PARTE SECONDA
IL COMPITO PRATICO

Capitolo 6
La tecnica psicoanalitica

Il sogno, dunque, è una psicosi, con tutte le assurdità, le formazioni deliranti, le illusioni sensoriali delle psicosi. Una psicosi invero di breve durata, innocua, che è perfino adibita a una funzione utile, introdotta con il consenso del soggetto e fatta terminare da un suo atto di volontà. Eppure è una psicosi, dalla quale apprendiamo che perfino un mutamento così profondo della vita psichica può recedere e lasciare spazio alla funzione normale. È dunque temerario sperare che sia possibile assoggettare le temute malattie spontanee della vita psichica alla nostra influenza e portarle alla guarigione?

Sappiamo già qualche cosa che ci può preparare a questa impresa. In base al nostro presupposto, l’Io ha il compito di soddisfare le esigenze derivanti dal suo triplice rapporto di dipendenza, dipendenza dalla realtà, dall’Es e dal Super-io, mantenendo purtuttavia la propria organizzazione e affermando la propria indipendenza. La condizione degli stati morbosi di cui ci stiamo occupando può essere soltanto un indebolimento assoluto o relativo dell’Io, tale da impedirgli l’adempimento dei suoi compiti. La richiesta più gravosa che all’Io si presenta è probabilmente quella di tenere a bada le pretese pulsionali dell’Es; per farvi fronte l’Io deve impiegare grandi quantità di energia in controinvestimenti. Ma anche le pretese del Super-io possono diventare a tal punto pesanti e inesorabili che l’Io si sente come paralizzato davanti agli altri suoi compiti. Abbiamo il sospetto che nei conflitti economici che emergono in questo modo, spesso l’Es e il Super-io facciano causa comune contro il povero Io oppresso, il quale, nell’intento di salvaguardare la propria condizione di normalità, si tiene saldamente ancorato alla realtà. Se Es e Super-io si rafforzano troppo, riescono a sfaldare l’organizzazione dell’Io e a modificarla in modo tale che il giusto rapporto dell’Io con la realtà ne risulta turbato o addirittura reciso. Abbiamo visto quel che succede nel sogno: quando l’Io si distacca dalla realtà del mondo esterno, cade in preda alla psicosi sotto l’influsso del mondo interno.

Su tali considerazioni è fondato il nostro piano di guarigione. L’Io è indebolito a causa dei suoi conflitti interni, dobbiamo accorrere in suo soccorso. È un po’ come in una guerra civile, che dev’essere decisa con l’aiuto di un alleato che viene dal di fuori. Il medico analitico e l’Io indebolito del paziente, tenendosi ancorati al mondo esterno, devono formare un partito comune contro i nemici, le pretese pulsionali dell’Es e le pretese di coscienza del Super-io. Concludiamo insieme un patto. L’Io del malato ci promette la più completa sincerità, ossia la disponibilità di tutto il materiale che la sua autopercezione gli fornisce, noi gli assicuriamo la più rigorosa discrezione e mettiamo al suo servizio la nostra esperienza nell’interpretazione del materiale influenzato dall’inconscio. Il nostro sapere deve compensare il suo non sapere, restituendogli la perfetta padronanza su quelle regioni della vita psichica di cui ha perso il controllo. In questo contratto consiste la situazione analitica.

Già dopo questo passo ci attende la prima delusione, il primo invito a moderare le aspettative. Se l’Io del malato dev’essere un prezioso alleato nel nostro comune lavoro, allora – nonostante le innumerevoli pressioni cui è sottoposto ad opera delle forze nemiche – dovrà pur aver conservato un certo grado di coesione, nonché un certo discernimento per le esigenze della realtà. Ma tutto questo non possiamo aspettarcelo dall’Io degli psicotici, il quale non è in grado di tener fede a un simile contratto, e in verità neppure può stipularlo. Ben presto egli rigetterà la nostra persona e l’aiuto che gli offriamo fra le parti di mondo esterno che non hanno per lui più alcun significato. In questo modo ci rendiamo conto di dover desistere dal tentativo di attuare il nostro piano di guarigione con gli psicotici. Forse dobbiamo desistere per sempre, o forse solo per un po’, fino a quando non avremo trovato un piano diverso, più adatto a loro.

