Una volta riconosciute le dottrine religiose come illusioni, c’è subito da porsi un’altra domanda, e cioè se non sia di natura analoga anche un altro patrimonio della civiltà che noi altamente apprezziamo e al quale affidiamo il governo della nostra vita; vale a dire se i presupposti che regolano i nostri ordinamenti statali non debbano parimenti esser chiamati illusioni e se le relazioni tra i sessi nella nostra civiltà non siano turbate da una o da una serie di illusioni erotiche. Essendosi destato in noi questo sospetto, non indietreggeremo spaventati nemmeno di fronte all’ulteriore quesito se miglior fondamento abbia la nostra convinzione di poter apprendere qualcosa sulla realtà esterna mediante l’impiego, nel lavoro scientifico, dell’osservazione e del pensiero. Niente potrà trattenerci dal far convergere l’osservazione su noi medesimi e dall’impiegare il pensiero ai fini della critica del pensiero stesso. Da qui ha inizio una serie di ricerche il cui esito dovrebbe risultare decisivo in vista dell’edificazione di una “visione del mondo”. Intuiamo inoltre che uno sforzo del genere non andrebbe comunque perduto, e che, in parte almeno, la nostra diffidenza ne risulterebbe legittimata. Ma le capacità dell’autore si rifiutano a un così vasto compito, ed egli deve di necessità limitare il proprio lavoro allo studio di una sola di queste illusioni, e cioè appunto dell’illusione religiosa.
A gran voce il nostro avversario ci impone di fermarci. Siamo chiamati a render conto del nostro scorretto procedere. Ci dice:
“Gli interessi archeologici sono certamente lodevolissimi, ma è vietato intraprendere scavi, che minando in profondità le abitazioni dei vivi, rischiano di farle crollare e di uccidere gli uomini sotto le macerie. Le dottrine religiose non costituiscono materia su cui si possa cavillare come su qualsiasi altra cosa. La nostra civiltà è costruita su di esse, il mantenimento della società umana ha come presupposto che, nella loro maggioranza, gli uomini credano alla verità di tali dottrine. Se viene loro insegnato che non esiste alcun Dio onnipotente e giustissimo, che non vi è ordine divino dell’universo né vita futura, gli uomini si sentiranno esentati da qualsiasi obbligo di osservare i precetti della civiltà. Libero da inibizioni e paure, ognuno seguirà le proprie pulsioni asociali ed egoistiche, cercherà di esercitare il proprio potere, e ricomincerà il caos che abbiamo bandito in migliaia di anni di lavoro d’incivilimento. Anche se si sapesse e si potesse dimostrare che la religione non è in possesso della verità, occorrerebbe tacere e comportarsi come vuole la filosofia del “come se” [vedi par. 5, in OSF, vol. 10]. Nell’interesse della preservazione di tutti! E, a prescindere dal rischio dell’impresa, si tratterebbe di una crudeltà inutile. Moltissimi sono gli uomini che trovano il loro unico conforto negli insegnamenti della religione e riescono a tollerare la vita solo con il suo aiuto. Li si vuole privare di questo loro sostegno e non si ha niente di meglio da offrire loro in cambio. È convinzione generale che attualmente la scienza non riesca a fare gran che; e anche se fosse assai più progredita, non basterebbe agli uomini. L’uomo ha anche altri bisogni imperiosi, che mai potrebbero essere soddisfatti dalla fredda scienza, ed è assai singolare, è addirittura il colmo dell’incoerenza, che uno psicologo il quale ha sempre ribadito quanto nella vita dell’uomo l’intelligenza resti in secondo piano rispetto alla vita pulsionale, si sforzi ora di defraudare l’uomo d’un prezioso soddisfacimento di desiderio e voglia risarcirlo con un nutrimento intellettuale.”
Quante accuse tutte in una volta! Sono però pronto a replicare ad ognuna di esse; ribadisco inoltre che mantenere l’atteggiamento attuale verso la religione rappresenta per la civiltà un pericolo maggiore che non sostituirlo con un atteggiamento diverso. Ma non so da dove devo cominciare la mia replica.
Forse assicurando che io considero la mia impresa del tutto innocua e non pericolosa. Questa volta non sono io che sopravvaluto l’intelletto. Se gli uomini sono così come i miei avversari li descrivono – e non intendo contraddirli – non sussiste pericolo alcuno che, sopraffatto dalle mie argomentazioni, un pio credente si lasci strappare la sua fede. Inoltre non ho detto proprio nulla che prima di me non sia già stato detto in modo assai più compiuto, efficace e incisivo da altri uomini migliori di me. I nomi di questi uomini sono ben noti; io non li menzionerò, non desidero dar l’impressione di annoverarmi tra loro. Alle argomentazioni critiche dei miei grandi predecessori mi sono limitato ad aggiungere qualche motivazione psicologica: questa è l’unica novità della mia esposizione. È improbabile che proprio quest’aggiunta debba sortire l’effetto che i precedenti tentativi non sono riusciti a raggiungere. Naturalmente qualcuno potrebbe domandarmi a questo punto perché scriviamo cose del genere, dato che siamo certi della loro inefficacia. Ma su questo torneremo in seguito.
