1. LA GIUSTIFICAZIONE DELL’INCONSCIO
Il diritto di ammettere l’esistenza di una psiche inconscia e di lavorare scientificamente in base a questa ipotesi ci viene contestato da più parti. A nostra volta possiamo replicare che l’ipotesi è necessaria e legittima, e che abbiamo parecchie prove dell’esistenza dell’inconscio.
Tale ipotesi è necessaria perché i dati della coscienza sono molto lacunosi; nei sani non meno che nei malati si verificano spesso atti psichici che possono essere spiegati solo presupponendo altri atti che non sono invece testimoniati dalla coscienza. Atti del genere non sono solo le azioni mancate e i sogni delle persone sane, o tutto ciò che nei malati rientra nella denominazione di sintomo psichico e manifestazione ossessiva; la nostra più personale esperienza quotidiana ci fa costatare l’esistenza tanto di idee improvvise di cui non conosciamo l’origine quanto di risultati intellettuali la cui elaborazione ci è rimasta oscura. Tutti questi atti coscienti restano slegati e incomprensibili se ci ostiniamo a pretendere che ogni atto psichico che compare in noi debba essere sperimentato dalla coscienza; mentre si organizzano in una connessione ostensibile se li interpoliamo con gli atti inconsci di cui abbiamo ammesso l’esistenza. Ma guadagnare in significato e in connessione è una ragione perfettamente legittima per andare al di là dell’esperienza immediata. Se poi risulterà altresì che l’ipotesi dell’inconscio ci consente di costruire un efficace procedimento con cui influenzare utilmente il decorso dei processi consci, tale successo costituirà un’inoppugnabile testimonianza della validità di quel che abbiamo assunto. Stando così le cose, dobbiamo ritenere che, se si esige che tutto ciò che accade nella psiche debba per forza esser noto alla coscienza, si avanza in effetti una pretesa insostenibile.
Si può andare più in là, e corroborare la tesi dell’esistenza di uno stato psichico inconscio osservando come in ciascun momento la coscienza comprenda solo un contenuto assai limitato, talché la massima parte di quello che chiamiamo sapere cosciente deve comunque trovarsi per lunghissimi periodi di tempo in uno stato di latenza, e cioè di inconsapevolezza psichica.72 Se si considerano tutti i nostri ricordi latenti, il fatto che sia contestata l’esistenza dell’inconscio diventa assolutamente incomprensibile. Ma a questo proposito ci viene obiettato che tali ricordi latenti non vanno più definiti come alcunché di psichico, ma corrispondono invece ai residui di processi somatici dai quali può nuovamente venir fuori lo psichico. Sarebbe facile ribattere che al contrario il ricordo latente è l’inequivocabile sedimento di un processo psichico. Ma è più importante rendersi conto che l’obiezione si basa sull’equiparazione – non dichiarata, e tuttavia assunta a priori – dello psichico con il cosciente. Questa equiparazione o è una petitio principii, la quale non ammette che venga posto il problema se tutto ciò che è psichico debba anche essere cosciente, oppure si tratta di una convenzione, di una faccenda terminologica. In questo secondo caso è ovviamente inoppugnabile, come ogni altra convenzione. Resta solo da domandarsi se essa sia davvero così opportuna da dover essere adottata per forza. Possiamo rispondere che l’equiparazione convenzionale dello psichico con il cosciente è assolutamente inopportuna. Lacera le continuità psichiche, ci irretisce nelle insolubili difficoltà del parallelismo psicofisico,73 è soggetta all’obiezione di sopravvalutare la funzione della coscienza senza alcuna ragione plausibile, e ci costringe ad abbandonare prematuramente il terreno della ricerca psicologica senza essere in grado di portarci un risarcimento a partire da altri ambiti di indagine.