C’è però un’altra categoria di malati psichici, che palesemente sono molto vicini agli psicotici: penso al numero sterminato di individui che soffrono di gravi forme nevrotiche. Certamente le condizioni della malattia e i meccanismi patogeni sono gli stessi, o almeno molto simili. Il loro Io, però, si è dimostrato più capace di resistenza, è stato meno destrutturato. Molti di loro sono riusciti ad affermarsi nella vita reale, nonostante le molte sofferenze e le difficoltà da queste causate. I nevrotici possono essere ben disposti ad accettare il nostro aiuto. È nostra intenzione concentrare il nostro interesse esclusivamente su di loro, per vedere fino a che punto e con quali mezzi siamo capaci di “guarirli”.

Con i nevrotici concludiamo dunque il seguente patto: piena sincerità da una parte, rigorosa discrezione dall’altra. Potrebbe sembrare che noi aspirassimo soltanto alla posizione di un confessore laico. Ma la differenza è grande, giacché noi non ci limitiamo a voler ascoltare da lui le cose che egli sa e che tiene celate davanti agli altri; egli è tenuto a raccontarci anche ciò che non sa. Con questo intento gli diamo una definizione più precisa di quel che intendiamo per sincerità. Lo impegniamo a rispettare la regola psicoanalitica fondamentale,572 che d’ora innanzi dovrà dominare il suo atteggiamento nei nostri riguardi. Egli deve comunicarci non soltanto quel che dice intenzionalmente e volentieri, quel che gli reca sollievo come in una confessione, ma anche tutto il resto, tutto ciò che gli viene offerto dalla sua autoosservazione, e tutto quello che gli viene in mente, anche se è sgradevole a dirsi, o se gli sembra irrilevante, o addirittura assurdo. Se riesce, attenendosi a queste istruzioni, a far tacere la sua autocritica, egli ci offrirà una quantità di materiale, pensieri, idee improvvise, ricordi, che stanno ancora sotto l’influsso dell’inconscio, spesso ne derivano direttamente, e dunque ci metterà in grado di indovinare l’inconscio in lui rimosso e di estendere, grazie alle nostre comunicazioni, le conoscenze del suo Io riguardanti il suo stesso inconscio.

Che a nessuno venga in mente però che il ruolo del suo Io consista semplicemente nel mettere a nostra disposizione, in un atteggiamento di passiva obbedienza, il materiale richiesto, accettandone con credulità la nostra traduzione. Si verificano in verità parecchie altre cose, alcune prevedibili, altre francamente no. La cosa più singolare è che il paziente non si accontenta di considerare l’analista, alla luce della realtà, come un aiutante e un consigliere che comunque va ricompensato per gli sforzi compiuti, e che potrebbe magari ritenersi soddisfatto della parte di una guida alpina in una difficile escursione in montagna: egli ravvisa piuttosto nell’analista un ritorno – reincarnazione – di una persona importante della sua infanzia, del suo passato, e trasferisce perciò su di lui sentimenti e reazioni che certamente erano destinati a quel modello. Questo fenomeno della traslazione si rivela ben presto come un fattore di insospettata importanza, da una parte un ausilio di insostituibile valore, dall’altra una fonte di seri pericoli. Questa traslazione è ambivalente,573 comprende atteggiamenti positivi e affettuosi, ma anche negativi e ostili nei confronti dell’analista, il quale, di regola, prende il posto di uno dei genitori, il padre o la madre. Finché è positiva, la traslazione ci rende i migliori servigi. Essa modifica tutta la situazione analitica, facendo sì che venga accantonato l’intento razionale di guarire e di liberarsi dalle sofferenze. In sua vece subentra l’intento di piacere all’analista, di accattivarsi la sua approvazione e il suo amore. La traslazione diventa la vera molla che induce il paziente a collaborare: sotto l’influsso della traslazione il debole Io si rafforza, diventa capace di cose che altrimenti gli sarebbero impossibili: sospende i suoi sintomi e apparentemente guarisce; ma tutto questo lo fa solo per amore dell’analista. Quest’ultimo dovrà ammettere con una certa vergogna di essersi imbarcato in una impresa difficile, senza sospettare che gli sarebbe stato messo a disposizione un potere così straordinario.

