La figura biblica di Mosè esercitò sempre su Freud un grande fascino. Alla fine della sua vita dedicò ai problemi suscitati da tale figura l’ultimo dei suoi libri, L’uomo Mosè e la religione monoteistica: tre saggi (1934-38, in OSF, vol. 11). L’interesse di Freud per Mosè ha il suo fondamento, secondo Jones (Vita e opere di Freud, trad. it. Il Saggiatore, Milano 1962, vol. 2, p. 439), in una duplice identificazione. Da un lato Mosè rappresentò per lui la tipica figura paterna (vedi oltre, Premessa, dove Freud racconta come nelle sue visite a San Pietro in Vincoli per contemplare la statua michelangiolesca, gli fosse capitato “di cercar di tener testa allo sguardo corrucciato e sprezzante dell’eroe” e qualche volta di essersela poi svignata “quatto quatto nella penombra” della chiesa); dall’altro rappresentava se stesso: nell’infanzia segnata da una predestinazione, nell’assunzione di funzioni di profeta e guida, nel tradimento dei seguaci, nella convinzione di non riuscire a condurre i suoi alla meta della terra promessa e di dover lasciare ad altri il compito di portare a termine la propria impresa.
Il carattere enigmatico della statua scolpita da Michelangelo – carattere osservato e studiato da molti cultori di storia dell’arte, i quali sono giunti a disparate interpretazioni su ciò che di Mosè l’artista avesse voluto rappresentare – colpì anche Freud. E questo fin dalla prima visita fatta a Roma nel 1901 (cartolina alla moglie del 6 settembre in cui afferma, in modo conciso e misterioso: “Improvvisamente capito attraverso Michelangelo”), e forse anche prima sulla base di riproduzioni di vario genere. Si deve anzi dire che vi fu qualche cosa di ossessivo nell’impulso di Freud a ricercare una soluzione soddisfacente di questo enigma. Nel settembre 1912, durante un soggiorno a Roma (con Ferenczi) Freud si recò ogni giorno a vedere la statua (lettera alla moglie del 25 settembre) non per puro bisogno contemplativo, ma per carpire alla statua il suo segreto. Nei mesi successivi Jones gli fornì nuovi elementi di documentazione bibliografica e fotografica (Jones, op. cit., p. 440). L’anno successivo, ancora in settembre, Freud tornò a Roma per tre settimane, e, come affermò in una lettera a Edoardo Weiss del 12 aprile 1933 (ammesso che non si confondesse con quanto era avvenuto nel 1912), riprese a visitare ogni giorno la statua. A Natale decise di scrivere un saggio sulle sue conclusioni, e il 1° gennaio 1914 lo portò a termine.
Trattandosi di un lavoro estraneo al suo specifico campo scientifico, Freud – contro il parere di Jones, Ferenczi e Abraham – non volle firmare l’articolo. Non avrebbe neppure voluto pubblicarlo, ma vi fu indotto dalle insistenze di Rank e di Sachs (lettera ad Abraham del 6 gennaio 1914). Così il saggio, col titolo Der Moses des Michelangelo, apparve anonimo su “Imago”, vol. 3 (1), 15-36 (1914). Solo nel 1924, riproducendolo in Gesammelte Schriften, vol. 10 (1924), pp. 257-86 e in Psychoanalytische Studien an Werken der Dichtung und Kunst (Vienna 1924), pp. 29-58, Freud vi appose la propria firma. Il saggio fu pure riprodotto in Gesammelte Werke, vol. 10 (1946), pp. 172-201. Nel 1927 Freud pubblicò su “Imago”, vol. 13(4), pp. 552 sg., un breve poscritto Nachtrag zur Arbeit über den Moses des Michelangelo, che è stato riprodotto in Gesammelte Schriften, vol. 11 (1928), pp. 409 sg., e in Gesammelte Werke, vol. 14 (1948), pp. 321 sg. Il lavoro è stato pubblicato per la prima volta in italiano nella traduzione di Emilio Servadio nella Biblioteca psicoanalitica internazionale, serie italiana, N. 1 (Napoli 1928). La presente traduzione è di Silvano Daniele.
