Introduzione di C. L. Musatti

La pubblicazione, sul finire del 1899, della Interpretazione dei sogni segnò, nella storia della vita e dell’attività scientifica di Freud, una decisa svolta.

Nei successivi mesi del 1900 e 1901 Freud produce nuovi lavori importanti: oltre a un breve scritto Il sogno, in cui è riassunta la dottrina dell’opera maggiore, la Psicopatologia della vita quotidiana e il Frammento di un’analisi d’isteria. Tuttavia Il sogno è scritto sulla scia dell’esposizione precedente, il Frammento di un’analisi d’isteria, intitolato all’inizio Sogni e isteria, è stato anch’esso ideato originariamente come un’aggiunta alla dottrina del sogno, e la Psicopatologia della vita quotidiana, progettata nell’estate del 1899, è lo sviluppo di due articoli pubblicati nel 1898 e 1899, prima dunque che L’interpretazione dei sogni fosse terminata.

Queste opere rappresentano pertanto la prosecuzione o il completamento di una produzione precedentemente iniziata. Seguì una pausa di qualche anno; e solo nel 1905 si riscontra un’altra grande fioritura di attività.1

L’interpretazione dei sogni e la Psicopatologia della vita quotidiana non sono tuttavia soltanto pubblicazioni scientifiche. Esse, nella loro veste originaria del 1899 e del 1901, contengono una parte considerevole, anche se spesso dissimulata, dell’autoanalisi, che Freud aveva iniziato nell’estate del 1897 (vedi la Introduzione al vol. 3 di questa edizione). Benché Freud la abbia continuata in certo modo per tutta la vita (come accade del resto a ognuno che eserciti questa attività su altri), in modo specifico e in senso stretto l’autoanalisi comprende gli anni dal 1897 al 1901. Freud si liberò allora dai suoi spunti fobici e acquistò maggiore sicurezza e padronanza di sé.

Alcuni fatti specifici, di maggiore o minor rilievo nella vita di lui, sono in relazione col cambiamento determinato dall’analisi.

Così la strana vicenda della sua visita a Roma.

Freud aveva un grande interesse per il mondo classico, e in modo specifico per l’Italia (aveva appreso l’italiano, studiandolo da solo, in gioventù). Date le ristrettezze economiche in cui si svolse la prima parte della sua vita, dovette attendere parecchio prima di potersi permettere viaggi di puro diletto o di cultura. Dal 1895 in poi riuscì tuttavia quasi ogni anno a fare un viaggio in Italia. Ambiva in modo particolare a poter visitare Roma.

Nella Interpretazione dei sogni (vedi ivi cap. 5, par. B), a proposito del sogno considerato come realizzazione di desideri, cita una serie di sogni personali in cui egli stesso si trova a Roma. E nel testo, scritto dunque nel 1899, afferma: “Per molto tempo dovrò continuare ad appagare questo desiderio soltanto nei sogni, perché ragioni di salute mi costringono a evitare un soggiorno a Roma nella stagione che è a mia disposizione per viaggiare.”

La giustificazione evidentemente non regge.2 Freud era stato in Italia nel 1895 arrivando fino a Venezia. Nel 1896, dopo essere tornato a Venezia e Padova, si spinse fino a Firenze. Nel settembre 1897, in meno di venti giorni, compì un giro incredibilmente complicato e tortuoso: Venezia; poi Pisa e Livorno; quindi Siena, San Gimignano, Chiusi e Orvieto, Bolsena, Spoleto, Terni, Assisi, Perugia, Arezzo e Firenze: luoghi tutti dal clima non dissimile da quello di Roma.

Sembra proprio che alla sua attrazione per Roma e al suo desiderio di visitarla qualche cosa si opponesse in modo invincibile. Ne era del resto perfettamente consapevole, e quello stesso anno scrive a Fliess (lettera del 3 dicembre 1897): “Il mio desiderio di Roma ha un carattere profondamente nevrotico. È connesso con la venerazione che avevo da scolaro per l’eroe semitico Annibale; e in realtà anche quest’anno, come accadde a lui, non ho potuto, avvicinandomi a Roma, andare oltre il lago Trasimeno.”

Anche nel 1898 Freud venne in Italia: a Pasqua ad Aquileia; in estate, dopo il viaggio in Dalmazia (dove si ha l’episodio descritto in Meccanismo psichico della dimenticanza, in Opere di Sigmund Freud, vol. 2), nell’Italia settentrionale: a Brescia, Milano, Pavia, Monza e Bergamo.

