8. MATERIALE AGGIUNTIVO DAI TEMPI REMOTI. SOLUZIONE
In molte analisi affiorano improvvisamente, proprio quando ci si avvicina alla fine, nuovi ricordi che fino a quel momento erano stati tenuti accuratamente celati. Ovvero accade che il paziente, un bel giorno, faccia una certa osservazione: un’osservazione di poco conto, gettata là con tono indifferente, come se si trattasse di qualcosa di superfluo; ma ad essa, di lì a poco, segue qualcos’altro che si impone all’attenzione del medico; alla fine, in quel negletto frammento mnestico si giunge a riconoscere la chiave dei più significativi segreti che la nevrosi del malato aveva reso irriconoscibili.
Il mio paziente m’aveva comunicato assai per tempo un ricordo relativo all’epoca in cui la sua “cattiveria” andava mutandosi in angoscia. Egli inseguiva una bella grande farfalla striata di giallo, le cui grandi ali terminavano in appendici appuntite: un macaone dunque [vedi sopra, par. 2]. Improvvisamente, essendosi la farfalla posata sopra un fiore, s’era sentito assalire da una terribile paura dell’animale, ed era corso via gridando.
Questo ricordo, che ritornava di tanto in tanto nell’analisi, esigeva una spiegazione che per molto tempo non fu possibile dare. Era comunque presumibile, in via di principio, che questo dettaglio non si fosse iscritto nella memoria per virtù propria, ma in forza di qualche altra cosa più importante, ad esso in qualche modo connessa e ch’esso dissimulava in qualità di ricordo di copertura. Un giorno, il paziente mi informò che, nella sua lingua, farfalla si dice babuška, “nonnina”; le farfalle, del resto, gli erano sempre sembrate donne e ragazze, i coleotteri e i bruchi maschi. Doveva essere, dunque, il ricordo di una creatura femminile quello che s’era destato in lui in quella scena angosciosa. Confesso che allora prospettai la possibilità che le striature gialle della farfalla gli rammentassero strisce simili di un indumento femminile. Menziono questo fatto soltanto a titolo d’esempio, per mostrare quanto in genere siano inadeguate le prime combinazioni escogitate dal medico per risolvere certe questioni, e quanto sia ingiusto attribuire i risultati dell’analisi alla fantasia e all’influsso suggestivo del medico.
Parecchi mesi più tardi, in un contesto completamente diverso, il paziente rilevò che il motivo del suo turbamento di allora era stato l’aprirsi e il chiudersi delle ali della farfalla che si posava sul fiore; era come – egli disse – quando una donna apre le gambe, sì che esse formano un V, un cinque romano, corrispondente – come sappiamo – all’ora in cui già nella sua fanciullezza, e ancora adesso, il suo umore era solito oscurarsi [vedi sopra, par. 4].
Era questa un’associazione alla quale io non sarei mai pervenuto da solo, ma che si rivelava degna d’esser tenuta in conto per il carattere spiccatamente infantile del processo associativo che l’aveva prodotta. L’attenzione infantile, come ho avuto spesso occasione di rilevare, è attirata molto più dai movimenti che dalle forme immobili; i bambini stabiliscono spesso associazioni in base a movimenti simili che a noi adulti sfuggono o ai quali comunque non prestiamo attenzione.
Dopo di ciò, il piccolo problema rimase accantonato ancora per molto tempo. Citerò solo un’altra facile ipotesi che si poteva fare, e cioè che quei prolungamenti appuntiti o a forma di stecco delle ali della farfalla potessero avere un significato come simbolo genitale.
Un giorno affiorò una specie di ricordo esitante e indistinto: in un tempo lontanissimo, quando non c’era ancora la nanja, doveva esserci stato qualcun altro, una giovane bambinaia, che l’aveva amato molto e aveva lo stesso nome di sua madre. Egli aveva di certo contraccambiato la tenerezza di costei. Dunque, un primo amore poi obliato. Convenimmo peraltro che doveva essere accaduto qualcosa, allora, che avrebbe acquistato importanza in seguito.