Il rapporto della traslazione ha oltre a ciò altri due vantaggi. Dal momento che il paziente mette l’analista al posto del padre (o della madre), è evidente che gli concede anche il potere che il suo Super-io esercita sul suo Io, essendo stati proprio i genitori l’origine del Super-io. Il nuovo Super-io ha ora il destro di effettuare una specie di post-educazione, correggendo gli errori di cui i genitori si sono resi colpevoli nella loro educazione. A questo punto però si inserisce opportunamente l’ammonimento a non abusare di questo nuovo influsso. Per allettante che possa sembrare all’analista la prospettiva di diventare maestro, modello e ideale per altre persone, di foggiare degli esseri umani in base ai propri modelli, egli non dovrebbe mai comunque dimenticare che non è questo il suo compito nel rapporto analitico, e che anzi non adempirebbe fedelmente a tale funzione se si lasciasse trascinare dalle proprie personali inclinazioni. Non farebbe altro, infatti, che ripetere un errore dei genitori, che hanno conculcato l’autonomia del bambino con il loro influsso, e metterebbe al posto di una vecchia dipendenza una dipendenza nuova. Pur prodigandosi in ogni modo per migliorare ed educare il paziente, l’analista dovrebbe invece rispettarne il carattere peculiare. La misura dell’influsso di cui può legittimamente avvalersi sarà determinata dal grado di inibizione evolutiva riscontrata nel paziente. Alcuni nevrotici sono rimasti talmente infantili che anche nell’analisi non si può fare a meno di trattarli come se fossero dei bambini.

C’è un altro vantaggio della traslazione, ed è che in essa il paziente ci squaderna dinanzi con plastica evidenza un pezzo di storia della sua vita sulla quale altrimenti avrebbe potuto fornire soltanto qualche insufficiente ragguaglio. Anziché riferire egli “agisce” per così dire teatralmente davanti a noi.574

Passiamo ora all’altro lato di questo rapporto. Poiché la traslazione riproduce la relazione con i genitori, è chiaro che ne assume anche l’ambivalenza. È quasi inevitabile che l’atteggiamento positivo verso l’analista si converta prima o poi, repentinamente, in un atteggiamento negativo e ostile. Anche questo rappresenta di norma una ripetizione del passato. L’arrendevolezza verso il padre (se si trattava del padre), il tentativo di accattivarsi il suo favore, era radicato in un desiderio erotico a lui diretto. Prima o poi questa pretesa si manifesterà prepotentemente anche nella traslazione reclamando soddisfazione. Nella situazione analitica, però, essa dovrà essere immancabilmente frustrata. Relazioni sessuali vere e proprie tra paziente e analista sono assolutamente da escludere e l’analista si lascerà andare con estrema parsimonia anche a forme di soddisfacimento più sottili come la predilezione, l’intimità e così via. Il paziente prende il destro da questo atteggiamento sdegnoso per capovolgere i suoi sentimenti: probabilmente la stessa cosa era già accaduta nella sua infanzia.