Pure il desiderio di Roma è così forte che durante un periodo di depressione, dovuto a un arresto nel lavoro per L’interpretazione dei sogni, scrive a Fliess (lettera del 23 ottobre 1898): “Mi manca il raccoglimento necessario per fare qualche cosa d’altro che studiare la topografia di Roma, della quale ho una nostalgia sempre più acuta. Il libro dei sogni è fermo a un punto morto.”

Freud possedeva una carta topografica di Roma, e in modo caratte-risticamente ossessivo – simile a quello di tanti studenti, bloccati nello studio durante la preparazione agli esami per un cosiddetto “esaurimento nervoso” – si immergeva coattivamente nella contemplazione della pianta di Roma, evitando così la prosecuzione del proprio lavoro.

Nel 1899 Freud non fece viaggi, impegnato come era a portare a termine L’interpretazione dei sogni.

Nell’estate del 1900, dopo essersi trovato con Fliess ad Achensee (e fu l’ultimo dei loro “congressi”), tornò prima a Venezia, poi a Trento, Lavarone e Riva, e infine a Milano e Genova. Ancora solamente l’Italia settentrionale.

Soltanto nel settembre del 1901, col fratello Alexander, giunge finalmente a Roma dove si ferma dodici giorni. Scrive a casa in preda a una grande esaltazione. A Fliess dichiara di essere rimasto un po’ deluso “come accade per tutte le cose attese per lungo tempo” (lettera del 18 settembre 1901). In ispecie si proclama entusiasta di Roma antica, simpatizza anche per quella moderna (e cioè la Roma umbertina), ma dichiara invece di respingere la Roma papale e barocca.

Qual è il significato di questo conflitto nevrotico fra un grande amore e una invincibile fobia per Roma?

In molti se lo sono chiesto. Lo stesso accenno di Freud alla sua remota identificazione con Annibale ha fatto pensare a un contrasto fra i suoi sentimenti di appartenenza all’ebraismo e un’attrazione per il mondo dei gentili, che Roma, sede del papato, rappresenterebbe.

Di altri elementi si può tener conto.

A proposito di uno dei suoi sogni su Roma (“qualcuno mi portò su una collina e m’indicò Roma, semiavvolta nella nebbia e ancora così distante, che mi meravigliai di vederla con tanta chiarezza”), Freud dice: “è facilmente riconoscibile il motivo del ‘vedere da lungi la terra promessa’” (L’interpretazione dei sogni, cap. 5, par. B).

Spesso nel parlare del desiderio di visitare Roma, Freud fa riferimento alla Pasqua. Così scrive a Fliess il 6 febbraio del 1899: “Sono desideroso di sapere quando sarà possibile una Pasqua a Roma.” E poi continua, dopo aver accennato ad altre fantasie difficilmente realizzabili: “Peccato che questi piani siano fantastici quanto una Pasqua a Roma.” E ancora il 30 gennaio 1901, in un momento di sconforto: “Sono ossessionato dalla sensazione di passare a Roma la settimana di Pasqua.” Ma il successivo 15 febbraio aggiunge: “non andrò a Roma per Pasqua più di quanto ci vada tu.”

La cosa potrebbe essere messa in relazione con quel clima caldo di Roma, che Freud invocava a giustificazione della fobia, e che in primavera sarebbe minore che in estate. Ma la enunciazione del proposito di trovarsi per Pasqua in una città agognata e irraggiungibile ha, per una persona educata come Freud in ambiente ebraico, un significato tutto particolare. Gli ebrei della diaspora, ogni anno alla fine del periodo pasquale, usavano dirsi reciprocamente: “L’anno venturo a Gerusalemme.” Freud stesso collega Roma a questa frase nella lettera a Fliess scritta il 14 aprile 1900, durante la Pasqua di quell’anno: “Se per concludere dicessi: la prossima Pasqua a Roma, mi sentirei come un devoto ebreo.”

Gli ebrei della diaspora però non andavano a far Pasqua a Gerusalemme. L’augurio ha quindi tutt’altro significato: quello del ritorno nella terra dei padri da cui sono stati tenuti lontani. Ancora la terra promessa: il desiderio, l’aspirazione, la speranza, rimasta per secoli irrealizzabile.

Corrisponde dunque questa situazione al senso di impossibilità collegato in Freud alla sua aspirazione di giungere a Roma.