L’unica persona cui questa pubblicazione può recar danno sono io. Sono pronto ad ascoltare le accuse impietose che mi saranno rivolte per la mia superficialità, ottusità, mancanza di idealismo e di comprensione per i più alti interessi dell’umanità. Ma, da un lato, tali rimostranze non mi sono nuove e, dall’altro, se già in giovane età un uomo si è posto al di sopra della disapprovazione dei suoi contemporanei, che danno mai potrà derivargliene da vecchio, quando è certo che tra non molto verrà sottratto ad ogni favore e disfavore? In tempi passati era diverso, esprimendosi così come io ora mi esprimo, ci si procurava un’abbreviazione indubbia della propria esistenza terrena e una buona anticipazione dell’occasione di sperimentare in proprio la vita dell’aldilà. Ma, ripeto, quei tempi sono passati e oggi una divagazione come questa è innocua anche per chi la scrive. Può accadere tutt’al più che il suo libro non sia tradotto e diffuso in questo o in quel paese. Naturalmente proprio in un paese che si sente sicuro dell’alto livello della propria civiltà. Ma chi perora in un modo o nell’altro la causa della rinuncia al desiderio e della rassegnazione al destino avverso, deve esser pronto a sopportare anche questo danno.
Mi sono poi rivolto la domanda se, tuttavia, la pubblicazione di questo scritto non avrebbe potuto nuocere a qualcuno. A dire il vero non a una persona, ma a una causa: la causa della psicoanalisi. È innegabile che la psicoanalisi è una mia creazione e che essa è stata fatta oggetto di molta diffidenza e ostilità; se ora mi faccio avanti con affermazioni così sgradevoli, si sarà fin troppo pronti a scivolare dalla mia persona alla psicoanalisi. “Adesso si vede – diranno – dove va a parare la psicoanalisi. La maschera è caduta; essa conduce, come abbiamo sempre sospettato, alla negazione di Dio e dell’ideale morale. Per impedirci di scoprirlo, ci hanno dato a intendere che la psicoanalisi non ha una sua visione del mondo e non può fabbricarne alcuna.”429
Questo strepito mi riuscirà davvero spiacevole a causa dei miei numerosi collaboratori, alcuni dei quali non condividono affatto il mio atteggiamento verso i problemi religiosi. Ma la psicoanalisi ha già superato ben altre tempeste e occorre che resista anche a questa. In realtà la psicoanalisi è un metodo di ricerca, uno strumento imparziale, come il calcolo infinitesimale ad esempio. Se con l’aiuto di questo un fisico scoprisse che dopo un certo periodo la terra sarà distrutta, si esiterebbe ad attribuire al calcolo come tale tendenze distruttive e a metterlo per conseguenza al bando. Tutto ciò che ho detto qui contro il valore di verità delle religioni non aveva bisogno della psicoanalisi, è stato detto da altri molto prima che la psicoanalisi fosse inventata. Se dall’applicazione del metodo psicoanalitico si ricavano nuove argomentazioni contro il contenuto di verità della religione, tanto peggio per la religione; comunque con lo stesso diritto i difensori della religione potranno servirsi della psicoanalisi per avvalorare in pieno il significato affettivo della dottrina religiosa.
E ora, per proseguire nella mia autodifesa: la religione ha manifestamente reso alla civiltà umana grandi servigi, ha contribuito in misura notevole, ma non abbastanza, a tenere a bada le pulsioni asociali. Governando la società umana per millenni, ha avuto tutto il tempo di dimostrare ciò di cui è capace. Se fosse davvero riuscita a rendere felice la maggioranza degli uomini, a consolarli, a riconciliarli con la vita, a farne dei portatori di civiltà, a nessuno verrebbe in mente di aspirare a un mutamento dell’attuale situazione. Che cosa vediamo invece? Che un numero spaventosamente grande di uomini è insoddisfatto della civiltà e in essa infelice, che la sente come un giogo che occorre scrollarsi di dosso; che questi uomini o si adoperano con tutte le loro forze per cambiare questa civiltà o, nella loro avversione per essa, giungono a disinteressarsene completamente e a non volerne sapere delle restrizioni imposte alle loro pulsioni. Si obietterà a questo punto che tale stato di cose deriva dal fatto che la religione ha perduto parte del suo influsso sulle masse umane proprio a causa delle deplorevoli conseguenze dei progressi della scienza. Prenderemo atto di quest’ammissione e del modo in cui viene motivata e la utilizzeremo in seguito per i nostri scopi; di per sé, tuttavia, l’obiezione è priva di forza.