Le guarigioni che si sono realizzate sotto il dominio della traslazione positiva soggiacciono al sospetto di avere una natura suggestiva. Se e quando prevale la traslazione negativa vengono spazzate via come foglie al vento. Con terrore ci accorgiamo che il lavoro e gli sforzi fatti fino a quel momento non sono serviti a niente. E perfino quella che sembrava potersi ritenere una duratura conquista intellettuale del paziente, la sua capacità di capire la psicoanalisi, la sua fiducia nell’efficacia di essa, svaniscono di colpo. Egli si comporta come un bambino che, essendo incapace di qualsiasi giudizio personale, crede ciecamente in coloro che ama e non ha alcuna fiducia negli estranei. Evidentemente il pericolo di queste situazioni di traslazione è che il paziente non ne intenda la natura e, anziché rispecchiamenti di cose passate, le consideri alla stregua di eventi nuovi e reali. Se egli (o ella) percepisce il potente bisogno erotico che si cela dietro la traslazione positiva, ecco che si crede appassionatamente innamorato; se invece la traslazione si capovolge, si sente offeso e disprezzato, odia l’analista come un nemico ed è pronto ad abbandonare l’analisi. In entrambi questi casi estremi il paziente ha dimenticato il contratto che aveva accettato all’inizio del trattamento ed è diventato assolutamente inidoneo a proseguire il lavoro comune. È compito dell’analista strappare ogni volta il paziente da queste illusioni, che possono rappresentare per lui un grande pericolo, dimostrandogli continuamente che ciò che egli reputa una nuova e vera vita è invece un rispecchiamento di eventi passati. E perché egli non giunga a uno stadio che lo renderebbe inaccessibile a qualsiasi dimostrazione, si vigila affinché né l’innamoramento né l’ostilità raggiungano le massime altezze. Ciò si ottiene preparando per tempo il paziente a queste eventualità e non lasciandone passare inosservati i primi indizi. Questa estrema cura nell’impiego della traslazione è di solito ampiamente ricompensata. Se si riesce, come perlopiù accade, a informare adeguatamente il paziente sulla vera natura dei fenomeni della traslazione, si è strappata dalle mani della sua resistenza un’arma potentissima e si sono trasformati i pericoli in conquiste, in quanto il paziente non dimenticherà mai più ciò che ha vissuto nelle forme della traslazione, avendo per lui tali esperienze una forza di persuasione superiore a tutto ciò che è stato acquisito in un’altra maniera.

È per noi oltremodo indesiderabile che il paziente, al di fuori della traslazione, “agisca” anziché ricordare; la condotta ideale, dati i nostri scopi, sarebbe che egli, al di fuori del trattamento, si comportasse nella maniera più normale possibile, manifestando soltanto nella traslazione le sue reazioni anomale.

La via che noi dobbiamo imboccare per rafforzare il suo debole Io parte da un ampliamento della sua conoscenza di sé. Sappiamo che ciò non è tutto, ma è comunque il primo passo. La perdita di una simile conoscenza significa per l’Io diminuzione in potere e influenza, è il segno tangibile più immediato che l’Io è limitato e impedito dalle esigenze dell’Es e del Super-io. La prima parte della nostra opera di soccorso consiste dunque in un lavoro intellettuale che noi dobbiamo fare e in una sollecitazione che dobbiamo rivolgere al paziente affinché collabori con noi. Sappiamo che questa prima attività dovrà aprirci la strada a un altro più difficile compito, il cui aspetto dinamico non dobbiamo mai perdere di vista, neppure agli inizi della cura. Ci procuriamo il materiale per il nostro lavoro da varie fonti, da ciò cui siamo rinviati dalle comunicazioni e libere associazioni del paziente, da ciò che egli ci mostra nelle sue traslazioni, da ciò che traiamo dall’interpretazione dei suoi sogni, da ciò che svela attraverso i suoi atti mancati. Tutto questo materiale ci aiuta a elaborare delle costruzioni su ciò che gli è capitato in passato e che ha dimenticato, come pure su ciò che gli capita adesso e che non riesce a comprendere. Nel far questo, però, non trascuriamo mai di tenere rigorosamente separato il nostro sapere dal suo. Ci asteniamo dal comunicargli subito ciò che abbiamo indovinato, spesso assai per tempo, come pure non gli diciamo tutto quello che crediamo di aver scoperto. Valutiamo con attenzione quando dobbiamo renderlo partecipe di una delle nostre costruzioni, aspettiamo il momento che ci sembra più propizio (la scelta non è sempre facile). Di norma procrastiniamo la comunicazione e il chiarimento di una costruzione a quando egli stesso ci si sia avvicinato a tal punto che non gli resti che un passo, sia pure il passo risolutivo della sintesi. Se ci comportassimo diversamente e lo assalissimo con le nostre interpretazioni prima che egli sia pronto ad accoglierle, la comunicazione o resterebbe senza esito alcuno o provocherebbe da parte sua una violentissima resistenza, che potrebbe creare difficoltà alla prosecuzione del lavoro o addirittura comprometterlo. Se invece le cose sono state preparate a dovere, otteniamo sovente che il paziente confermi subito la nostra costruzione ricordando egli stesso il processo esterno o interno che aveva dimenticato. Quanto più precisamente la nostra costruzione coinciderà con i dettagli del materiale dimenticato, tanto più facile gli riuscirà l’assenso. Per questo aspetto il nostro sapere sarà diventato anche il suo sapere.

