Nella lettera dell’11 settembre 1899 a Fliess, rispondendo a un rilievo da questi fatto sul testo in bozze della Interpretazione dei sogni, Freud riconosce che i sogni analizzati nella propria opera risultano in qualche modo troppo, o almeno assai, spiritosi. Spiega questo fatto dicendo che la attività costruttrice del sogno trova la via diretta di espressione bloccata e deve quindi seguire una via indiretta, come appunto fa il motto di spirito. Nella sua lettera Freud accenna alla possibilità di inserire nel libro sui sogni un accenno a questa situazione: ciò che egli effettivamente fece (vedi OSF, vol. 3, cap. 6, par. A, nota 560). Nel presente scritto il tema del carattere spiritoso del sogno è ripreso qui, parte C, cap. 6, dove tuttavia viene rilevato che i sogni non danno tanto l’impressione di veri e propri motti di spirito, quanto di tentativi, in certo modo abortivi, di costruirne uno. Il lavoro onirico, pur impiegando le stesse tecniche del motto di spirito, esagera infatti in tale impiego, senza rispettare i limiti che l’attività costruttrice dei motti invece si impone. Freud aveva notato fin dal tempo degli Studi sull’isteria (1892-95) come anche alcune manifestazioni o sintomi nevrotici possano presentare caratteri simili a quelli di un motto di spirito. Ad esempio, a proposito della paziente Cäcilie M. (vedi OSF, vol. 1, cap. 2, nota 206), l’allucinazione ricorrente alla quale andava soggetta la paziente, per cui vedeva Freud e Breuer insieme impiccati, viene spiegata in base al fatto che entrambi, separatamente richiesti di consentirle di prendere un dato farmaco, avevano rifiutato: l’allucinazione corrisponde allora al pensiero, indubbiamente espresso in forma spiritosa, “l’uno vale l’altro”, “uno è il pendant dell’altro”.
In una aggiunta del 1909 alla nota sopra citata dell’Interpretazione dei sogni Freud afferma che fu l’osservazione del carattere spiritoso di alcuni sogni a dargli lo spunto per effettuare, con la presente opera, un confronto fra “lavoro onirico” e “lavoro dell’attività costruttrice dei motti di spirito”. Ma i motti erano stati oggetto di interesse scientifico per Freud fin dal 1897. Nella lettera del 12 giugno 1897 a Fliess, a proposito della specifica competenza di Fliess in campo biologico e della propria in campo psicologico, Freud afferma di avere recentemente raccolto una collezione di storielle ebree molto significative; a tale raccolta fa ancora cenno nella drammatica lettera del 21 settembre successivo (in cui riconosce il proprio errore per la dottrina del trauma sessuale infantile), e anzi applica con umorismo a sé stesso una di queste storielle.
Dovettero passare vari anni dopo la Interpretazione dei sogni perché la presente opera fosse condotta a termine. Per prepararla Freud agì come per la Interpretazione dei sogni, passando preliminarmente in rassegna i principali lavori psicologici – abbastanza numerosi alla fine del secolo scorso e al principio di questo – pubblicati da vari autori sulla produzione di motti di spirito, e sugli argomenti affini. Fra questi ebbe particolare importanza per Freud l’opera di Theodor Lipps, di cui egli fin dal 1898 aveva studiato Grundtatsachen des Seelenlebens (Fatti basilari della vita psichica) del 1883 (vedi le lettere a Fliess del 26 agosto, 31 agosto e 27 settembre 1898), dove trovò una concezione dei dinamismi inconsci assai vicina alla propria, e poi Komik und Humor (Comicità e umorismo) pubblicato nel 1898, e che – secondo Jones, Vita e opere di Freud (Milano 1962) vol. 2, p. 409 – sarebbe stato letto da Freud nel luglio dello stesso anno. Circa questo libro, Freud dichiarò nella presente opera (cap. 1, nota 1) di dovere ad esso “l’ardire e la possibilità stessa di accingermi a questo tentativo”.