In un’occasione successiva il paziente rettificò questo ricordo. Quella ragazza non poteva chiamarsi come sua madre; doveva trattarsi di un suo errore, il quale provava però, naturalmente, che nel suo ricordo ella s’era fusa con la madre. Il suo vero nome gli era invece venuto in mente in modo indiretto. Si era ricordato, d’un tratto, di un certo ripostiglio esistente nella casa della prima tenuta, dove si conservavano le frutta appena colte, e così aveva pensato a una certa specie di pere saporitissime, la cui buccia presentava delle striature gialle. Pera, nella sua lingua, si diceva gruša, e Gruša era anche il nome della bambinaia.
Fu chiaro dunque che dietro il ricordo di copertura della farfalla inseguita si nascondeva il ricordo della bambinaia. Le strisce gialle non erano peraltro quelle di un suo vestito, ma quelle del frutto che aveva il suo nome. Ma da dove proveniva l’angoscia connessa all’attivazione del ricordo di lei? La congettura più immediata e grossolana sarebbe stata che il paziente, quand’era ancora piccolissimo, avesse visto questa ragazza fare quei movimenti delle gambe che egli aveva messo in rapporto con il segno del V romano, e che questi movimenti avessero reso visibili i genitali della ragazza. Ci astenemmo, tuttavia, dal formulare congetture del genere, e restammo piuttosto in attesa di altro materiale.
Ben presto, in effetti, si presentò il ricordo di una scena, che pur essendo incompleta, si era serbata nitida nella memoria: Gruša era inginocchiata sul pavimento, con accanto un secchio e una corta scopa fatta di ramoscelli legati insieme; il bambino era là ed essa lo burlava o lo rimbrottava.
Ciò che mancava alla scena era facilmente rintracciabile da altre fonti. Durante i primi mesi del trattamento, il paziente mi aveva raccontato di un suo improvviso e ossessivo innamoramento per una giovane contadina, dalla quale all’età di diciotto anni aveva contratto l’affezione che fece precipitare la sua ulteriore malattia nervosa.771 A quel tempo tuttavia egli s’era astenuto con i più singolari pretesti dal dirmi il nome di questa ragazza. Ciò costituiva una resistenza del tutto isolata, poiché d’abitudine egli obbediva senza riserve alla regola fondamentale dell’analisi. Ora egli riteneva che la ragione della sua vergogna a dirmi quel nome dovesse risiedere in questo, che si trattava di un nome affatto rustico, quale una ragazza d’una certa distinzione non avrebbe mai portato. Questo nome, che alla fine venne fuori, era Matrona, un nome dal suono materno. La vergogna era evidentemente spostata. Il fatto in se stesso che questi suoi innamoramenti si rivolgessero esclusivamente a ragazze della più infima condizione sociale, non gli faceva vergogna; ciò che gli faceva vergogna era soltanto il nome. Se si fosse potuto accertare che l’avventura con Matrona aveva qualcosa in comune con la scena di Gruša, allora il motivo della vergogna sarebbe stato da ricercare in quell’antico episodio.
Un’altra volta il paziente mi aveva raccontato che, appresa la storia di Giovanni Huss, ne era rimasto assai colpito, e che la sua attenzione era rimasta particolarmente fissata sulle fascine di sterpi con le quali era stato acceso il rogo. La simpatia per Huss desta un ben preciso sospetto; l’ho riscontrata spesso nei miei pazienti giovani e sono riuscito a chiarirla sempre nello stesso modo. Uno di questi malati era giunto a elaborare un dramma sul destino di Huss, e aveva cominciato a scriverlo il giorno stesso in cui aveva perduto l’oggetto di un suo amore segreto. Huss muore per fuoco, e diviene con ciò, come tutti gli altri che possiedono gli stessi requisiti, l’eroe di coloro che in passato hanno sofferto di enuresi. Quanto al mio paziente, egli giunse da solo a connettere le fascine di sterpi del rogo di Huss con la scopa (insieme di ramoscelli) della bambinaia.772
Questo materiale veniva dunque a ordinarsi da sé, e permetteva di colmare senza sforzo la lacuna mnestica relativa alla scena con Gruša. Il bambino, guardando la ragazza che lavava il pavimento, aveva urinato nella stanza, e quella aveva perciò pronunciato, certo scherzosamente, una minaccia di evirazione.773
Non so se il lettore abbia già indovinato perché io abbia posto tanta cura nel riferire questo episodio della prima infanzia del paziente. Esso costituisce un importante anello di congiunzione tra la scena primaria e la successiva coazione amorosa [par. 4] che ha avuto conseguenze così decisive per il suo destino; l’episodio mette in luce inoltre una condizione a cui è soggetto il suo innamoramento e ne spiega il carattere coattivo.
