzia (per la donna quasi sempre una fissazione della libido al padre o a un fratello che lo sostituisce); questi desideri spesso non miravano al coito, o lo includevano solo come una meta vagamente percepita. Il marito è per così dire sempre solo un sostituto, non è mai l’uomo giusto; il primo posto nella capacità amorosa della donna lo ha un altro, in casi tipici il padre, il marito ha al massimo il secondo posto. Dipende da quanto intensa è questa fissazione e dalla tenacia con cui si mantiene se il sostituto è rifiutato come insoddisfacente. La frigidità è dunque tra le condizioni genetiche della nevrosi. Quanto più l’elemento psichico nella vita sessuale della donna è potente, tanto più la ripartizione libidica si dimostra in lei capace di resistenza contro la scossa del primo atto sessuale, e tanto meno violento l’effetto che il possesso del suo corpo può produrre in lei. La frigidità può allora stabilizzarsi come inibizione nevrotica o fornire il terreno per lo sviluppo di altre nevrosi, e basterà una moderata diminuzione della potenza virile ad aiutare notevolmente questo processo.
I costumi dei primitivi sembrano tener conto del “motivo” del desiderio sessuale in così piccola età, affidando la deflorazione a un anziano, a un prete, a un sant’uomo, insomma a un sostituto del padre (vedi sopra). A me sembra che di qui una via diretta conduce al tanto oppugnato ius primae noctis del castellano medievale. A. J. Storfer ha sostenuto la stessa tesi e inoltre, come già prima di lui C. G. Jung, ha interpretato la diffusa istituzione delle “notti di Tobia” (il costume della continenza nelle prime tre notti) come un riconoscimento del diritto del patriarca.575 Concorda perciò con le nostre aspettative il fatto che troviamo fra i surrogati paterni cui è affidata la deflorazione anche l’immagine degli dèi. In alcune contrade dell’India la sposa novella doveva sacrificare l’imene al lingam ligneo, e, a quanto riferisce sant’Agostino, la stessa usanza esisteva nel cerimoniale matrimoniale romano (del suo tempo?), con l’attenuante che la giovane donna doveva soltanto sedersi sul gigantesco fallo di pietra di Priapo.576
In strati ancora più profondi giacciono le radici di un altro motivo, che si può dimostrare come il principale responsabile della paradossale reazione verso l’uomo, e il cui influsso, a mio parere, si manifesta anch’esso nella frigidità della donna. Attraverso il primo coito si attivano nella donna anche altri antichi impulsi oltre quelli descritti, che si oppongono decisamente alla funzione e al ruolo femminile.
Sappiamo dall’analisi di molte donne nevrotiche che esse attraversano uno stadio primitivo in cui invidiano ai fratelli il segno della virilità e si sentono svantaggiate e minorate a causa della mancanza di esso (o meglio della sua riduzione). Noi includiamo questa “invidia del pene” nel “complesso di evirazione”. Se si intende per “virilità” anche la volontà di essere un uomo, allora si addice a questo comportamento la denominazione di “protesta virile”, che Alfred Adler ha coniato intendendo così proclamare che questo fattore è il principale apportatore di nevrosi.577 In questa fase le bambine spesso non fanno alcun mistero della loro invidia né della conseguente ostilità contro i privilegiati fratelli: tentano anche di orinare in piedi come i fratelli per sostenere la loro pretesa parità. Nel caso già menzionato di aggressione incontrollata dopo il coito nei confronti del marito altrimenti amato, ho potuto accertare l’esistenza di questa fase prima della scelta oggettuale. Solo più tardi la libido della bambina si era diretta sul padre, e allora, invece del pene voleva... un bambino.578
Non sarei sorpreso se in altri casi si trovasse invertita la successione temporale di questi impulsi e se questa parte del complesso di evirazione579 avesse effetto solo dopo che è avvenuta la scelta oggettuale. Ma dal punto di vista della storia evolutiva la fase virile della bambina, quella in cui ella invidia il pene al maschio è comunque precedente e più vicina al narcisismo originario che all’amore oggettuale.
Qualche tempo fa ebbi per caso l’opportunità di esaminare il sogno di una giovane sposa nel quale giunsi a riconoscere una reazione allo sverginamento. Esso svelò, senza costrizione da parte mia, il desiderio della donna di evirare il giovane marito e di tenere per sé il suo pene. C’era certamente spazio anche per l’interpretazione più innocente, che fosse desiderato il prolungamento e la ripetizione dell’atto, ma alcuni dettagli del sogno andavano oltre questo significato, e sia il carattere che il contegno successivo della sognatrice testimoniavano a favore dell’interpretazione meno banale. Dietro a questa invidia del pene venne alla luce l’ostile animosità della donna contro l’uomo, mai del tutto assente nelle relazioni tra i sessi e di cui le aspirazioni e gli scritti letterari delle donne “emancipate” forniscono indicazioni chiarissime. In una speculazione paleobiologica, Ferenczi – non so se per primo – riconduce questa ostilità all’epoca della differenziazione tra i sessi. Originariamente, egli ritiene, la copulazione avveniva tra due individui consimili, di cui però uno si trasformò nel più forte e obbligò il più debole a sopportare l’unione sessuale. L’esacerbazione derivante da questa sottomissione si protrae ancora nell’odierna disposizione della donna. Ritengo che non sia riprovevole servirsi di tali speculazioni purché ci si astenga dal sopravvalutarle.