Con la menzione della resistenza ci siamo avvicinati alla seconda e più importante parte del nostro compito. Abbiamo già udito che l’Io si tutela contro l’irruzione di elementi indesiderati provenienti dall’Es inconscio e rimosso per mezzo di controinvestimenti che devono rimanere intatti perché l’Io possa funzionare normalmente. Quanto più l’Io si sente braccato, tanto più convulsamente persevera, come impaurito, in questi controinvestimenti, al fine di proteggere la sua parte restante da ulteriori irruzioni. Ma questo atteggiamento difensivo dell’Io non va affatto d’accordo con gli intenti del nostro trattamento. Proprio al contrario noi vogliamo che l’Io, reso ardito dalla certezza del nostro aiuto, osi passare all’attacco per riconquistare ciò che ha perduto. In questa fase avvertiamo l’intensità dei controinvestimenti come resistenze al nostro lavoro. L’Io arretra spaventato di fronte a queste imprese che sembrano pericolose e minacciano dispiacere, e costantemente dobbiamo stimolarlo e tranquillizzarlo affinché non si rifiuti a noi. Questa resistenza, che permane durante tutto il trattamento, rinnovandosi ad ogni passo innanzi del lavoro, la chiamiamo, non del tutto propriamente, resistenza della rimozione. Come vedremo, non è questa l’unica resistenza che ci tocca affrontare. È interessante notare che in questa situazione gli schieramenti in un certo senso si capovolgono: infatti, mentre l’Io si ribella alle nostre sollecitazioni, l’inconscio – che normalmente è il nostro avversario – ci dà una mano, giacché gli è propria una naturale “spinta ascensionale” e a nulla aspira tanto come a varcare i confini che gli sono stati imposti e a giungere fino all’Io, penetrando nella coscienza. Quando, raggiungendo il nostro intento, induciamo l’Io a superare le sue resistenze, nasce una lotta che si svolge sotto la nostra guida e con il nostro aiuto. Non importa quale sarà il suo esito, se l’Io accetterà di riprendere in considerazione una pretesa pulsionale che aveva fino allora rifiutato, o se invece la ripudierà di nuovo, e questa volta definitivamente. In entrambi i casi un pericolo permanente sarà stato accantonato, l’ambito dell’Io risulterà ampliato e un prezioso dispendio di energia si sarà rivelato superfluo.