Quando vide la bambinaia inginocchiata a terra mentre lavava il pavimento, le natiche protese e la schiena in posizione orizzontale, il bambino ritrovò nell’atteggiamento di costei la posizione che la madre aveva assunto nella scena del coito. La ragazza divenne per lui sua madre; e a causa della riattivazione di quell’immagine,774 l’eccitamento sessuale lo prese; egli si comportò allora verso di lei in modo maschile, come il padre, il cui atto, allora, egli non poteva interpretare che come un’emissione di urina. Il suo urinare sul pavimento fu, propriamente, un tentativo di seduzione, e la ragazza vi rispose con una minaccia di evirazione, come se lo avesse compreso.
La coazione derivante dalla scena primaria si traspose su questa scena con Gruša, e continuò a vigere grazie ad essa. La condizione relativa all’innamoramento, tuttavia, subì una modificazione che testimonia l’influsso della seconda scena; essa si trasferì dalla posizione della donna all’attività svolta da costei in tale posizione. Ciò divenne evidente, per esempio, nell’episodio di Matrona. Il paziente stava facendo una passeggiata nel villaggio – villaggio che faceva parte della (successiva) tenuta [vedi par. 2] – quando vide in riva a uno stagno una giovane contadina inginocchiata a lavar panni. Egli si innamorò istantaneamente e con violenza irresistibile della giovane lavandaia, nonostante non fosse riuscito neppure a vederla in viso. In ragione della sua posizione e di ciò che stava facendo ella aveva preso ai suoi occhi il posto di Gruša. Noi comprendiamo ora come la vergogna che si riferiva al contenuto della scena con Gruša potesse annodarsi al nome di Matrona.
L’influenza coercitiva della scena con Gruša risulta ancora più chiara in un altro innamoramento del paziente, precedente di alcuni anni l’episodio di Matrona. Serviva in casa una giovane contadinella che egli s’era sempre astenuto, benché già da tempo gli piacesse, dall’avvicinare. Ma un giorno che la trovò sola in una stanza fu sopraffatto dall’amore. Ella era inginocchiata a terra nell’atto di lavare, con accanto un secchio e una scopa come la ragazza della sua infanzia.
La stessa scelta oggettuale definitiva del nostro paziente, che tanta importanza ebbe per tutta la sua vita, dimostrò (per le sue peculiarità che non staremo qui a riferire) di dipendere da quella condizione; di essere, cioè, un esito della coazione che a partire dalla scena primaria, e passando per la scena con Gruša, era diventata dominante per le sue scelte amorose. Ho fatto osservare più sopra come io avessi ben riconosciuto nel paziente la tendenza a sminuire l’oggetto d’amore. Essa andava spiegata come reazione alla superiorità della sorella che tanto lo aveva oppresso. Ma avevo anche promesso di mostrare (vedi par. 3) come questo motivo ispirato al suo bisogno di affermarsi non fosse l’unico, e fosse inteso invece a coprire un fattore determinante più profondo, di carattere squisitamente erotico. Il ricordo della bambinaia in atto di lavare per terra, in quella posizione effettivamente avvilente, mette in luce questa motivazione. Tutti i suoi ulteriori oggetti d’amore furono persone sostitutive della bambinaia, e cioè della persona che casualmente, in virtù di quella posizione, era divenuta essa stessa il primo sostituto della madre. La prima idea che era venuta in mente al paziente circa il problema della sua angoscia di fronte alla farfalla è retrospettivamente interpretabile con facilità come una lontana allusione alla scena primaria (le ore cinque). Egli confermò, d’altra parte, il rapporto tra la scena con Gruša e l’evirazione grazie a un sogno singolarmente significativo, che riuscì a interpretare da sé.