Il tipo di interpretazione data da Freud non si discosta nelle intenzioni da quelle degli specialisti che si sono occupati di questa statua. Si tratta sempre di individuare in quale momento l’artista abbia “fermato” l’immagine di Mosè, che – questo è pacifico – è sceso dal monte con le tavole della legge, e scopre ora che il popolo ha nel frattempo costruito il vitello d’oro per adorarlo. L’interpretazione più corrente è che Mosè proprio ora scorga il sacrilegio, e stia per levarsi in piedi indignato, lasciando cadere a terra – come dice la tradizione biblica – le tavole della legge, che si spezzeranno. Per Freud l’interpretazione è diversa. Lo scoppio d’indignazione e di ira c’è già stato precedentemente. Ora (nel momento in cui Mosè è ritratto dallo scalpello di Michelangelo) è subentrato, attraverso uno sforzo sovrumano per trattenere la propria passionalità, un pieno dominio di sé.
La tesi di Freud, più che come trascrizione autentica del pensiero di Michelangelo, contrapposta alle interpretazioni altrui, interessa in relazione al suo particolare stato d’animo in questo periodo.
Il lavoro sul Mosè fu redatto nello stesso tempo in cui venivano scritti Per la storia del movimento psicoanalitico (finito nel febbraio dello stesso 1914) e Introduzione al narcisismo (iniziato a Roma nel settembre 1913 e finito nel marzo 1914) (oltre, in questo volume). Freud era amareggiato e indignato per l’abbandono di Adler e di Stekel, e ora degli Svizzeri. Del saggio sulla storia del movimento psicoanalitico (lettera del 12 gennaio 1914 a Ferenczi) diceva che lo stava scrivendo “fumando di rabbia”.
La frase con la quale Freud compendia (vedi oltre, par. 3) la propria interpretazione dell’opera di Michelangelo – “egli ha impresso nella figura di Mosè qualcosa di nuovo, di sovrumano, e la possente massa corporea e la muscolatura formidabile del personaggio diventano il mezzo d’espressione fisica della più alta impresa psichica possibile all’uomo: soggiogare la propria passione a vantaggio e in nome di una causa alla quale ci si è votati” – sembra adattarsi allo sforzo a cui egli stesso, di fronte a ciò che sentiva come un tradimento e un’apostasia, si sottoponeva, per mantenere a favore della causa della psicoanalisi, e in nome di essa, un giudizio obiettivo e un atteggiamento pacato. Egli aveva contrapposto questo atteggiamento a quello dell’esplosione dell’ira, già l’anno prima, quando a proposito del comportamento di Stekel, aveva scritto a Ferenczi (17 ottobre 1912): “La situazione dominante oggi a Vienna mi rende più simile al Mosè storico” (cioè a quello della Bibbia, che si abbandona all’ira) “che a quello michelangiolesco” (che dunque riesce a controllarsi).
Quando il saggio fu pubblicato per la prima volta anonimo su “Imago”, sotto al titolo apparve una nota redazionale, scritta evidentemente dallo stesso Freud (e scomparsa nelle successive edizioni), in cui veniva giustificata la pubblicazione sulla rivista di questo lavoro non psicoanalitico, anche in base alla considerazione che il modo col quale le argomentazioni vi sono sviluppate “presenta in effetti una certa analogia con la metodica psicoanalitica” (vedi oltre, nota 403).
L’analogia consiste nel fatto che sulla base di una serie di piccoli indizi, viene ricostruita la storia, o un frammento di storia, su un piano, o in una dimensione, che non è in quanto tale accessibile a una diretta osservazione. Le vicende cronologiche della figura marmorea (vedi oltre, par. 2) corrispondono allo sviluppo dei processi psichici inconsci che il lavoro di interpretazione analitica ricostruisce in base al materiale associativo portato dai pazienti.
Freud amava molto questo lavoro, e anche ciò è segno degli elementi emotivi personali che vi sono connessi. Nella citata lettera a Weiss del 1933 scrisse: “I miei sentimenti per questo lavoro sono simili a quelli che si provano per un figlio prediletto.” “Solo molto tempo dopo” (averlo pubblicato anonimo), “ho legittimato questo mio figlio non analitico.”