Fra gli autori che Freud studiò in questa occasione, ve ne sono alcuni parecchio lontani dal suo modo di pensare, come Bergson per Le rire del 1900, e anche Pavlov, le cui prime ricerche sui riflessi condizionati cominciavano appena allora (nel 1904) a essere pubblicate in lingue occidentali.
La presente opera si inserisce nel tipo di indagini iniziato col Progetto di una psicologia (1895) e poi col capitolo settimo della Interpretazione dei sogni, sui dinamismi dell’inconscio, sui rapporti fra inconscio e preconscio, e sul concetto di risparmio energetico. Nella indagine sui motti di spirito costruiti al servizio di specifiche tendenze, Freud individua due specie di tendenze, a cui corrispondono i motti di spirito licenziosi e i motti di spirito aggressivi. Questa dicotomia precorre la dottrina dualistica delle pulsioni, che Freud svilupperà molti anni più tardi in Al di là del principio di piacere del 1920 e in L’Io e l’Es del 1922: Amore e Morte dunque.
Benché l’argomento principale di quest’opera sia il motto di spirito nei suoi meccanismi inconsci di produzione e ricezione, Freud dedica in questo libro alcune considerazioni anche al comico e all’umoristico, categorie che spesso possono mescolarsi e fondersi con quella del motto di spirito. Ciò ha consentito a Freud di sviluppare la teoria dei personaggi (tre, due, uno) che caratterizzano questi diversi modi di trarre piacere dalla manipolazione di un materiale verbale, al servizio eventualmente delle nostre pulsioni erotiche o aggressive. Sul problema dell’umorismo Freud ritornò molti anni dopo nel 1927 con L’umorismo, utilizzando la dottrina del Super-io che aveva nel frattempo elaborata.
Freud portò a termine questo libro sul motto di spirito nel 1905, circa contemporaneamente ai Tre saggi sulla teoria sessuale. Jones anzi racconta (Vita e opere di Freud, vol. 2, pp. 28 sg.) come Freud tenesse i due manoscritti su due tavoli contigui, lavorando a turno all’uno e all’altro dei due.
Le due opere apparvero contemporaneamente presso lo stesso editore – Deuticke, Lipsia e Vienna 1905 – e rimane incerto quale delle due abbia preceduto l’altra. Comunque l’opera presente fu certo pubblicata, col titolo Der Witz und seine Beziehung zum Unbewussten, prima del giugno, dato che il giornale viennese “Die Zeit” nel numero del 4 giugno ne portava una recensione. Seguì nel 1912 una seconda edizione con lievissime aggiunte, e poi nel 1921 e nel 1925, una terza e una quarta edizione immutate. L’opera è anche contenuta in Gesammelte Schriften, vol. 9 (1925) pp. 1-269, e in Gesammelte Werke (1940) vol. 6, pp. 1-285. Il libro, che non ebbe finora versioni italiane tratte dal testo tedesco, è qui tradotto da Silvano Daniele ed Ermanno Sagittario.
Una volta pubblicata quest’opera, Freud dimostrò verso di essa un certo disinteresse: non soltanto non curò, come per molti altri suoi lavori, di farvi aggiunte nelle successive edizioni, ma citò raramente il libro in altre opere e vi accennò di sfuggita negli scritti autobiografici.
In complesso anche il pubblico e la critica non dimostrarono molto interesse.
La causa può essere ricercata in una circostanza che Freud stesso ha illustrata nel libro. Quando un motto di spirito viene analizzato per individuarne la tecnica, l’effetto spiritoso che inizialmente si gustava nel motto scompare, e il motto finisce col risultare qualche cosa di scipito. Anatomizzare un motto di spirito significa spegnerlo. Perciò il libro presenta un puro interesse tecnico, e va letto in funzione di questo interesse, ma – a differenza della Interpretazione dei sogni, della Psicopatologia della vita quotidiana, e di tanti altri scritti di Freud – non è un’opera brillante.