– Ho sognato – disse – di un uomo che strappava le ali a un’espa.
– Espa? – chiesi. – Che cosa intende?
– Ebbene, quell’insetto con strisce gialle sul corpo, che punge. Deve trattarsi di un’allusione a Gruša, alla pera striata di giallo.
– Ma allora lei vuol dire vespa, – corressi.
– Ah, si dice vespa? Credevo si dicesse espa. (Come molte altre persone il paziente si serviva delle sue difficoltà linguistiche col tedesco per coprire degli atti sintomatici.) Ma espa, allora, sono io: S. P. (le sue iniziali).775 L’espa è ovviamente una vespa mutilata, e il sogno rappresentava chiaramente una vendetta del paziente su Gruša per la sua minaccia di evirazione.
L’azione compiuta dal bambino di due anni e mezzo nella scena con Gruša è il primo effetto della scena primaria di cui siamo venuti a conoscenza; essa ci presenta il bambino nell’atto di imitare il padre e ci permette di riconoscere in lui una tendenza a evolversi in una direzione che in seguito potrà essere chiamata virile. La seduzione ad opera della sorella lo costrinse a una passività alla quale d’altra parte era già stata preparata la strada dal suo comportamento come spettatore del coito dei genitori.
Tornando alla storia del trattamento, devo sottolineare che una volta padroneggiata la scena con Gruša – cioè la prima esperienza che egli potè realmente ricordare senza congetture e interventi da parte mia – si ebbe l’impressione che il problema della cura fosse risolto. Da allora in poi non vi furono più resistenze; non restava che raccogliere e coordinare i fatti. La vecchia teoria traumatica, che del resto era stata edificata su impressioni tratte dalla terapia psicoanalitica, riacquistava a un tratto tutto il suo valore.776 Spinto da un interesse di ordine critico, rinnovai allora il tentativo di imporre al paziente un’altra concezione della sua storia, più accettabile per il sobrio intelletto. Certamente la scena con Gruša non poteva esser messa in dubbio, ma si doveva pensare che essa non avesse significato nulla in se stessa, e fosse stata rafforzata in un secondo tempo: a partire, regressivamente, dalle circostanze che avevano caratterizzato la scelta oggettuale del paziente, scelta che a seguito della sua tendenza a svalutare l’oggetto stesso era stata sviata dalla sorella per rivolgersi alle donne di servizio. Quanto all’osservazione del coito, essa non sarebbe stata che una fantasia dei suoi anni più tardi, il cui nucleo storico poteva essere costituito da un qualche innocente lavaggio osservato o fors’anche sperimentato di persona da lui stesso. Diversi miei lettori sono forse d’opinione che soltanto con queste ipotesi io mi fossi finalmente avvicinato alla comprensione del caso; ma il paziente, quando gli esposi questa concezione, mi guardò come se non capisse, anzi con un certo disprezzo, né mai più reagì ad essa. I miei argomenti contro simili razionalizzazioni li ho già sviluppati a dovere in un altro contesto.777
{La778 scena con Gruša non soltanto ci chiarisce le condizioni della scelta oggettuale del paziente, condizioni che influirono profondamente sulla sua vita; e non solo ci salva dall’errore di sopravvalutare la sua tendenza a sminuire la donna; essa legittima altresì il rifiuto che io opposi (par. 5) a ricondurre senz’altro la scena primaria a un’osservazione di animali compiuta poco prima del sogno, e ad ancorarmi a quest’unica spiegazione. La scena con Gruša era emersa spontaneamente nel ricordo del paziente, senza alcun intervento da parte mia. La paura, da essa originata, della farfalla striata di giallo dimostrò che la scena stessa aveva avuto un contenuto significativo, o che comunque, retrospettivamente, era stato possibile attribuirglielo. Questa significatività, che mancava al ricordo in quanto tale, si poteva accertare con sicurezza dalle associazioni che l’avevano accompagnato e dalle conclusioni che da esso andavano tratte. Risultò dunque che la paura della farfalla era perfettamente analoga a quella del lupo: in entrambi i casi paura dell’evirazione, paura innanzitutto riferita alla persona che per prima aveva pronunciato la minaccia di evirazione, e in seguito trasposta su un’altra persona, alla quale restò ancorata in virtù di un modello filogenetico. La scena con Gruša s’era svolta quando il bambino aveva due anni e mezzo, mentre l’episodio angoscioso della farfalla gialla era certamente posteriore al sogno d’angoscia. Era facile rendersi conto che la comprensione avvenuta dopo della possibilità dell’evirazione aveva generato retrospettivamente in lui l’angoscia connessa alla scena con Gruša; ma la scena stessa non aveva niente di fastidioso o inverosimile, ed era anzi costituita di banalissimi dettagli di cui non avevamo motivo di dubitare. Nulla ci spingeva dunque a riportarla a una fantasia del paziente, e anzi ciò era praticamente impossibile.