In ogni caso è chiaro che la questione se gli irrefutabili stati latenti della vita psichica debbano essere concepiti come stati psichici inconsci o come stati fisici rischia di risolversi in una contesa verbale. È quindi consigliabile mettere in primo piano ciò che di questi stati problematici sappiamo con certezza. Orbene, per ciò che si riferisce ai loro caratteri fisici, gli stati latenti ci sono del tutto inaccessibili; non esiste rappresentazione fisiologica né processo chimico che ci possa trasmettere la più vaga nozione relativa alla loro natura. D’altro lato è certo che essi hanno numerosissimi punti di contatto con i processi psichici coscienti; a patto di svolgere un certo lavoro, possiamo trasformarli e sostituirli con processi coscienti; possiamo descriverli usando tutte le categorie che applichiamo agli atti psichici coscienti (rappresentazioni, tendenze, decisioni e così via). Anzi, di alcuni di questi stati latenti dobbiamo dire che si distinguono da quelli coscienti proprio soltanto per l’assenza della coscienza. Non esiteremo quindi a trattarli come oggetti della ricerca psicologica, e nella più stretta connessione con gli atti psichici coscienti.
L’ostinato rifiuto di attribuire carattere psichico agli atti latenti si spiega col fatto che la maggior parte dei fenomeni in questione non è mai diventata oggetto di studio, al di fuori della psicoanalisi. Chi ignora i fatti patologici, chi considera gli atti mancati delle persone normali come casuali e si accontenta del vecchio detto secondo cui i sogni non significano nulla [Träume sind Schäume],74 avrà soltanto da trascurare alcuni enigmi posti dalla psicologia della coscienza per risparmiarsi l’ipotesi di un’attività psichica inconscia. E del resto gli esperimenti ipnotici, in particolare la suggestione postipnotica, hanno dimostrato con evidenza tangibile l’esistenza e il modo di operare dell’inconscio psichico già in un’epoca precedente all’avvento della psicoanalisi.75
Ma la postulazione dell’inconscio è anche pienamente legittima giacché, adottando tale ipotesi, non ci discostiamo di un passo dal nostro abituale modo di pensare, che è generalmente ritenuto corretto. La coscienza trasmette a tutti noi soltanto la nozione dei nostri personali stati d’animo; che anche altre persone abbiano una coscienza, è una conclusione analogica che, in base alle azioni e manifestazioni osservabili degli altri, ci permette di farci una ragione del loro comportamento. (O, per usare una formulazione psicologicamente più esatta: senza riflettere più che tanto noi attribuiamo a tutti gli altri soggetti la nostra costituzione e quindi anche la nostra coscienza, e questa identificazione è il presupposto della nostra comprensione.) In passato questa illazione (o identificazione) era estesa dall’Io ad altri esseri umani, ad animali, piante, a esseri inanimati e a tutto il mondo, e si rivelava feconda nella misura in cui l’analogia con il singolo Io era veramente grandissima; ma diventò tanto più inattendibile quanto più l’“altro” si discostava dall’Io. Oggi la nostra riflessione critica è già in dubbio sull’esistenza di una coscienza negli animali, la esclude nel caso delle piante e considera l’attribuzione di una coscienza agli esseri inanimati come un fenomeno di misticismo. Ma anche dove l’originaria tendenza all’identificazione ha superato il nostro esame critico, nel caso degli “altri” a noi più prossimi, gli uomini, la convinzione che essi abbiano una coscienza si fonda su un’illazione, e non può possedere la certezza immediata della nostra coscienza personale.
Ora la psicoanalisi non chiede altro che di applicare questo tipo di inferenza anche alla propria persona – procedimento per cui non esiste, per la verità, una inclinazione naturale. Se si procede così, bisogna dire: tutti gli atti e tutte le manifestazioni che osservo in me e che non so come collegare con il resto della mia vita psichica devono essere giudicati come se appartenessero a qualcun altro e trovare la loro spiegazione in una vita psichica attribuita a quest’altra persona. L’esperienza mostra anche che sappiamo interpretare molto bene negli altri (e cioè inserirli nel contesto psichico) quegli stessi atti a cui rifiutiamo invece di riconoscere l’esistenza psichica quando si tratta di noi stessi. Evidentemente qui la nostra ricerca urta contro un particolare ostacolo che la fa deviare dalla nostra persona impedendole di conoscerla esattamente.