Il superamento delle resistenze è la parte del nostro lavoro che esige più tempo e maggior fatica. È però un lavoro che val la pena di esser fatto perché provoca una vantaggiosa alterazione dell’Io, la quale si conserverà e darà buone prove di sé nella vita, indipendentemente dall’esito della traslazione. Contemporaneamente ci siamo anche adoperati affinché venga eliminata quell’alterazione dell’Io che si era prodotta sotto l’influsso dell’inconscio: infatti, ogniqualvolta siamo riusciti a scoprire tali derivati dell’inconscio nell’Io, ne abbiamo dimostrato la provenienza illegittima e abbiamo invitato l’Io a ripudiarli. Rammentiamo che una delle premesse alle quali avevamo condizionato la nostra opera di soccorso, e su cui s’era fondato il nostro patto con il malato, era che una simile alterazione del suo Io, dovuta a irruzione di elementi inconsci, non superasse determinati limiti.

Quanto più progredisce il nostro lavoro e quanto più affiniamo la nostra capacità di penetrare la vita psichica dei nevrotici, tanto più chiaramente ci rendiamo conto dell’esistenza di due nuovi fattori che esigono da parte nostra la massima attenzione come fonti della resistenza. Tutti e due sono assolutamente sconosciuti al malato e tutti e due non potevano essere presi in considerazione quando abbiamo concluso il nostro patto con lui; essi non derivano del resto dall’Io del paziente. Si possono classificare entrambi sotto il termine comune “bisogno della malattia o della sofferenza”, ma, pur essendo affini per altri aspetti, la loro provenienza è differente. Il primo di questi due elementi è il senso di colpa o “coscienza della propria colpa”, come anche viene chiamato a dispetto del fatto che il malato non lo avverte e non lo riconosce. Si tratta evidentemente del contributo alla resistenza recato da un Super-io fattosi particolarmente spietato e crudele. L’individuo non deve guarire, anzi deve restare malato, giacché non merita di meglio. Questa resistenza non turba in effetti il nostro lavoro intellettuale, lo rende però inefficace; spesso, invero, essa ci permette di annullare una forma di sofferenza nevrotica, ma immediatamente la sostituisce con una eventuale malattia somatica. Questo senso di colpa spiega anche le guarigioni o i miglioramenti di gravi nevrosi che talora si possono osservare in seguito a disgrazie reali; quel che conta è soffrire, non importa come. La silenziosa rassegnazione con cui queste persone sopportano spesso il loro duro destino è assai strana e al tempo stesso rivelatrice. Nella difesa contro questa resistenza dobbiamo limitarci a renderla cosciente e a tentare la lenta demolizione del Super-io ostile.

Meno facile ci sembra far venire in luce un’altra resistenza, lottando contro la quale ci rendiamo conto più che mai della nostra insufficienza. Esistono fra i nevrotici degli individui in cui, a giudicare da tutte le loro reazioni, la pulsione di autoconservazione ha addirittura subito una inversione. Essi non sembrano mirare ad altro che all’autolesionismo e all’autodistruzione. Appartengono forse a questo gruppo anche coloro che alla fin fine effettivamente si suicidano. La nostra ipotesi è che in costoro si siano prodotti in ampia misura dei disimpasti pulsionali, in conseguenza dei quali si sono liberate quantità eccessive della pulsione di distruzione rivolta verso l’interno. Questi pazienti non possono trovare sopportabile la guarigione che deriva da un nostro trattamento e ad essa si oppongono con ogni mezzo. Dobbiamo ammettere tuttavia che questo è un caso di cui non siamo ancora riusciti a dare una spiegazione esauriente.