Si pone tuttavia la questione: siamo autorizzati a ravvisare una prova dell’eccitamento sessuale del bambino nel suo urinare mentre assiste alla scena di Gruša che in ginocchio lava il pavimento? Se è così, questo eccitamento testimonierebbe dell’influsso di un’impressione anteriore che avrebbe potuto derivare sia dall’effettivo svolgersi della scena primaria, sia da una osservazione compiuta sugli animali prima dei due anni e mezzo. O invece dobbiamo credere che tutta la situazione sia perfettamente innocente, che lo svuotamento della vescica fu puramente accidentale, e che l’intera scena venne sessualizzata soltanto in seguito, quando il bambino ebbe appreso a riconoscere come significative situazioni analoghe?
Non m’arrischio a pronunciarmi su tale questione. Debbo dire, del resto, che considero un alto merito della psicoanalisi il solo fatto che essa sia giunta a porsi interrogativi di questa natura. Non posso negare, tuttavia, che la scena con Gruša, la parte che essa ebbe nell’analisi, e le conseguenze che ne risultarono per la vita del paziente, si spiegano nel modo più chiaro e meno forzato ove si ammetta che la scena primaria, che in altri casi può anche essere una fantasia, corrispondesse in questo caso alla realtà. Dopotutto essa non implica nulla di impossibile, e l’ipotesi della sua realtà si accorda perfettamente anche con l’influenza eccitatrice delle osservazioni sugli animali cui allude la presenza dei cani da pastore nell’immagine onirica.
Passo ora, da questa insoddisfacente conclusione, all’esame di una questione di cui mi sono già occupato nell’Introduzione alla psicoanalisi (1915-17) [lez. 23]. Io stesso amerei sapere se la scena primaria, nel caso del mio paziente, sia stata una realtà o solo una sua fantasia; ma si deve convenire, tenuto conto di altri casi analoghi, che la cosa non riveste una grande importanza. Le scene di osservazione del coito dei genitori, di atti di seduzione subiti nell’infanzia e di minacce di evirazione costituiscono indubbiamente un patrimonio ereditato, un’eredità filogenetica; esse tuttavia possono altresì esser acquisite in virtù di una personale esperienza. Nel caso del mio paziente, la seduzione da parte della sorella maggiore corrispondeva a una realtà incontestabile; perché non vi poteva corrispondere anche l’osservazione del coito dei genitori?