Enumerati così i motivi della reazione paradossale che la deflorazione suscita nella donna e le cui tracce sussistono nella frigidità, possiamo dire riassumendo che la sessualità ancor acerba della donna si scarica sull’uomo che per primo le fa conoscere l’atto sessuale. Se è così, il tabù della verginità ha un suo senso e comprendiamo la prescrizione intesa a proteggere da tali pericoli proprio l’uomo che deve iniziare una convivenza durevole con la donna in questione. A livelli più alti di civiltà, l’importanza attribuita a questo pericolo passa in secondo piano di fronte alla promessa di soggezione e certo anche di fronte ad altri motivi e allettamenti; la verginità è considerata un bene tangibile al quale l’uomo non è tenuto a rinunciare. Ma l’analisi dei disturbi matrimoniali insegna che i motivi che vogliono costringere la donna deflorata a vendicarsi non sono del tutto estinti nemmeno nella vita psichica della donna civile. Penso che l’osservatore non possa fare a meno di essere colpito dal numero inatteso di casi in cui la donna rimane frigida e si sente infelice in un primo matrimonio, mentre, sciolto questo, diventa una moglie tenera e capace di rendere felice il secondo marito. La reazione arcaica si è per così dire esaurita sul primo oggetto.
Il tabù della verginità non è del resto tramontato nella nostra vita civile. L’anima popolare lo conosce e gli scrittori si sono serviti occasionalmente di questo materiale. Anzengruber580 rappresenta in una commedia come un semplice contadinotto si lasci trattenere dallo sposare la sua promessa perché “quella sgualdrina costerà la vita al primo”. Perciò egli acconsente che sposi un altro e la vuol prendere vedova, dopo, quando non è più pericolosa. Il titolo della commedia, Das Jungferngift [Il veleno della vergine], ricorda gli addomesticatori di serpenti, che prima fanno mordere un pezzo di stoffa ai serpenti velenosi per maneggiarli poi senza pericolo.581
Il tabù della verginità e una parte dei motivi che ne stanno alla base hanno trovato la loro più potente rappresentazione in un noto personaggio drammatico, nella Giuditta della tragedia di Hebbel: Giuditta e Oloferne [1839]. Giuditta è una di quelle donne la cui verginità è protetta da un tabù. Il suo primo marito fu paralizzato nella prima notte da un’angoscia misteriosa e non ebbe più il coraggio di toccarla. “La mia bellezza è come quella della belladonna – ella dice. – Il suo godimento porta pazzia e morte.” Quando il generale assiro assedia la sua città, ella concepisce il piano di sedurlo con la sua bellezza e di annientarlo, occultando sotto un motivo patriottico un motivo sessuale. Dopo la deflorazione per opera di questo gagliardo, che si vanta di esser forte e privo di scrupoli, ella attinge dal proprio sentimento di rivolta la forza di tagliargli la testa e diventa così la liberatrice del suo popolo. Decapitare, come sappiamo, è il sostituto simbolico per evirare; di conseguenza Giuditta è la donna che evira l’uomo da cui è stata deflorata, come anche voleva fare la novella sposa del sogno da me riportato. Hebbel ha deliberatamente sessualizzato il racconto patriottico tratto dagli Apocrifi del Vecchio Testamento, perché nella versione originale del testo biblico Giuditta può vantarsi al suo ritorno di non essere stata contaminata e non viene fatto cenno alla sua sconvolgente notte nuziale. Ma probabilmente con il sottile senso del poeta, Hebbel ha avvertito il motivo ancestrale che era andato perduto in quella tendenziosa narrazione, e non ha fatto altro che restituire alla materia il suo contenuto originario.
Sadger ha mostrato, in una penetrante analisi,582 come Hebbel fosse determinato nella scelta del materiale dal proprio complesso parentale, e come giungesse a parteggiare puntualmente per la donna nella lotta dei sessi immedesimandosi negli impulsi nascosti nel più profondo della sua psiche. Sadger cita anche le ragioni che il poeta stesso addusse per il cambiamento da lui apportato nel materiale, e a ragione le trova artificiose, intese solo a giustificare apparentemente, e in fondo a occultare, qualcosa che restava inconscio al poeta stesso. Non starò a discutere la spiegazione di Sadger sul perché Giuditta, che secondo la narrazione biblica era vedova, dovesse diventare una vedova rimasta vergine. Sadger cita il proponimento delle fantasie infantili di negare l’amplesso carnale dei genitori e di far della madre una vergine inviolata. Ma io aggiungo: dopo che il poeta ha stabilito la verginità della sua eroina, la sua fantasia sensitiva indugia sulla reazione ostile scatenata dallo stupro.
In conclusione possiamo dunque dire: la deflorazione non ha la sola conseguenza dovuta all’incivilimento di legare durevolmente la donna all’uomo; essa scatena anche una reazione arcaica di ostilità verso l’uomo, la quale può assumere forme patologiche che si manifestano abbastanza di frequente attraverso fenomeni inibitori della vita amorosa nel matrimonio, e alla quale si può ascrivere il fatto che le seconde nozze così spesso riescano meglio delle prime. Il sorprendente tabù della verginità, l’orrore con cui presso i primitivi lo sposo evita la deflorazione, trovano la loro piena giustificazione in questa reazione ostile.
È interessante che come analisti ci capiti di incontrare donne presso cui le opposte reazioni di soggezione e di ostilità sono entrambe giunte a espressione e hanno mantenuto un intimo nesso tra loro. Esistono donne i cui rapporti con il marito sono visibilmente pessimi e che non riescono a liberarsi di lui, nonostante si sforzino di farlo. Appena provano a rivolgere il loro amore a un altro uomo, l’immagine del primo, anche se non lo amano più, interviene a inibirle. L’analisi insegna che queste donne sono indubbiamente ancora soggette ai loro primi mariti, ma non più per tenerezza. Non riescono a liberarsene perché la loro vendetta su di essi non è compiuta, o addirittura, in casi particolari, perché non hanno consentito all’impulso vendicativo di rendersi cosciente.