È naturalmente da spiegare il perché di questa impossibilità; e poiché Freud stesso non ha voluto darci esplicitamente una spiegazione, il problema rimane aperto.

Tuttavia è perlomeno suggestiva un’interpretazione la quale colleghi la vicenda con l’autoanalisi che Freud in questi anni veniva effettuando.

Qual è l’aspirazione che ogni uomo reca con sé fin dalla prima infanzia, e che, insopprimibile, rimane sepolta nell’inconscio, pur non potendo essere realizzata? Freud ha insegnato, scoprendolo proprio in questi anni nell’autoanalisi, che l’oggetto di tale aspirazione è la madre, nella sua presenza e realtà corporea.

Roma poteva ben simboleggiare, per una persona sensibile al fascino del mondo classico, la madre.

Nel corso dell’autoanalisi Freud riuscì a ricordare un episodio di quando aveva poco più di due anni, in cui la vista del corpo della madre suscitò in lui una particolare eccitazione (lettera a Fliess del 3 ottobre 1897, dove – per il ritegno a indicare le cose chiaramente – si servì di due parole latine, matrem e nudam: la lingua di Roma dunque). Scoprì proprio in tale occasione il carattere universale della situazione edipica (lettera a Fliess del 15 ottobre 1897). I sogni di “trovarsi a Roma”, di cui abbiamo detto, sono inoltre pieni di simboli sessuali. E anche il protrarsi ossessivo dello studio della carta topografica può esprimere e riprodurre simbolicamente – come si costata in numerose analisi – la curiosità sessuale del bambino e l’impulso alla esplorazione corporea.

Se così stanno le cose, Freud è bensì riuscito fin dal 1897 a riconoscere su sé stesso gli elementi del complesso edipico, ma – come sempre accade in ogni analisi – ha poi avuto bisogno di molto ulteriore lavoro analitico per risolvere compiutamente il conflitto che vi è connesso; e il conflitto si è espresso simbolicamente con l’impossibilità fobica a superare la inibizione a recarsi a Roma.

Freud stesso, nelle edizioni del 1911 e 1914 della Interpretazione dei sogni (vedi ivi nota 748), a proposito di sogni edipici mascherati simbolicamente, suggerisce indirettamente una simile interpretazione.

Solo nel settembre del 1901 si ha dunque la soluzione: la quale si compie (come Freud scrive a Fliess) senza reazioni emotive di natura particolare.

Tre anni dopo però Freud, col fratello Alexander (che lo aveva accompagnato pure a Roma) va ad Atene; e lì, sull’Acropoli, è improvvisamente colto da un senso di irrealtà: una crisi di derealizzazione e di spersonalizzazione.

Freud ha descritto l’episodio molti anni dopo, alla fine della sua vita (nel 1936), come un episodio di paramnesia (Un disturbo della memoria sull’Acropoli), e lo ha interpretato come dovuto al “desiderio proibito di farsi una posizione migliore di quella del padre”. La rivalità sociale può però ben coprire la rivalità sessuale. In tal caso si sarebbe prodotta ad Atene, sull’Acropoli, quella violenta reazione emotiva, carica di senso di impossibilità, che non si era determinata a Roma.

Atene non è Roma; può tuttavia aspirare anch’essa a simboleggiare una madre antica. Inoltre Freud, rievocando l’episodio a tanti anni di distanza, ne dedicò la descrizione (senza un apparente motivo determinante) a Romain Rolland per il suo settantesimo compleanno: ancora con un riferimento a Roma.

Si può considerare esaurita, col viaggio a Roma, l’analisi di Freud?

Abbiamo già detto che non vi è una data precisa per questo. Tuttavia è possibile collegare, con la fine della fobia che impediva a Freud di giungere a Roma, vari altri avvenimenti.

Uno ve n’è che può apparire banale.

Freud era stato proposto il 12 giugno 1897 (vedi l’Avvertenza editoriale ai Sommari dei lavori scientifici [1897], in Opere di Sigmund Freud, vol. 2) dalla Facoltà di Medicina di Vienna per la nomina a professore straordinario. Era libero docente, ma i liberi docenti non venivano chiamati professori in Austria. La nomina non implicava nuove funzioni. Avrebbe avuto carattere onorifico, ma in più un notevole peso sul piano professionale consentendo tariffe superiori. Freud ci teneva moltissimo, come appare da tutta la corrispondenza con Fliess.