La preistoria delle nevrosi ci insegna una cosa sola: che il bambino ricorre a questa esperienza filogenetica nel caso in cui la sua esperienza personale non sia sufficiente. Egli colma le lacune della verità individuale per mezzo della verità preistorica, pone l’esperienza dei progenitori al posto della propria esperienza. Convengo pienamente con Jung779 nel riconoscere questa eredità filogenetica; ma non mi sembra corretto, dal punto di vista metodologico, ricorrere a un’interpretazione filogenetica prima di aver esaurito le possibilità dell’ontogenesi; e non comprendo perché si neghi così ostinatamente alla preistoria infantile un significato che si è disposti a riconoscere alla preistoria ancestrale. Non mi sembra che si possa negare, inoltre, che gli intenti e le produzioni filogenetiche hanno anch’essi bisogno di chiarimenti che in tutta una serie di casi l’infanzia individuale è in grado di fornire. Infine, non mi pare sorprendente che a parità di condizioni possa riprodursi nell’esperienza di un singolo organismo un evento prodottosi in tempi preistorici e successivamente tramandato come disposizione a riviverlo.}
Nell’intervallo di tempo tra la scena primaria e la seduzione (cioè tra l’età di un anno e mezzo e quella di tre anni e tre mesi) bisogna anche considerare il rapporto col muto portatore d’acqua [par. 7] che per il paziente rappresentava un sostituto del padre come Gruša era un sostituto della madre. Non credo che in questi due casi si possa parlare di tendenza alla svalutazione nonostante entrambi i genitori fossero qui rappresentati da persone di servizio. I bambini infatti trascurano le differenze sociali che significano ben poco per loro e pongono sullo stesso piano dei genitori anche gli individui di condizione più umile se da essi sono amati come dai genitori. Tanto meno dovrà parlarsi di tale tendenza a proposito della sostituzione dei genitori con animali, dato che i bambini sono ben lungi dal tenere gli animali in poco conto. Del pari è da escludere la tendenza svalutativa quando i genitori sono rappresentati da zii e zie; ciò è dimostrato anche dal caso del nostro paziente che operò sostituzioni di questo genere, testimoniate da parecchi dei suoi ricordi.
A questa stessa epoca risale anche una fase, di cui il paziente ha un oscuro ricordo, durante la quale egli non voleva mangiare niente altro che dolciumi, tanto che si temette per il suo futuro. In quell’occasione gli fu raccontata la storia di uno zio, che come lui aveva rifiutato il cibo ed era morto di consunzione in giovane età. Seppe anche che all’età di tre mesi egli stesso era stato così malato (di polmonite?) che gli avevano già preparato il sudario. Tutto ciò riuscì ad allarmarlo al punto che ricominciò a mangiare; negli anni successivi dell’infanzia esagerò addirittura nell’adempimento di questo dovere, come per salvaguardarsi dalla minaccia di morte. La paura della morte, che in quell’occasione gli era stata inculcata per il suo bene, si manifestò di nuovo più in là, quando la madre lo mise in guardia contro il pericolo della dissenteria [ibid.]. Più tardi ancora essa provocò un accesso di nevrosi ossessiva (par. 6). Cercheremo in seguito di accertare l’origine e il significato di questa paura [vedi oltre, par. 9].
Per quanto riguarda l’inappetenza, tenderei a considerarla la primissima malattia nevrotica del paziente; sicché nell’inappetenza stessa, nella fobia dei lupi e nella religiosità ossessiva potremmo ravvisare la serie completa delle sue malattie infantili da cui risulterebbe la disposizione al crollo nevrotico verificatosi negli anni successivi alla pubertà. Mi si obietterà che pochi bambini sfuggono a disturbi come una temporanea perdita dell’appetito o una fobia di animali. Ma una tale obiezione è per me la benvenuta. Sono pronto a sostenere che la nevrosi dell’adulto è sempre costruita su una nevrosi infantile che non sempre però è abbastanza intensa da esternarsi per chiari segni ed essere riconosciuta come tale. Quella obiezione, dunque, non fa altro che sottolineare l’importanza teorica delle nevrosi infantili per una corretta valutazione di quelle malattie che noi trattiamo come nevrosi e che tendiamo a far derivare soltanto dalle circostanze della vita adulta. Se il nostro paziente, oltre che di un’inappetenza e di una zoofobia, non avesse sofferto anche di una religiosità ossessiva, la sua storia non si sarebbe distinta in modo particolare da quella di altri bambini, e noi saremmo rimasti privi di un prezioso materiale atto a salvaguardarci da facili errori.