Riepiloghiamo ancora una volta la situazione nella quale ci troviamo quando proviamo a prestar soccorso all’Io nevrotico. Questo Io non può più assolvere il compito che gli è posto dal mondo esterno, nonché dalla società umana. Egli non dispone di tutte le sue esperienze, una parte considerevole del suo patrimonio mnestico gli è venuta meno. La sua attività è inibita a causa dei severi divieti del Super-io, la sua energia si consuma in vani tentativi di difendersi dalle pretese dell’Es. Oltre a ciò l’Io è danneggiato per le continue irruzioni dell’Es nella sua organizzazione, è in sé scisso, non riesce più a compiere vere e proprie sintesi, lacerato com’è da tendenze tra loro inconciliabili, da conflitti non liquidati, da dubbi irrisolti. A tutta prima noi consentiamo che questo Io indebolito del paziente prenda parte al lavoro interpretativo meramente intellettuale, mirante a colmare provvisoriamente le lacune esistenti nel suo patrimonio psichico; lasciando che l’autorità del suo Super-io si trasferisca su di noi, lo stimoliamo vigorosamente a ingaggiare una lotta contro ogni singola pretesa dell’Es e a vincere le resistenze che emergono durante questo conflitto. Nello stesso tempo rimettiamo ordine nel suo Io in quanto, individuati i contenuti e le inclinazioni che in esso sono penetrati dall’Es, li riconduciamo alla loro provenienza e li esponiamo alla critica. Noi serviamo al paziente in diverse funzioni, come autorità e sostituto dei genitori, come maestro e come educatore; tuttavia gli rendiamo il servizio migliore quando, in qualità di analisti, eleviamo i processi psichici del suo Io a un livello normale, trasformiamo ciò che è stato reso inconscio e rimosso in preconscio, in tal modo restituendolo all’Io. Da parte del paziente agiscono in nostro favore alcuni elementi razionali, come il suo bisogno di guarire motivato dalle sofferenze e l’interesse intellettuale che possiamo destare in lui per le dottrine e le scoperte della psicoanalisi; ma con forze ben più grandi agisce in questo senso la traslazione positiva con cui egli ci viene incontro. Dall’altra parte lottano contro di noi la traslazione negativa, la resistenza della rimozione dell’Io, ossia la contrarietà di quest’ultimo ad assoggettarsi al difficile lavoro che gli viene prospettato, il senso di colpa derivante dal rapporto con il Super-io, e infine il bisogno della malattia derivante da alterazioni profonde nella sua economia pulsionale. Dalla parte che hanno i due ultimi fattori dipende se il caso in questione sarà definito da noi facile o difficile. Indipendentemente da questi, si possono individuare alcuni altri fattori che sono considerati favorevoli o sfavorevoli. Una certa inerzia psichica, una scarsa mobilità della libido, che è restia ad abbandonare le sue fissazioni,575 non possono riuscirci gradite; molto importante è la capacità della persona di sublimare le pulsioni, e così pure la sua capacità di innalzarsi al di sopra della rozza vita pulsionale, nonché la forza relativa delle sue funzioni intellettuali.

Non è per noi motivo di disillusione, ma anzi troviamo comprensibilissimo, dover concludere che l’esito finale della lotta che abbiamo ingaggiato dipende da relazioni quantitative, dalle energie che riusciamo a mobilitare nel paziente in nostro favore, l’ammontare delle quali va messo a confronto con la somma energetica delle forze che combattono contro di noi. E ancora una volta Dio sta dalla parte dei battaglioni più forti;576 certo non sempre ci arride la vittoria, ma almeno quasi sempre riusciamo a comprendere perché non abbiamo vinto. Chi ha seguito la nostra esposizione per un puro interesse terapeutico, dopo questa ammissione ci volterà forse le spalle con sufficienza. Ma noi ci occupiamo qui di terapia solo nella misura in cui essa opera con mezzi psicologici; al momento non ne abbiamo altri. Può darsi che in futuro qualcuno ci insegnerà come influenzare direttamente, con speciali sostanze chimiche, le quantità energetiche e la loro ripartizione nell’apparato psichico. E forse verranno alla luce altre potenzialità della terapia che adesso non possiamo neppure sospettare; per ora non abbiamo nulla di meglio a disposizione che la tecnica psicoanalitica; per questo, nonostante i suoi limiti, non bisognerebbe disprezzarla.577

Opere complete
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