La nomina era di competenza ministeriale, e dato l’antisemitismo governativo, Freud né allora né negli anni successivi, a differenza di tutti gli altri colleghi proposti, ottenne la nomina.

Per aggirare la difficoltà sarebbe stato necessario ricorrere a qualche protezione politica o di altro genere, e Freud non voleva piegarsi a questo. Soltanto di ritorno dal viaggio a Roma, come scrisse a Fliess (lettera dell’11 marzo 1902), trovò che dentro di lui “la voglia di vivere e di operare era aumentata, quella del martirio, invece, un po’ diminuita”. Risolse allora di cercare un appoggio, giudicando che era assurdo rinunciare a ciò che costituiva un vantaggio economico soltanto per una questione di amor proprio. Nella stessa lettera a Fliess, Freud ha spiritosamente raccontato come la vicenda si sia risolta, attraverso un intervento di dame della buona società viennese presso uno sciocco ministro. E concluse: “Se avessi fatto questi pochi passi tre anni fa, sarei stato nominato allora, e mi sarei risparmiato diverse amarezze. Altri sono ugualmente furbi senza bisogno di andare a Roma.”

L’“essere andato a Roma” acquista così il significato di una liberazione da interiori inibizioni.

La lettera citata dell’11 marzo 1902, lunga, particolareggiata e anche affettuosa, è fra le ultime lettere che Freud abbia scritto a Fliess: l’ultima che sia stata pubblicata. Col 1902 la loro corrispondenza si interruppe.

I rapporti si erano guastati anche prima: in modo specifico dall’estate del 1900, e cioè dal tempo dell’ultimo di quei convegni (o congressi, come solevano chiamarli) che essi tenevano a intervalli in varie città. Sembra che Freud abbia attaccato allora con violenza Fliess per la sua dottrina della periodicità (la quale, applicata ai sintomi nevrotici, avrebbe svuotato di significato ogni interpretazione analitica di quei sintomi), e che Fliess abbia accusato Freud di attribuire semplicemente ai suoi pazienti i propri pensieri.3 In lettere successive Freud accenna a questa accusa di Fliess; ad esempio nella lettera del 7 agosto 1901, e ancora in quella (dove parla del viaggio a Roma) del 19 settembre 1901: “Mi ha addolorato perdere il mio ‘unico pubblico’. Per chi scriverò ormai? Se basta una mia interpretazione a farti sentire a disagio e indurti a concludere che il ‘lettore del pensiero’ non percepisce nulla negli altri ma proietta semplicemente i suoi pensieri in essi, non sei più il mio pubblico: inoltre non puoi far a meno di considerare tutta la mia tecnica senza valore, come fanno gli altri.”

Come osserva Jones,4 il dissidio è di tale natura che non si riesce assolutamente a comprendere come per dodici anni Freud e Fliess abbiano potuto mantenersi così uniti e solidali nella loro attività scientifica.

C’è indubbiamente qualche cosa di personale e di nevrotico in questo legame fra i due uomini.

Per motivi oscuri la figura di Fliess ha esercitato su Freud, specialmente dopo il raffreddamento verificatosi nei confronti di Breuer, una funzione particolare. Fliess è stato l’unico pubblico di Freud per lunghi anni. L’unico pubblico per quanto riguarda il lavoro scientifico, ma anche, dal 1897 in poi, per quanto si riferisce all’autoanalisi. Era il testimone di cui Freud aveva bisogno per svolgere sopra di sé il lavoro dell’analisi. In tal modo però si accentuava in Freud uno stato di dipendenza (corrispondente alla traslazione di un paziente verso il suo analista), a cui non faceva riscontro qualche cosa di analogo in Fliess: il quale svolgeva un lavoro scientifico differente, ed era per così dire protetto dal suo stesso accentuato narcisismo.

Freud tentò di analizzare il proprio comportamento verso Fliess, anche quando affioravano elementi aggressivi verso di lui. Ma Fliess non era disposto ad accettare questa aggressività; e la stessa analisi di questo rapporto personale ambivalente, da parte di Freud, non poté giungere fino in fondo: come risulta da quanto accadde successivamente.

Dopo l’agosto del 1900 non vi furono più incontri; la corrispondenza continuò, ma Fliess si astenne dal fornire comunicazioni riguardanti il proprio lavoro scientifico e diradò le lettere; finché queste cessarono del tutto.