L’analisi di questo caso sarebbe insoddisfacente, se non ci permettesse di comprendere la lagnanza in cui il paziente riassumeva tutti i suoi mali. Egli affermava [vedi par. 7] che il mondo era per lui come avvolto da un velo, e la dottrina psicoanalitica ci vieta di supporre che quelle parole fossero prive di significato e come scelte a caso. Il velo si squarciava – fatto singolare – in una sola circostanza: quando, a seguito di un enteroclisma, il contenuto intestinale passava per l’ano. Allora il paziente si sentiva di nuovo bene e, per un brevissimo momento, vedeva il mondo chiaramente. Scoprire il significato di questo “velo” fu altrettanto difficile che interpretare la paura della farfalla. Il paziente, d’altra parte, non sempre si atteneva alla sua idea del velo, ma questo si dissolveva talora in una sensazione di crepuscolo, di ténèbres, e in altre sensazioni inafferrabili.
Solo poco prima di prender congedo dalla cura il paziente rammentò di aver udito dire che era venuto al mondo in un amnio.780 Ecco perché aveva sempre ritenuto di essere particolarmente fortunato e che nulla di male potesse succedergli. Perdette questa fiducia solo quando dovette riconoscere che l’infezione blenorragica che lo aveva colto costituiva effettivamente un grave danno per il suo corpo. Questo colpo inferto al suo narcisismo provocò il crollo. Si ripeteva così, possiamo dire, il giuoco di un meccanismo che aveva già operato in lui una volta. Anche la sua fobia dei lupi, infatti, era scoppiata quando egli s’era trovato dinanzi alla possibilità reale dell’evirazione; evidentemente egli aveva poi assimilato la gonorrea all’evirazione.
L’amnio è dunque il velo che separa lui dal mondo e il mondo da lui. La sua lagnanza è in realtà una fantasia di desiderio realizzata che rappresenta il ritorno al ventre materno; è comunque una fantasia di fuga dal mondo. Ecco la sua traduzione: la mia vita è così infelice che debbo rientrare nel grembo di mia madre.
Cosa significava però che quel velo simbolico, una volta reale, si lacerasse nel momento dell’evacuazione dopo l’enteroclisma, e che in questa circostanza il suo fastidio sparisse? Il contesto ci permette di rispondere: quando il velo della nascita si squarcia, allora egli vede il mondo ed è come rinato; le feci sono il bambino, nella persona del quale egli nasce una seconda volta, a una vita più felice. Si tratterebbe dunque della fantasia di una seconda nascita, fantasia sulla quale Jung ha recentemente richiamato l’attenzione attribuendole una posizione di grande rilievo nella vita immaginativa dei nevrotici.781
Tutto ciò sarebbe bellissimo se non mancasse qualcosa. Ma certe particolarità della situazione, e il confronto del suo contesto generale con la storia individuale del nostro paziente, ci obbligano a condurre più oltre l’interpretazione. Condizione della rinascita era che l’enteroclisma gli venisse praticato da un uomo (al quale solo più tardi, per necessità, egli sostituì se stesso). Ciò non può voler dire altro che egli s’era identificato con la madre, che l’uomo faceva la parte del padre, e che l’enteroclisma rinnovava l’atto copulativo, come frutto del quale il bambino-feci (egli stesso) veniva partorito. La fantasia della rinascita è dunque strettamente connessa alla condizione del soddisfacimento sessuale procurato da un uomo. La traduzione è dunque ora la seguente: solo quando egli può mettersi al posto della donna e sostituirsi a sua madre per lasciarsi soddisfare dal padre e partorirgli un bambino, solo allora la sua malattia gli dà tregua. La fantasia della rinascita, dunque, altro non è in questo caso che una riedizione mutila, censurata, di una fantasia di desiderio omosessuale.
Se poi guardiamo le cose ancor più da vicino, ci accorgiamo che in realtà, ponendo questa condizione alla propria guarigione, il malato non faceva che rinnovare la situazione della cosiddetta scena primaria: in quest’ultima, egli aveva voluto confondersi con la madre, e aveva prodotto egli stesso, come abbiamo già riconosciuto da tempo, il bambino-feci. Egli continuava dunque ad esser fissato, come per un sortilegio, a quella scena che sarebbe stata decisiva per la sua vita sessuale, scena il cui ritorno, nella notte del sogno, inaugurò la sua malattia. Il lacerarsi del velo è analogo allo schiudersi degli occhi, all’aprirsi della finestra. La scena primaria si tramutò in condizione della guarigione.