Non è affatto sicuro che al tempo dell’illimitato dominio delle dottrine religiose gli uomini fossero complessivamente più felici di oggi; certo non furono più morali. Essi hanno sempre saputo esteriorizzare le prescrizioni religiose rendendone in tal modo vani gli intenti. I preti, che dovevano vigilare affinché la religione fosse obbedita, li aiutarono in ciò. La misericordia di Dio doveva trattenere il braccio della Sua giustizia: si peccava e, dopo aver fatto un sacrificio o una penitenza, si era liberi di peccare di nuovo. L’interiorità russa optò per la conclusione che, per godere di tutte le beatitudini della grazia divina, il peccato è indispensabile e che dunque è in fondo opera grata a Dio. È evidentissimo che i preti sono riusciti a perpetuare la sottomissione delle masse alla religione soltanto a prezzo di grandissime concessioni alla natura pulsionale dell’uomo. Fu stabilito il seguente punto fermo: Dio solo è forte e buono, l’uomo è debole e soggetto a peccare. Nella religione l’immoralità ha trovato in tutti i tempi sostegno non meno della moralità. Se, riguardo alla felicità degli uomini, alla loro attitudine alla civiltà430 e alle loro limitazioni morali, la religione non è riuscita a ottenere risultati migliori, c’è da domandarsi se invero non abbiamo sopravvalutato l’indispensabilità della religione per il genere umano e se facciamo cosa saggia a basarci su di essa per le nostre pretese di civiltà.
Riflettiamo sull’inequivocabile situazione dei nostri giorni. È stato detto che la religione non ha più sugli uomini lo stesso influsso di una volta (ci riferiamo qui alla civiltà europeo-cristiana). E ciò non perché essa abbia ridimensionato le sue promesse, ma perché queste appaiono agli uomini meno credibili. Concediamo che la ragione di tale trasformazione sia il rafforzamento dello spirito scientifico negli strati superiori della società umana (forse non solo in questa). La critica ha intaccato la forza probante dei documenti religiosi, la scienza naturale ha posto in luce gli errori che essi contengono, la ricerca comparata è stata colpita dalla fatale somiglianza tra le rappresentazioni religiose da noi venerate e le produzioni spirituali di popoli e tempi primitivi.
Lo spirito scientifico produce un modo particolare di atteggiarsi verso le cose di questo mondo; di fronte alle questioni religiose sosta un attimo, esita, ma da ultimo anche qui varca la soglia. In questo processo non c’è interruzione; quanto maggiore è il numero di uomini cui i tesori del nostro sapere diventano accessibili, tanto più si diffonde il rifiuto della fede religiosa, in un primo tempo soltanto dei suoi rivestimenti più antiquati e assurdi, poi però anche delle sue premesse fondamentali. Solo gli americani, istituendo il “processo della scimmia” a Dayton,431 si sono dimostrati coerenti. Per il resto l’inevitabile trapasso si compie tra mille ambiguità e insincerità.
La civiltà ha poco da temere dagli uomini colti e da chi si dedica al lavoro intellettuale. In costoro, per quanto riguarda il comportamento civile, la sostituzione dei motivi religiosi con motivi diversi, laici, può avvenire senza strepito; questi individui sono inoltre in gran parte portatori di civiltà. Le cose prendono un’altra piega quando si tratta di persone incolte, di uomini oppressi, che hanno tutti i motivi di essere nemici della civiltà. Tutto va bene finché non si accorgono che non si crede più in Dio. Ma prima o poi dovranno pur accorgersene, anche se questo mio scritto non sarà pubblicato. Costoro sono pronti ad accettare i risultati del pensiero scientifico senza che si sia in essi prodotto il mutamento che il pensiero scientifico induce nell’uomo. Non sussiste allora il pericolo che l’avversione di queste masse per la civiltà converga sul punto debole che esse individuano nella loro tiranna? Se non è lecito ammazzare il nostro prossimo solo perché il buon Dio lo ha vietato e ci punirà severamente in questa o nell’altra vita, e se scopriamo peraltro che il buon Dio non esiste e non abbiamo da temere alcun castigo, non v’è dubbio che a questo punto ammazzeremo il nostro prossimo senza esitare e soltanto una forza terrena potrà trattenerci. Dunque, o bisogna tenere rigidamente a freno queste masse pericolose, impedire con attenzione estrema che esse accedano a qualsiasi occasione di risveglio intellettuale, oppure bisogna operare una revisione radicale del nesso civiltà-religione. [Vedi par. 9, in OSF, vol. 10.]