Freud non poté allora liquidare integralmente la sua traslazione nei confronti di Fliess in modo da acquistare piena serenità verso di lui, cosicché si ebbero strascichi assai spiacevoli (vedi la Introduzione al vol. 2 di questa edizione). Si rese però conto che il rapporto con Fliess, anziché costituire un aiuto per il suo lavoro e per la sua vita, rappresentava ormai un ostacolo. Si rassegnò alla situazione, e cercò di sostituire la singola figura di Fliess con un altro “pubblico”, rappresentato ora da un gruppo: è nato così il “movimento psicoanalitico”.

Subito dopo la fine dei rapporti epistolari con Fliess, Freud (autunno 1902) inviò a quattro medici viennesi, che aveva motivo di ritenere si interessassero vivamente alla sua attività, un invito per un incontro a casa sua, al fine di partecipare a discussioni scientifiche.

I quattro erano: Max Kahane e Rudolf Reitler, psichiatri che avevano assistito negli anni precedenti alle lezioni universitarie di Freud e il secondo dei quali aveva incominciato per conto proprio ad applicare la tecnica psicoanalitica sopra pazienti, Wilhelm Stekel che, indirizzato nel 1901 a Freud da Kahane per un disturbo di cui era sofferente, fu in analisi presso Freud e cominciò nel 1903 ad esercitare egli stesso l’analisi, e Alfred Adler, la personalità forse più brillante del gruppo.

Le riunioni – sembra per suggerimento di Stekel – divennero periodiche, e il gruppo, che si riuniva ogni mercoledì nella stanza d’aspetto di Freud, assunse la denominazione di “Società psicologica del Mercoledì”.

Stekel redigeva all’inizio brevi resoconti, pubblicandoli nell’edizione domenicale del “Neues Wiener Tageblatt”.

Negli anni successivi si unirono ai precedenti altri studiosi interessati alla psicoanalisi come: Paul Federn nel 1903, Eduard Hitschmann nel 1905, e l’anno dopo il giovanissimo Otto Rank, il quale, non medico e privo anzi di qualsiasi formazione accademica, acquistò rapidamente una profonda e vasta cultura. Egli divenne il segretario del gruppo e compilò da allora regolari verbali delle sedute, che tenne a disposizione di chi li volesse consultare.

La “Società psicologica del Mercoledì” fu il primo nucleo di quello che doveva divenire il movimento psicoanalitico. Assunse nel 1908 la denominazione di “Società psicoanalitica di Vienna”, e sul suo modello si costituirono successivamente le Società psicoanalitiche dei vari paesi, unite dal 1910 nella “Associazione psicoanalitica internazionale”.

Il movimento psicoanalitico ha avuto caratteri molto singolari, a determinare i quali hanno contribuito vari fattori. I problemi che ne derivano coinvolgono anche la personalità di Freud e la sua opera negli anni successivi.

Quando lo sviluppo del movimento ebbe inizio, le basi della psicoanalisi, i muri portanti, per così dire, dell’edificio psicoanalitico – con l’apporto delle opere elaborate nel 1905, e cioè i Tre saggi, in cui la complessa materia della sessualità trova una sistemazione definitiva, e Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, in cui sono precisati aspetti di grande rilevanza della dinamica dell’inconscio – erano ormai completati.

Il movimento fiorì perciò sul terreno di una dottrina consolidata, anche se non immobile, dando luogo nei singoli a tutti quei contrastanti fenomeni – della ricerca di uno spazio per una personale originalità di pensiero, e di un richiamo invece a una ortodossia collettiva, quale garanzia più sicura – i quali caratterizzano situazioni di questo tipo.

Freud stesso non fu sempre coerente nel proprio atteggiamento verso queste manifestazioni. Riuscì però, pur se attraverso tormentate vicende e molte dolorose amputazioni, ad assicurare la continuità del movimento; fino a quando esso fu sufficientemente robusto per poter sopravvivere al suo stesso fondatore.

Le citazioni di scritti di Freud avvengono secondo il titolo, la datazione, la partizione interna, con rimando al volume delle Opere di Sigmund Freud (d’ora in poi OSF) in cui compaiono (vedi elenco al fondo del volume).

Note e inserzioni editoriali sono tra parentesi quadre, eccetto le numerose precisazioni aggiunte ai rimandi bibliografici, i quali quasi sempre, nel testo originale, sono incompleti o imprecisi.

Opere complete
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