Ciò che il paziente intendeva esprimere con la sua lagnanza e l’unica condizione che poteva acquietarla si integrano così in una unità che ne rende perfettamente intelligibile il senso. Il paziente desidera rientrare nel ventre materno non semplicemente per rinascere, ma per essere trovato là, durante il coito, dal padre, per ottenere il soddisfacimento da quest’ultimo, e per partorirgli un bambino.
Esser partorito dal padre (come al principio egli aveva creduto si potesse), ottenere da lui il soddisfacimento sessuale, regalargli un bambino a prezzo della propria virilità: tutti questi desideri, espressi nel linguaggio dell’erotismo anale, appartengono al circolo chiuso della fissazione sul padre e conferiscono all’omosessualità la sua estrema e più intima espressione.782
Mi sembra che questo esempio chiarisca altresì il significato e l’origine sia della fantasia di tornare nel ventre materno sia di quella della rinascita. La prima di esse si origina sovente, come nel nostro caso, dall’attaccamento al padre. Si desidera tornare nel ventre della madre per sostituirsi a lei nel coito e prenderne il posto accanto al padre. Quanto alla fantasia della rinascita, verosimilmente essa è in tutti i casi un’attenuazione, un eufemismo per così dire, della fantasia di rapporti incestuosi con la propria madre: un’abbreviazione anagogica – per usare l’espressione di H. Silberer783 – di questa fantasia. Desiderando di ritrovarsi nella situazione in cui era nei genitali della madre, l’uomo si identifica col proprio pene e si rappresenta in esso. Le due fantasie si rivelano allora come una il corrispettivo dell’altra: esse esprimono cioè, a seconda che l’atteggiamento in giuoco sia quello maschile o quello femminile, il desiderio del rapporto sessuale con la madre o con il padre. Non è da escludere che nella lagnanza e nella condizione della guarigione del nostro paziente, si trovassero riunite entrambe le fantasie, e cioè entrambi i desideri incestuosi.784
Voglio tentare, ancora una volta, di reinterpretare gli ultimi esiti dell’analisi secondo il modello dei miei oppositori. Il paziente lamentava la propria fuga dal mondo in una tipica fantasia di ritorno al ventre materno, e ravvisava l’unica via di guarigione in una caratteristica fantasia di rinascita. Egli esprimeva quest’ultima fantasia in sintomi anali corrispondenti alla sua inclinazione predominante. Secondo il prototipo della fantasia di rinascita attraverso l’ano, egli s’era raffigurato una scena infantile in cui i suoi desideri erano riprodotti in un linguaggio arcaico e simbolico. I suoi sintomi, pertanto, venivano a concatenarsi come se derivassero realmente da questa scena primaria. Era stato costretto a compiere tutto questo cammino a ritroso poiché s’era imbattuto in un problema vitale che la sua pigrizia non gli consentiva di risolvere, o forse, perché avendo degli ottimi motivi per temere la propria inferiorità, pensava di potersi proteggere alla meglio dai colpi che la vita gli avrebbe inferto ricorrendo a simili espedienti.
Tutto ciò andrebbe benissimo se soltanto l’infelice non avesse avuto già a quattro anni quel sogno che inaugurò la sua nevrosi, quel sogno che aveva preso lo spunto dalla storia del sarto e del lupo raccontatagli dal nonno, e la cui interpretazione rende necessaria l’ipotesi di una scena primaria di quel genere. Contro queste piccole, ma incontestabili circostanze di fatto vanno a picco purtroppo le semplificazioni proposteci dalle teorie di Jung e di Adler. Data la situazione, mi sembra più probabile che la fantasia della rinascita sia una propaggine della scena primaria piuttosto che viceversa quest’ultima sia un riflesso di quella fantasia. Si potrebbe forse obiettare che il paziente, all’età di quattro anni, era ancora troppo piccolo per desiderare già di nascere una seconda volta. Ma quest’argomentazione è meglio lasciarla perdere; le mie personali osservazioni dimostrano che i bambini sono stati sottovalutati, e che davvero non si sa più che cosa non sia lecito attribuire loro.785