Questa impressione si accentua per il lettore di altra lingua che legga il libro in una traduzione.
Freud afferma (qui, cap. 1, par. 2) che per apprezzare un motto di spirito, e cioè per sentirlo come qualche cosa di spiritoso, occorre una identità di struttura psicologica fra chi conia il motto e lo pronuncia, e chi lo ascolta. Senza una tale sintonia il motto non può essere apprezzato. Ma condizione per una tale sintonia è anche la appartenenza a uno stesso mondo culturale e linguistico.
Il materiale di motti che Freud utilizza deriva per la maggior parte da un ambiente assai particolare. I motti di Heine, quelli contenuti nelle storielle di ebrei galiziani o polacchi, originariamente in yiddish, o quelli circolanti nell’ambiente della borghesia viennese, spesso pure ebraica, frequentata da Freud, o in genere nei paesi dell’Europa centrale quali erano prima della prima guerra mondiale, richiedono una certa familiarità e una capacità di identificazione per essere emotivamente intelligibili.
Lo Schnorrer (qui tradotto con “pitocco”, e che è propriamente l’ebreo povero il quale, ritenendo suo diritto vivere di scrocco alle spalle di ricchi correligionari obbligati per motivi religiosi a soccorrerlo, non sente obblighi di riconoscenza verso coloro che lo sovvenzionano, e considera la propria una attività professionale non diversa da tante altre) oppure lo Schadchen (che era il sensale di matrimoni fra ebrei, ma che svolgeva il proprio lavoro in un ambiente dove l’istituto matrimoniale presentava coloriture del tutto estranee agli usi di altre popolazioni), per chi non abbia una qualche conoscenza di questi ambienti particolari risultano figure scarsamente comprensibili, cosicché l’effetto spiritoso in motti che a questi personaggi si riferiscano, rischia di andare completamente perduto.
Alle difficoltà di traduzione derivanti da tale situazione, altre se ne aggiungono per ciò che riguarda la terminologia tecnica. E questo a cominciare dalla parola Witz, che appare nel titolo e che indica contemporaneamente la battuta di spirito (dove tuttavia il vocabolo tedesco monosillabico contiene in sé ed esprime la concisione e la condensazione che di quelle battute sono caratteristiche) e la stessa facoltà costruttrice dei motti o la qualità che li distingue.
Il traduttore si è deciso a usare per il primo significato motto (o: motto di spirito), e per il secondo arguzia.
Anche la parola arguzia usata per la facoltà costruttrice implica una difficoltà. Per indicare il lavoro, la tecnica e il processo dell’arguzia (che Freud pone a confronto col lavoro, la tecnica e il processo onirico) è stato usato l’aggettivo arguto (dunque: lavoro arguto, tecnica arguta, processo arguto), col rischio che “arguto” sia sentito dal lettore come aggettivo qualificativo (per la quale accezione è qui invece usato “spiritoso” o “di spirito”) e non di appartenenza.
Si sarebbe forse potuta seguire la indicazione della popolazione triestina, la quale ha incorporato nel proprio dialetto il termine tedesco Witz, divenuto nella Venezia Giulia vocabolo di uso corrente. Sarebbero tuttavia rimaste ad esempio le difficoltà per il corrispondente aggettivo witzig.
Anche per quanto riguarda le tendenze che si esprimono (e appagano) nei motti di spirito, vi sono complicazioni di traduzione, com’è spiegato all’inizio del capitolo 3.
Per l’arguzia priva di tendenze (nicht tendenziös), il traduttore ha impiegato il termine “imparziale”, oppure ha reso con l’espressione “innocente” la analoga parola harmlos.
Queste segnalazioni e considerazioni sono presentate al lettore perché egli si disponga a considerare i termini impiegati in questa traduzione come termini convenzionali, che vanno intesi nel significato tecnico ad essi attribuito, prescindendo dalle estensioni a cui si potrebbe essere indotti dall’uso corrente degli stessi vocaboli.