Orbene, se questo tipo di inferenza è applicato alla nostra persona malgrado l’opposizione interna che incontra, non si giunge alla scoperta di un inconscio, ma, a fil di logica, all’ipotesi di un’altra, di una seconda coscienza, che è unita nella nostra persona con quella che ci è nota. Ma questa posizione presta il fianco a qualche rilievo critico. In primo luogo una coscienza di cui chi la possiede non sa nulla è ancora qualcosa di diverso dalla coscienza che appartiene a una persona estranea, e c’è da domandarsi se comunque valga la pena di discutere su una coscienza siffatta, alla quale manca il requisito più importante. Chi si è battuto contro l’ipotesi di una vita psichica inconscia non potrà certo accettare di buon grado di sostituirla con l’ipotesi di una coscienza inconscia. In secondo luogo l’analisi mostra che i singoli processi psichici latenti che noi inferiamo godono di un grado elevato di reciproca indipendenza, come se non fossero collegati fra loro e non sapessero nulla gli uni degli altri. Dobbiamo essere dunque pronti ad ammettere in noi stessi non solo l’esistenza di una seconda coscienza, ma anche di una terza, di una quarta, e forse di una serie interminabile di stati di coscienza, tutti sconosciuti a noi stessi e gli uni rispetto agli altri. In terzo luogo – ed è questo l’argomento di maggior peso – dalla esplorazione analitica apprendiamo che una parte di questi processi latenti possiede caratteri e proprietà che ci sembrano peregrini o addirittura incredibili, e che si pongono in netto contrasto con le qualità della coscienza a noi note. Abbiamo dunque buoni motivi per modificare l’illazione che abbiamo tratto riguardo alla nostra persona, nel senso che essa non testimonia in noi l’esistenza di una seconda coscienza, ma piuttosto l’esistenza di atti psichici che mancano del carattere della coscienza. Siamo anche legittimati a respingere l’espressione “subconscio”, in quanto scorretta e fuorviante.76 I noti casi di “double conscience” (scissione della coscienza) non provano nulla contro la nostra concezione. Possiamo descriverli nel modo più adeguato come casi di scissione delle attività psichiche in due gruppi o campi, e asserire che la stessa coscienza si rivolge alternativamente all’uno o all’altro di questi campi.
Nella psicoanalisi non abbiamo altra scelta: dobbiamo dichiarare che i processi psichici in quanto tali sono inconsci e paragonare la loro percezione da parte della coscienza con la percezione del mondo esterno da parte degli organi di senso.77 Nutriamo addirittura la speranza che questo confronto giovi allo sviluppo delle nostre conoscenze. L’ipotesi psicoanalitica di un’attività psichica inconscia ci appare, da un lato, come un ulteriore sviluppo dell’animismo primitivo che ci induceva a ravvisare per ogni dove immagini speculari della nostra stessa coscienza, e d’altro lato come la prosecuzione della rettifica operata da Kant a proposito delle nostre vedute sulla percezione esterna. Come Kant ci ha messo in guardia contro il duplice errore di trascurare il condizionamento soggettivo della nostra percezione e di identificare quest’ultima con il suo oggetto inconoscibile, così la psicoanalisi ci avverte che non è lecito porre la percezione della coscienza al posto del processo psichico inconscio che ne è l’oggetto. Allo stesso modo della realtà fisica, anche la realtà psichica non è necessariamente tale quale ci appare. Saremo tuttavia lieti di apprendere che l’opera di rettifica della percezione interna presenta difficoltà minori di quella della percezione esterna, che l’oggetto interno è meno inconoscibile del mondo esterno.